ANCHE LA CROCE MI FU CAUSA DI CONVERSIONE

(Da: Giovanni Papini, La Croce, in: La seconda nascita, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 21-27) 

 

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                Di faccia a casa mia (a Subbiano) c'è una croce. Una croce nera, di legno, piantata nello scoglio. Non grande: appena un ragazzo vi potrebbe esser crocifisso. Non ricca, non bella, non paurosa. Rattoppata con pezzi di latta, squadrata da un contadino con l'accetta; scalzata, tremante, benvoluta.

                Un calvario domestico; intorno, nel sodo, i fiori l'adorano nelle stagioni feconde; vi salgono le paoline, vi prendono il sole le lucertole,  e le farfalle vi s'accoppiano. Le formiche hanno fatto del basamento un granaio; per i serpi è una terrazza; per gl'innamorati della Domenica, un riparo; per la Madonna di Maggio e per la Madonna di Settembre, tutto il popolo vien quassù, coi preti parati, la statuina della Vergine, gli uomini della Compagnia incappati e con la mantellina rossa, le ragazze col velo bianco, e tutti s'inginocchiano,  se non piove e il sole di primavera e d'autunno fa da raggiera al santissimo.

                Da tre anni uomini e donne mi chiedono per quali ragioni son tornato a inginocchiarmi, per quali strade ho riconosciuto il cammino che conduce alla grotta  di Cristo, ai monti delle beatitudini e del sangue. Posso rispondere che una delle ragioni è questa Croce di legno ? Chi mai vorrebbe capire ? Due pezzi di legno incatramati son forze una ragione, un argomento, un'apologia?

                Quando venni la prima volta quassù c'èra la Croce: la prima cosa che vidi arrivando dopo una salita nella nebbia piovorna d'aprile. Sul primo non ci badai, emblema d'una fede contadina, che ormai si rifugiava nelle alture, tra i medievali sopravvissuti. Ma presto fu mia: li sotto era bello il vedere, bello il posare. Sull'erba, le spalle appoggiate allo scoglio, accanto a due sterpi di carpini, tra i cardi (fiori azzurri tutta sostanza, e confacenti alla mia natura) era dolce veder passare il tempo, soffermarsi il fiume, rifarsi le nuvole. Tutta la valle, da quella punta protesa, era mia. Le montagne mi salvavano a levante dall'Adriatico; a tramontana dalla Romagna, a mezzogiorno dall'Umbria. Camminando un po' alla mia sinistra avrei bevuto alla polla del Tevere e mi sarei trovato sui tre poggi republicani; camminando dinanzi a me, avrei avvistato i barconi che portano il sole pitturato sulla vela, per i giorni di buriana; viaggiando a destra avrei rifatto il cammino di San Francesco quando tornò dalla Verna per andare alla sua patria e  alla sua tomba.

                Ma tutte queste tentazioni non mi tentavano; appollaiato su quel sasso toscano, in questo estremo biscanto della mia terra, mi rassegnavo alla meditazione, combattevo colle mie voglie, mi rifornivo d'aria corrente. Quante ore della mia vita ho passato all'ombra della mia Croce.

                Di lassù ho visto la terra in tutti i suoi costumi, certi giorni le montagne sparivano, un vapore di umido silenzio colmava la valle, una muraglia di nebbia nera chiudeva ogni passo: rimanevo solo colla Croce, io solo nel mondo come l'unico uomo scampato a un nuovo diluvio, avviticchiato all'albero nero dell'ultimo scoglio emerso dal nulla: solo al di sopra di un infinito mare di fumo e di cenere, a tu per tu col Crocifisso.

                In altri giorni tutto il mondo era bianco, cielo e terra. Poggi di sale brillante sopra un cielo di argento liquefatto. I tronchi spogliati delle macchie, ignudi, maligni, neri, come forche abbandonate da una migrazione d'incendiari disertori. Il sole era trasparente e imitava la pallida etisia della luna.

                Poi arrivavano i giorni della insurrezione e della libidine. Il sole mangiava la neve per ristorare i campi mangiati dalla ghiaccia; i fossi cantavano e correvano come giovani liberati; ogni proda voleva la sua erba, ogni solco i suoi fili di grano, ogni boccon di terra il suo fiore. Gli alberi che parevan chiusi nella vecchiaia della corteccia, mettevan fuori tante gemme, come bolle d'una eruzione, e le gemme scoppiavano tutte le mattine, le foglioline pelose allargavano i ciuffi, si stendevano all'aria, verdeggiavano al sole. Gli uccelli le adocchiavano da lontano e come i poeti, lodavano l'opera altrui. Le pecore annerite dall'invernata, figliavan agnelli che sul primo non si reggevan da sé e in pochi giorni correvan belando nelle pasture; le fratte s'imbiancano di spinalbello; il tevere si stendeva al sole sui sassi; e nell'eterno circo dei monti ricominciava l'eterna pastorale della primavera: corta commedia che aveva odore di violette e di concio.

                Allora eran belli i campi a guardarsi: chiusi nelle siepi, protetti dai pastori, insanguinati dai poveri, ondeggiati dal vento, sembravano geometrie di verde fradicio tra muriccioli di pruni. L'intenzione degli uomini era stata geometrica; ma presso alle losanghe e ai rettangoli quasi perfetti si vedevano quadrati con siepi a golfi e gobbe, e striscie che non riuscivano a congiungersi nella punta d' un triangolo. Le strade e i sentieri affogati dai nevai, ricominciavano cautamente a scendere e a salire: a un tratto si nascondevano in un bosco giovane, si appiattavano nelle ripiegature della terra, ma poi tornavano a splender di sassi sulle cime: trionfo dell'uomo ostinato sul disordine della natura. Qppure anche le strade, un giorno dettero foglie alle capre, pane al mezzadro, fiori alla chiesa: i nostri passi l'hanno condannate alla sterilità dei botri, al fangume sassoso delle carraie. Ma chi possiede un cuore capace di compatire la terra sacrificata, di sentir pietà per le strade?

                E passavano le settimane delle nozze annuali del cielo e della terra; il cielo compiaceva a tutti i desideri della campagna e la campagna si copriva delle sue vesti nuove, le più sfoggiate, per compiacere allo sguardo del cielo. Anche gli alberi più poveri offrivano infiorescenze bianche e rosate alla brezza; anche dai sassi delle muriccie scappavano bocci di rose e i fiori del giaggiolo imitavano l'acquamarina, le camomille lo zolfo in mezzo a petali di latte.

                Ma via via che il sole pigliava forza e s'inebriava del suo calore orgoglioso i campi erano costretti a riflettere il suo colore; a diventar bianchi, biondi, dorati come lui. Qualche pezzatura di saggina o di formentone resisteva; le ciliegie aspettavan la sete, il grano la falce. Cominciando dal basso le compagnie degli scamiciati salivano armate di ferro; ogni tanto si stendevano all'ombre, ogni tanto vociavano e la terra a poco a poco ritrovava la sua sincera nudità di stoppia petrosa. La festa era finita, le vacche erano aggiogate alle treggie; l'aria era ferma nell'affocato stupore delle giornate senza fine e senza notte; i ragazzi guadavano il Tevere senza bagnarsi; la prima cicala si stancava di cantar sola, la ghiandaia stramazzava ed era giunto alla fine il paradiso dei ramarri, la cuccagna dell'api.

               Ma più bello sembrava ai miei affaticati occhi, l'universo, quando a settentrione salivano a branchi le nuvole mortuarie annunziate dai tamburi del tuono, frustate dal lampeggiamento, perseguitate dal vento. L'acqua come una colonna brumosa le seguiva, veniva da lontano, fuggendo, battendo tra nembi carbonosi fulminati di rosso. La terra riarsa la chiamava, ogni foglia si spiegava, si stendeva per accoglierla, i solchi vuoti l'aspettavano; le macchie mareggiavano a stormo, con muggiti di desiderio. Allegrezza di rospi, trionfo di raganelle, resurrezione di piante e di vene! Scroscia e romba il cielo in aspetto di gastigo e quel gastigo è un premio, una voluttà, una salvezza. Quando il sole tornava tra le nuvole rotte, con spade oblique di raggi tra le bianche radure dell'aerea retroguardia, non riconosceva il suo regno. La terra, come un bel corpo uscito dal lavacro, splendeva di zaffiri e diamanti e pochi giorni bastavano per darle la consolazione di una seconda primavera.

                Poi veniva, con la sua bigia e pigra pesantezza, l'ottobre. fumavamo i campi nell'albe di guazza, fumavano le case prima di mezzogiorno, fumavano i fuochi dei carbonai, fumavano sui poggi gli stracci delle brumaie lacerate. S'ammontavano le nuvole sulle montagne, come a umiliarle. Ma i monti non sentono il peso; possono esser coperti, non riescono a stancarli, non riescono ad abbassarli. Ma premono sul cuore dell'uomo che guarda; ripensa alle primavere e all'estati dei suoi anni; sente approssimarsi il rintanamento, il fango del novembre, la neve del dicembre, la fine delle stagioni, delle cogliture, delle speranze. Il cielo screpolato, livido, marcio, par che s'abbassi, stanco, sulla terra stanca, sulla terra che si nasconde sotto le foglie morte, sotto l'erbe esanimi, sotto i fiori estremi.

                Allora si scopron le case: cubi di calce coperti di pietra buia, abituati alle settimane di piova, al fumo dei forni, alle monotone furie notturne dei venti. Giù dalla strada maestra sale fino alla Croce, chiaro nel primo freddo, lo scalpitio della cavalla che torna dal paese, e la stracca ottava del barrocciaio che addolcisce la solitudine e accompagna la calata d'un sole invisibile.

               

FINE

 

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