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Le fortune letterarie della toscana che segnarono per sempre la nascita della letteratura italiana distinta dal latino, sono in senso cronologico, posteriori ai medesimi contributi umbri alla letteratura nazionale; e pur procedendo specialmente con Dante (1265-1321; ma con anche il Petrarca -1304.74-, e non fa del tutto eccezione il Boccaccio -1313-75- 1), dal medesimo principio della fede cattolica, tuttavia finiscono per curare di più l'aspetto estetico a scapito di quello poetico e mistico.
Al contrario l'Umbria, col Serafico d'Assisi (Francesco d'Assisi, 1182-1226) e Iacopone da Todi (Iacopo De Benedetti, 1230.36-1306), compone un italiano volgare più puro e meno estetico, ma al contempo più potente per chiarezza e spinta lirica e poetica : il Cantico delle creature resta il fondamento poetico della lingua nazionale, mai superato, e sempre valido come esempio e modello da seguire (anche per questo è stato bene che si sia pensato a fare di S. Francesco, il patrono d'Italia).
Ma che cosa resta oggi nel dialetto umbro, per esempio tra Foligno e Assisi, delle parole usate da S. Francesco e Iacopone ?
Qualcosa resta, perché ad es. ancora oggi si dice: lo jorno, proprio come nel Cantico delle Creature, per dire: il giorno. Ma forse nel complesso resta poco; e ciò dico anche se in proposito sarebbe necessario uno studio sistematico e mirato, che in questa sede né ho svolto, né reperisco da altri.
Tuttavia un tratto del carattere popolare mi sembra che sopravviva in questa gente umbra : la propensione alla spontaneità, alla dolcezza, alla franchezza solare, simile all'estrema sintesi in proposito, che si ricava dal carattere umano e poetico del Santo d'Assisi.
E pensare che questo tratto gentile e nostrano del popolo, è racchiuso dentro una estetica dialettale che preferisce la laconicità sintetica, la scorciatoia personalizzata più che retorica del concetto; preferisce la gabbia del nostrano e dell'indigeno (a volte del primitivismo verbale) in orgogliosa antinomia alla norma scolastica o televisiva o giornalistica, comunque ufficiale dell'italiano parlato e scritto. E qui nel senso della analogia è evidente la parentela con Iacopone, più ancora che con Francesco.
Questa sintesi tra carattere popolare e espressione dialettale, ha però delle norme precise che compongono non una inflessione qualunque che diverge dall'italiano, ma compongono un vero e proprio dialetto, con morfologia e sintassi propria.
Ecco in proposito alcuni esempi, che mi tornano in mente: a Foligno si dice: Ci stanno per dire ci sono, sono; Fonno per dire furono; Lu per dire il (lu trattore..). I nomi propri sono molto spesso abbreviati : Lorè per dire Lorenzo, Orlà per dire Orlando...ecc. Spesso si premette una a esclamativa al nome proprio, per enfatizzarne la pronuncia: onde si dice, anzi si chiama: a Lorè a Orlà... . Si dice vò per io vado ... .
Non bisogna dimenticare in conclusione, che l'odierni umbri, col loro carattere e il loro dialetto, sono quanto rimane di quella identità storica etnica e linguistica, che per importanza, veniva subito dopo gli Etruschi, ed esisteva già formata tra Teramo e Ascoli Piceno (assestandosi in seguito tra Gubbio e Terni e il Medio Adriatico), prima ancora della nascita di Roma.
Devesi pertanto ritenere del tutto naturale che, nonostante la globalizzazione economica e culturale, ancor oggi si riscontri in Umbria, una forte indole popolare con anche un preciso o caratteristico risvolto linguistico-dialettale. Tuttavia sia questa indole che il suo dialetto, abbisognerebbero di maggiore studio e rivalutazione, anche nel quadro della identità nazionale e linguistica dell'Italia. E ne abbisognerebbero nonostante che gli sviluppi della letteratura in Umbria, successivi a S.Francesco e Iacopone, conoscano un curioso stato di dormizione, onde il Pontano quattrocentesco e petrarchesco (che scrive solo in latino) e Sandro Penna perugino e dall'arte antiermetica ma omosessualoide, nonché i giovanissimi romanzieri Rosa Matteucci e Filippo Timi nel secolo XX°, sono più delle eccezioni alla regola che il frutto dalla medioevale continuità.
1: Giovanni Boccaccio, cavalcando il profano, finisce per cavare dal mondo religioso e dalla opposizione a questo, sia buona parte della sostanza tematica che buona parte della retorica antitetica. Senza la sfera del sacro e della religione, egli non avrebbe potuto essere il profano dissacratorio del Decamerone, venuto meno poi (almeno nel pensiero interiore e non nelle opere letterarie) nell'ultimo periodo della sua vita.
FINE
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