[CATECHISMO DI SAN TOMMASO D'AQUINO] 1a)
La fede descritta dal Catechismo di San Timmaso d'Aquino |
Opuscoli
teologico - spirituali
Titolo originale dell'opera:
In symbolum
apostolorum, scil. «Credo in Deum», expositio.
In orationem
dominicam, videlicet «Pater noster», expositio.
In duo
praecepta caritatis et in decem legis praecepta expositio.
In salutationem angelicam, vulgo «Ave Maria», expositio.
Imprimatur : +Giovanni Canestri, Vicegerente Roma.
Una nuova Catechesi per adulti
Sintesi biografica di san Tommaso d'Aquino
Commento al Simbolo degli Apostoli -Credo-
Credo in un solo Dio Padre Onnipotente Creatore del Cielo e della Terra
Credo in Gesù Cristo, suo unico figlio e signore nostro
Fu concpito per opera edello Spirito Santo, Nacque da Maria Vergine
Pati sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto
Discese agli inferi il terzo giorno risuscitò dalla morte
Sali al cielo ove siede alla destra di Dio Padre Onnipotente
Dal cielo verrà a giudicare i vivi e i morti
Credo nella santa Chiesa Cattolica
Credo nella Comunione dei Santi e nella Remissione dei peccati
Aspetto la Resurrezione dei morti
Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori
E non c' indurre in tentazione
Commento ai due Precetti della Carità e ai Dieci Comandamenti
1.Non avrai altri dei oltre a me
2.Non nominare il nome del Signore tuo Dio invano
3.Ricordati del giorno di riposo per santificarlo
4. Onora tuo Padre e tua Madre affinché siano prolungati i giorni sopra la terra che il Signore tuo Dio ti dà
5. Non uccidere
7. Non Rubare
8. Non dir falsa testimonianza contro il tuo prossimo
9.Non desiderare la casa del tuo prossimo....
10. Non desiderare la donna del tuo prossimo
Benedetto il frutto del tuo seno
Quattro opuscoli che sono la registrazione
stenografica di cinquantotto prediche che nell'ultimo anno di vita san Tommaso
d'Aquino volle tenere ai suoi universitari e alla popolazione napoletana, dal
pulpito di S. Domenico Maggiore.
Ne risultò una delle quaresime più singolari
negli annali della predicazione cristiana, sia per la fama di santità e la
sicurezza di dottrina, sia per la personalità del protagonista e per lo stesso
filo conduttore dei sermoni.
Uomo profondamente «serio» fra Tommaso ideava
gli schemi degli opuscoli minori e delle omelie che avrebbe tenuto alla messa
festiva con la medesima coscienziosità a cui si ispirava nei poderosi trattati:
evitando cioè di proposito artifizi e preziosità retoriche, curiose trovate
oratorie e sorprese ad effetto, per puntare unicamente alla ricerca della Verità
pura e semplice.
Durante la quaresima del 1273 comincia a
predicare al popolo in una forma di catechesi organica. Lascia da parte il
latino, che era lingua ufficiale per l'insegnamento della teologia e nelle disputae
tra i dotti, per esprimersi nel dialetto appreso al tempo della fanciullezza nel
castello di Roccasecca.
Commenta il Credo, il Padrenostro, l'Avemmaria e
il Decalogo. Le ricchezze teologali ed esistenziali della fede e della Scrittura
che la sostiene, emergono da «un linguaggio calibratissimo ma sempre alla
portata di tutti».
Cinquant'anni appresso, alcuni testimoni daranno
ancora l'impressione di trovarsi sotto il fascino di quella sapienza, che era
riuscita ad insegnare non solo le verità salvifiche ma a porre in risalto i
legami tra teologia e vita.
Anche il lettore moderno, coinvolto in questa
ricerca quasi dialogica della verità, prova simpatia e gratitudine verso «maestro
Tommaso».
Era la
prima volta che (dati i suoi impegni professorali) fra Tommaso dei Predicatori
poteva tornare al pulpito tutti i giorni, per un'intera quaresima. Forse,
quest'uomo di quarantotto anni, avvertiva dentro di sé avanzare il male
misterioso che presto lo avrebbe atterrato? Un istinto soprannaturale pareva
sospingerlo a saldare nel miglior modo possibile il proprio debito sia verso la
popolazione studentesca, (incombeva su di lui come su qualunque docente di
teologia l'obbligo di tenere ai discepoli chierici un certo numero di sermoni),
sia verso la città in cui, trent'anni avanti, aveva iniziato gli studi
superiori e vestito l'abito domenicano (1239-44). Inoltre egli era tornato a
Napoli, saltuariamente, anche nei dieci anni (1259-68) in cui ebbe a esercitare
il magistero in varie località degli Stati della Chiesa.
Adesso che l'attività universitaria gli concede
un po' di respiro - essendo qui il numero. degli iscritti ai corsi inferiore a
quello degli studenti parigini, e avendo perciò potuto eliminare dal programma
le pubbliche dispute -, san Tommaso concepisce un ampio schema predicabile,
intorno ai seguenti argomenti: il Credo, il Pater, il Decalogo
e, quale breve appendice, l'Ave Maria.
Ne parla egli stesso, aprendo il ciclo sui dieci
comandamenti messi a raffronto coi due precetti della carità: «Per conseguire
la salvezza, l'uomo deve conoscere alcune nozioni di base: cosa debba credere,
cosa desiderare e infine che cosa fare. Alla prima esigenza ha risposto il 'Simbolo',
che raccoglie gli articoli fondamentali della rivelazione, alla seconda la
preghiera del 'Padre nostro', e alla terza, la legge di Dio» (1). Si può
agevolmente rilevare la loro coincidenza con l'oggetto delle tre virtù
teologali: fede, speranza, carità. Dunque diverse relazioni legano le varie
parti in un tutto organico, in una sorta di catechismo ragionato, nonché
avvalorato da innumerevoli citazioni della Scrittura, adattissimo alla mentalità
e alla preparazione religiosa di quei cristiani del basso medioevo. Quattro,
dunque, le serie di collactiones dedicate dal nostro quaresimalista alle
verità salvifiche (2).
Che si tratti di prediche raccolte dalla viva
voce, e non già di scritti didattici ne di promemoria o di appunti destinati
alla predicazione stilati di propria mano da Tommaso (quale fu il caso delle
Dominicales, festivas et quadragesimales, predicate prima del I264), ci risulta
con sicurezza. Fra Pietro da Andria dichiara che la sua raccolta contiene solo
la registrazione di lezioni o prediche tenute dal Santo: le chiuse sul tipo di
«Dio ci aiuti in questo» o «Il Signore Gesù voglia condurci alla vita eterna»
richiamano le tipiche finali dei sermoni di ogni epoca; vi si aggiungano le
testimonianze raccolte, in tal senso, durante i processi di canonizzazione
tenutisi rispettivamente il 21 luglio - 18 settembre 1319 nel palazzo
arcivescovile di Napoli e, dal 10 al 20 novembre, nell'abbazia di Fossanova.
Ci si domanderà: ma la quaresima non durava,
anche allora, una quarantina di giorni? Al che rispondiamo che tanto allora
quanto oggi andrebbe fatta una distinzione: gli oltre quaranta giorni che dal
mercoledì delle ceneri (detto altrimenti in càpite jeiunii) vanno al
sabato santo costituiscono la quaresima strettamente penitenziale, resa ancor più
rimarchevole appunto dai digiuni, dalla astinenza e dalla pienezza dei riti,
sempre più significativi, della settimana che culmina con la Pasqua. Tuttavia
la stessa quaresima, preceduta com'era dalle tre settimane di settuagesima,
sessagesima e quinquagesima, veniva come a esser preparata a sua volta da un
periodo di ambientazione liturgica.
Orbene, sapendo che avrebbe dovuto concludere le
prediche in ogni caso non oltre i primi due giorni della settimana santa (per le
ragioni che spiegheremo appresso), san Tommaso ne tien conto per la stesura di
un preciso piano di lavoro.
Ecco perché egli stabilisce di iniziare quegli
incontri con i discepoli, fuori dell'aula magna, e con la gente dei popolosi
rioni che circondano la chiesa di S. Domenico Maggiore, fin dalla lontana
settuagesima. Stabilire in quale giorno preciso è difficile, ma non
impossibile. Escludiamo intanto che possa aver cominciato il mercoledì delle
ceneri. Tenendo presente che lo sviluppo delle quattro serie di collactiones
si articola per otto settimane e mezzo, contro le consuete sei, san Tommaso
dedicò al commento del Credo 15 incontri; 10 al Pater, 32 al Decalogo
e 2 (o soltanto 1) all'Ave; si ottiene il totale di 59 (o eventualmente
58) prediche. La nota precisione di questo architetto del pensiero non si
smentisce neppure adesso.
Compiamo un passo indietro onde spiegare il
motivo per cui il 4 aprile del 1273 si imponeva quale termine massimo. Il
regolamento universitario di quei tempi prevedeva un incontro di cultura
religiosa tra magister e studentes, al mattino della domenica o di
altri giorni festivi: e si aveva il cosiddetto sermo; la sera poi esso
veniva ripreso, magari succintamente, nella collactio o conferenza.
Quando, come nel caso dei temi quaresimali napoletani, si partiva da un
determinato testo da «esporre», ossia da commentare in chiesa o nella sala
capitolare, si aveva allora la expositio.
Qualunque forma di predicazione però (almeno in
pubblico) era impossibile ad aversi negli ultimi quattro giorni della «settimana
santa», a causa delle funzioni liturgiche e in particolare del cosiddetto «ufficio
delle tenebre», che iniziava calato il vespro del mercoledì (3). Il nome
traeva origine dall'usanza di recitare il mattutino riducendo progressivamente
le luci, nel coro. Sul presbiterio era stato approntato un candeliere
triangolare con quindici ceri; fin dal primo salmo - in quel triduo di
meditazioni centrate sull'olocausto del Cristo -, a una a una le candele
venivano smorzate e, giunti al quinto salmo delle laudi, spentesi le luci nella
navata, anche l'ultima fiammella spariva. Dal canto del Benedictus sino
all'oremus conclusivo gli oranti restavano immersi così nella tenebra completa.
Ciò detto, comprendiamo come, data la
coincidenza tra l'ora della predicazione e quella dell'ufficiatura corale, si
imponeva un anticipo sull'avvio: intorno alla domenica di settuagesima.
Tuttavia un'ultima considerazione ci costringe a
soffermarci ancora sulla questione. È vero che, diciamo così, graficamente la
stesura delle prediche quaresimali di fra Tommaso occupa 59 sezioni - dalle
parole con cui comincia l'expositio del «Credo» a quelle che chiudono
il commento all'«Ave». Ma è appunto la estrema brevità dell'ultima sezione,
dedicata al «benedetto il frutto del seno tuo», che induce a credere che
l'intero commento all'annunzio, dell'angelo abbia occupato non già due, bensì
una sola predica. È vero che notevolmente corta è anche l'esposizione del nono
comandamento. Ma quel che ci fa pensare a un ininterrotto discorso nel caso
dell'«Ave» sono le parole stesse mediante cui le due parti si legano: «Insomma,
ella fu liberata da ogni genere di maledizione » (4); e poi siccome è quasi
impensabile che l'ultima predica sia durata sì e no quattro - cinque minuti,
preferiamo pensare che l'intera quaresima di Tommaso abbia occupato 38 giorni di
effettiva predicazione. L'appuntamento con maestro Tommaso sotto il pulpito di
S. Domenico Maggiore ebbe inizio il lunedì di settuagesima (6 febbraio 1273), a
meno che non si preferisca pensare a un giorno intermedio di pausa.
Dal biografo Guglielmo di Tocco sappiamo che
Tommaso predicò, anche stavolta, in illo suo vulgari natali soli, ossia
nella lingua che i d'Aquino parlavano alloro paese e nel territorio della
contea. Lì per lì siamo portati a concludere che, in tal caso, doveva
trattarsi del dialetto campano; anzi il Mandonnet si arrischia più oltre: per
lui c'est le dialecte campanien ou napolitain (5). Ipotesi certo
suggestiva quanto, del resto, la scoperta che un genio della portata di maestro
Tommaso non avesse potuto sbarazzarsi delle inflessioni dialettali e di un
parlare tra i più caratteristici e fioriti della penisola; anche se ciò,
prosegue il cronista, dev'essere attribuito «al suo diuturno concentrarsi nella
contemplazione».
La materia è delicata e complessa, sicché
possiamo procedere al massimo per induzione, mancandoci una diretta
documentazione in materia.
In primo luogo rammenterò che madonna Teodora,
la madre di Tommaso, era una napoletana «verace», ed è sicuramente un fatto
che avrà influito come di consueto sui figli. Tommaso ha dunque imparato le
prime parole - e le ha balbettate da parte sua in napoletano. Un napoletano
però che presto dovette arricchirsi, e deformarsi, nei naturali contatti che
legavano al castello gli abitanti di quel feudo che sorgeva nell'antica Terra di
Lavoro (6). Ordinariamente, ripeto, si tende a classificare san Tommaso tra i
santi meridionali, quando non ne facciamo addirittura un concittadino di
sant'Alfonso. Ma occorre precisare che Aquino e Roccasecca si trovano a metà
strada tra Roma e Napoli (cento chilometri in linea d'aria dalla prima; ottanta
dalla seconda), ad appena una trentina da Frosinone. Il che ci porta in
Ciociaria (7). Non intendo con ciò far di Tommaso un romano, e neppure un
laziale in senso stretto; vorrei soltanto porre sulla bilancia i vari elementi
della questione.
Teodora gli parla in napoletano; ma se a Cassino
i monaci insegnavano nella lingua di Cicerone, è fuori di dubbio che durante le
ricreazioni i suoi compagni di collegio, provenienti in gran parte dal basso
Lazio e dall'alta Campania (senza escludere il Molise sud-occidentale), avranno
riempito i chiostri dell'abbazia d'un pittoresco vociare dalle molte sfumature
dialettali.
In favore della preponderanza del napoletano nel
volgare di Tommaso però c'è un altro punto: ricorderemo cioè che egli
trascorse gli anni dell’adolescenza a Napoli. Seguì la parentesi tedesca e,
soprattutto, francese; Tommaso parla ormai e scrive nel suo «discreto» latino.
Dal 1272 è di nuovo a Napoli; e la pittoresca parlata materna - sia pure
inframmezzata di locuzioni casertane e forse anche ciociare - si rinfresca in
quella memoria già tanto salda e scattante.
Ciò detto a mo' di premessa e volendo cercar di
soddisfare (ma in maniera assai approssimativa) la curiosità di chi tentasse
d'immaginarsi al vivo Tommaso sul pulpito di S. Domenico Maggiore, possiamo solo
aggiungere che un volgare italiano sufficientemente definito, in quello scorcio
del Duecento ancora non esisteva.
Sarebbe facile citare, poniamo dalla Cronaca
di Partenope (8), vasti squarci di volgare due-trecentesco, ma è linguaggio
dotto, troppo aulico per la semplicità di fra Tommaso. Tutt'al più egli vi avrà
fatto ricorso - cercando di metter assieme qualche periodo alla meno peggio - in
circostanze straordinarie, come la volta che, immersosi in contemplazione
durante il desinare anche alla presenza di un sovrano (9), dovette formulare le
sue umili scuse.
Sfogliando a caso il codice suddetto, ci
troviamo di fronte un volgare pulito, che a prima vista non sapremmo distinguere
dal toscano; solo ogni tanto un termine, una preposizione, una sillaba finale,
ne denunziano la) matrice campana. A titolo di esempio: dintro, quillo,
mastro Nicola, dui, mo', viscovo, maravigliusi, da-llà et da-qqua, celo.
Di contro va collocato un altro specimen,
da una sacra rappresentazione risalente a circa la metà del XIV secolo (10).
Qui i dialettismi sono romaneschi o della provincia, e fan pensare all'influsso
che, dal nord questa volta, dovettero premere su Tommaso ragazzo, a Montecassino:
«[Zaccaria e Anna] della volontà de Dio se contentavano, e ll'uno et
l'altro annàvano... Sì chomo t'aio ditto, Elysabetta toa moglie te farrà o
figlio...; serrà sanctificato, nanti che jescha del cuorpo, in eterno... So'
vecchia ragricciata... Serrà figliolo de Dio e de ti, Maria... Tu, Jovanni
piccioliello... Li fideli n'averanno pace; noi judei ne gannarèmo... Alegrèmo
e cantèmo... Per lo mondo se ne esbìglia (11) ,questa fama sì verace: jamo
tucti in bona pace, Dio Signore noi laudèmo».
Ora, è precisamente nello stesso periodo in cui
nascevano i primi capitoli della Cronaca di Partenope (ossia intorno al
1325) che il giovane Boccaccio prende soggiorno a Napoli con suo padre,
banchiere di casa Bardi. Ebbene, avendo egli scritto a un amico una lettera
semiseria e tutta in dialetto napoletano (12), ci piace chiudere questa
parentesi linguistica citandone alcune espressioni che faranno intendere al
lettore non solo la notevolissima somiglianza con la lingua che ancora oggi si
parla da Piedi grotta al Vomero, da Spaccanapòli alla Vicarià, ma l'idioma che
avrà risonato per anni negli orecchi - assorti quanto si voglia - di fra
Tommaso. Un bimbo dunque vi vien descritto come «'no bello figlio màscolo,
ca dice la mammàna che tutto s'assomiglia a lo patre...; lo chiù bello purpo
ca vidìssivo màie». E sempre scherzando, messer Giovanni conclude: «Figlio
mio, va' spìcciate, va: ioca a la scola co' li zitielli».
La nostra indagine in qualche modo
filologica deve arrestarsi qui, e forse continuerà a sfuggirci una chiara
risultante. Ognuno potrà determinarla per proprio conto. Il lettore potrà ora
- se vuole - da sé dar corpo e, meglio, voce a maestro Tommaso predicante se
non in napoletano, almeno in un vernacolo regionale ben accetto e familiare ai
fedeli accorsi ad ascoltarlo nella quaresima di S. Domenico Maggiore.
Tommaso (così lo ricordava chi, durante quella
predicazione, non gli staccò lo sguardo di dosso) parla pacatamente, come si
addice alla materia e a un predicatore dal fisico massiccio, dal tratto solenne,
quasi ieratico. Gli hanno preparato sul pergamo uno sgabello, ed egli parla
seduto, con gravità magisteriale facendosi però intendere da ognuno.
Gli occhi socchiusi o, a tratti, fissi verso
l'alto a leggere dentro misteriosi splendori, cominciò a trasmettere, vorremmo
dire a rifrangere sui fedeli la luce della verità che salva. La comunica al
popolo dopo averla esposta, nelle pagine dei suoi trattati, mediante sottili
distinzioni e argomentazioni persuasive, per i dotti.
Quelle verità di fede, rimaste nascoste ai
massimi esponenti del razionalismo d'ogni epoca, acquistavano adesso un'evidenza
solare anche per la vecchierella cristiana, abbandonata più che mai durante
l'ascolto, alla divina provvidenza.
Articolo dopo articolo, una pericope appresso
all'altra, san Tommaso prese a illustrare le ricchezze teologali ed esistenziali
della fede e dei passi scritturistici che la sorreggono, in un linguaggio
calibratissimo ma sempre alla portata di tutti.
Al primo processo informativo, troviamo tra i
convenuti il giudice napoletano Giovanni di Biagio: è il testimone che
dichiarerà d'aver sentito predicare «per oltre dieci anni» fra Tommaso d'Aquino,
e di essere stato suo familiare anche in refettorio e nella cella del santo
religioso.
Può darsi che Giovanni sia stato uno dei
minutanti presso fa curia locale? Siccome poi il medesimo giovane seguiva allora
i corsi di diritto presso lo Studium retto dai domenicani, può darsi
che, dietro compenso, avesse ottenuto di alloggiare nella foresteria del
convento? E’ un'ipotesi.
Sta di fatto che Giovanni di Biagio forse poté
occupare davvero uno dei posti in fondo al grande refettorio, e probabilmente
non avrà disertato quelle istruzioni capitolari che, ordinariamente riservate
ai religiosi e tenute dal priore, talvolta possono essere state demandate al
dotto e buon fra Tommaso, incapace di negarsi (13).
Deponendo in qualità di testimoni sulla vita di
lui, Giovanni di Biagio, Pietro Branca e Giovanni Coppa - cinquant'anni avanti,
rispettivamente, uno studente in diritto, un militare e un salariato del
convento - pur trovandosi concordi nell'attestare le virtù di fra Tommaso non
sono altrettanto uniformi circa gli argomenti trattati da lui in quella lontana
quaresima del '73.
Ci può essere stata una più o meno conscia amplificatio
veritatis, ma in ogni caso ciò non sembra aver deformato la sostanza dei
ricordi poiché altre testimonianze collaterali intervengono a ricomporre
l'equilibrio. Mentre cioè da un lato il giudice ricorda d'aver ascoltato
Tommaso predicare sull'«Ave» per l'intera quaresima, gli ultimi due rammentano
(senza però escludere positivamente l'affermazione suddetta) una inconsueta
serie di sermoni quaresimali sul tema del «Padre nostro». Non ci pare che la
contraddizione sia radicale. Volendo citare altri esempi del genere, in cui la
verità si restaura nell'apporto integrativo di passi paralleli, basterà
richiamarci al passo dell'evangelista Matteo (14): «Beffeggiavano [Gesù] anche
i ladroni che erano stati crocifissi con lui», mentre sappiamo da Luca, con
ricchezza di particolari, che gli insulti provennero soltanto da parte di «uno
dei ladroni» (15).
Ciò che conta, agli effetti del valore
testimoniai e, è la piena concordanza nell'attestare che san Tommaso predicò,
l'anno 1273, argomenti peculiarmente catechetici. «Per dei giovani laici,
sentire un lungo commento sulle preghiere che meglio conoscevano e che
recitavano o sentivano recitare più spesso, doveva impressionarli più delle
spiegazioni del «Simbolo» e del «Decalogo», con cui avevano minor
dimestichezza» (16).
L'attenzione di fronte al primo gruppo di
prediche dev'essere stata sufficientemente vigile, per smorzarsi magari verso il
termine della seconda settimana. Frequentare una quaresima predicata è quasi
sempre impresa per certi versi eroica, al tempo della giovinezza... Ecco però
in cartello un tema meno fuor del comune, ecco le dieci istruzioni sul Pater,
e possiamo immaginare che l'applicazione mentale, cordiale, dei giovani uditori
si sia fatta di bel nuovo solerte, da non perderne una parola.
I trentadue sermoni dedicati al commento dei
dieci comandamenti li avranno interessati a intervalli, specie quando fra
Tommaso scende a una casistica che sembra riguardare da vicino la loro vita,
goliardica e militare. I nostri amici, dall'aldilà, ci vorranno perdonare se
ipotizziamo oltre a quanto detto fin qui, anche talune eventuali assenze a
quella terza fase. Tuttavia non mancarono agli incontri conclusivi: e di nuovo
qualcosa si imprime a fondo nella loro memoria. Alla concisa ma densa
predicazione mariologica che prendeva lo spunto dall'«Ave», col passar degli
anni (e ne passarono una cinquantina) dovettero associarsi tutti gli altri
riferimenti a Maria, che noi stessi troveremo disseminati in questo volume (17).
Il ricordo di quell'«Ave», così magistralmente analizzata, non perse la sua
posizione di rilievo nelle ricordanze del giudice, sovrastando altri
particolari.
Potrà far meraviglia infine che, dopo aver
dedicato cinquantasette sermoni all'interpretazione dell'insieme di verità che
costituiscono per il cristiano l'economia della salvezza soprannaturale, Tommaso
abbia sentito il bisogno di dedicare una o due prediche sul saluto dell'angelo a
Maria. Un tale stupore non sarebbe giustificato appena si rifletta che il
Duecento è il secolo dell'Avemmaria, che fin dai primi decenni diventa
preghiera universale nel mondo cristiano, subito dopo quella rivolta al Padre.
Il commento all'«Ave» costituisce la chiusa,
non tanto logicamente quanto devozionalmente necessaria da parte di questo
domenicano, devoto della Madonna al punto da cominciare le pagine dei suoi
manoscritti con un attestato di affetto per lei: Ave, Maria (vedi gli autografi
della Summa contra gentiles). Se la Expositio in salutationem angelicam
non ci fosse pervenuta attraverso la documentazione scritta, ne avremmo potuto
supporre lo stesso, quasi necessariamente, l'esistenza (18).
Napoli faceva ressa attorno al pulpito di fra
Tommaso d'Aquino, attrattovi dalla fama della sua santità e della eccezionale
dottrina.
Egli partiva dalla convinzione che il Credo
rappresenti il compendio delle Scritture sante, la sintesi della rivelazione,
cui deve rifarsi la fede di ciascuno, dal teologo al semplice fedele. Le verità
contenute nelle pagine della Bibbia sono però, assai spesso, avviluppate in un
contesto ampiamente discorsivo, né sempre facilmente agevoli ad intendersi.
Ecco dunque - spiegava maestro Tommaso - l'esigenza di raccogliere assieme i
vari articoli in un «simbolo» (19) onde le parti siano intimamente, connesse
tra loro; e laddove risultino più ardue e inevidenti, esse sono sottolineate da
uno stacco. L'articolo della passione e sepoltura di Cristo è distinto da
quello circa la sua resurrezione, essendo diverse le ragioni che ci conducono ad
accettare la morte del Dio incarnato, da quelle che fan da sostegno al suo
risorgere (20).
Comincia a profilarsi negli uditori l'ariosa e
solida architettura del Credo: dai praeambula fidei (21) alle
verità trascendenti che si incentrano sulla grandezza di Dio, dall'unità e
trinità delle divine Persone alle operazioni «appropriate» a ciascuna di
esse, quali la creazione e l'azione molteplice della grazia santificante.
Riguardo all'umanità del Cristo, passa in
rassegna il concepimento e la sua nascita dalla beata Vergine; la passione, la
morte, la sepoltura; la discesa agli inferi, la risurrezione, l'ascensione al
cielo e l'attesa del suo ritorno in qualità di giudice universale. Lo spirito
Santo, la Chiesa, i sacramenti, le prospettive escatologiche... Un affresco
possente, che i cristiani convenuti al quaresimale ammiravano con un senso di
tremore e di rinnovata responsabilità.
Con l'inizio delle prediche sul Pater il discorso
si fèce ancor più familiare; l'attenzione dei presenti si acuì nella
quotidiana scoperta di tanti e insospettati tesori dentro quelle formule
abituali e un tantino strapazzate.
Dal tempo della catastrofe compiutasi nel
giardino dell'Eden l'umanità non pregava, oppure schiudeva le labbra solo
dinanzi a un idolo o per invocare i demoni. Ed ecco il Cristo insegnarci il
segreto della preghiera autentica, restituire all'uomo il diritto alla speranza,
la gioia che solo un orfano cui venga concesso di riabbracciare il Padre può
comprendere, la tranquillità di aver trovato nel Cristo medesimo un maestro e
un intercessore impareggiabile.
Eppure, senza la parola di commento del santo
teologo, la stessa preghiera al Padre difficilmente sarebbe intesa, da noi,
oggi, come modello perfetto di prece fiduciosa, moderata e regolata nelle sue
aspirazioni, fervente e umile, cui anela forse senza saperlo il cuore umano.
La terza serie di sermoni si presentò
interessante per un altro verso: era il commento al codice più infranto ma
anche più sentito come vero e obbligante, nel fondo delle coscienze. Tommaso
ebbe modo così di toccare un'infinità di concrete situazioni e di scendere a
conclusioni pratiche d'ordine morale o rituale, indispensabili per dare
all'umanità - come è nei disegni di Dio - il volto di una società ordinata
dall'alto verso fini supremi.
Eccolo, perciò, prendere in esame tanto i
precetti che ognuno percepisce intuitivamente come dovere anche solo alla luce
della pura ragione naturale, quanto gli altri comandamenti che necessitano di più
sottile indagine sapienziale, e soprattutto quelli che l'uomo conosce attraverso
l'insegnamento del Dio rivelante.
Fedeltà, rispetto, servizio nei confronti del
legislatore che provvede all'umana collettività sono espressi dall'osservanza
dei primi tre comandamenti («Non avrai un altro Dio», «Non nominare il nome
di Dio invano», «Ricordati di santificare la festa»).
Seguono i doveri generali e quelli speciali, che
ciascuno di noi ha verso il prossimo: l'obbligo della riconoscenza riguardo ai
benefattori, riassunto nell'emblematico «Onora il padre e la madre»; l'obbligo
di non danneggiare i nostri simili attentando all'incolumità altrui, oltre che
alla propria («Non uccidere»), strumentalizzando la verità («Non dire falsa
testimonianza»), o insidiando la persona legata a un uomo dal vincolo
dell'amore fisico-spirituale e dalla funzione responsabile di propagare la prole
(«Non commettere adulterio», «Non desiderare la donna d'altri»); l'obbligo,
finalmente, di rispettare i beni temporali che non ci appartengono («Non rubare»,
«Non desiderare la roba altrui»).
Nei precetti della legge divina è racchiusa la
massima sapienza, trasparente anche nell'ordine esatto in cui essi si
raccordano, poiché è proprio del sapiente disporre le cose nel debito ordine e
nella maniera più congrua possibile.
Esponendo i vari comandamenti dell'antica
legislazione, Tommaso non trascura di indicarne il nesso coi precetti della
legge evangelica. Tutto si ricapitola in Cristo, e in lui tutto acquista nuovo
valore dalla libertà e dall'amore dei figli d'adozione.
Era persuaso inoltre che se la solenne
proclamazione della Parola spettava al diacono, e al sacerdote del medioevo la
predicazione kerigmatica (una forma elementare di catechesi al popolo),
apparteneva al vescovo e ai fratres praedicatores, che lo affiancano nel
ministero pastorale, la predicazione omiletica, essenzialmente dottrinale.
Perciò, chiunque salga il pulpito, dovrà
essersi dedicato allo studio e alla contemplazione delle verità salvifiche. San
Tommaso nutriva ammirazione per quelle figure che, nella storia della salvezza e
della Chiesa, potevano esser paragonate alla lucerna che arde illuminando la
notte. Di Giovanni il precursore, fra Tommaso aveva scritto: «Il suo animo, i
suoi sentimenti erano infocati; emanava fervore all'intorno... Taluni sono
invece lucerne solamente in quanto occupano un determinato posto nella Chiesa,
in quanto fu assegnato loro un particolare officio; ma in fatto di intima
partecipazione [all'impegno apostolico] sono lucerne spente. Non hanno in sé il
fuoco della carità. Una fonte di calore infatti, se c'è, la si avverte ancora
prima di individuarla localmente; così l'uomo che possiede la verità, viene
segnalato dal fervore delle opere, innanzi che cominci a parlare.
Una fiamma riscalda e splende... Giovanni
possedeva la luce, essendo stato illuminato nel contatto col Cristo, e poi la
diffondeva a gran voce, confermandola infine con la rettitudine della vita.
Il predicatore della Parola deve possedere tre
requisiti: “esser cioè fedele al messaggio di verità che ha ricevuto, chiaro
nell'esposizione della medesima, consapevole di essere stato chiamato al
servizio di Dio, per cui eviterà di finalizzare il suo ministero in vista di
vantaggi personali” (22).
Neppure quei tempi difettavano di predicatori
astrusi nel linguaggio o per le scelte degli argomenti. S. Tommaso, al
contrario, lasciati da parte i preziosismi e le tematiche peregrine, si attenne
per tutta la quaresima 1273 ai pilastri della fede e della devozione cristiana.
Difficilmente si potrebbe sospettare che un testo
poco esteso, quale quello della predica sull'«Ave», potesse obbligarci a
un'ultima sosta, dopo quella occasionata dalla famosa deposizione di Giovanni di
Biagio. L'importanza dottrinale è adesso, senza paragone, assai maggiore. Il
testo (relativo al modo e al momento in cui la santa Vergine fu santificata) si
trova a p. 268-69, nota 24, e preghiamo il lettore di integrarlo con quanto
andremo qui esponendo.
Orbene, attraverso la consultazione accurata di
19 manoscritti - pienamente accreditata dal Mandonnet - pare possibile
ricondurre il testo alla sua autenticità: e il medesimo, dunque, andrebbe letto
così: «[Maria] fu purissima sia quanto alla minima colpa, giacché non
conobbe il peccato d'origine e non commise alcun peccato, né mortale né
veniale; sia quanto alla pena». L'importanza di una simile ricostruzione, in
favore della quale interviene il peso di autorevoli teologi, da Norberto del
Prado al Palmieri, al Reiser, al Garrigou-Lagrange, a G.P. Rossi (23), non ha
bisogno di esser da noi sottolineata.
Si può a questo punto parlare di un progresso,
di un vero e proprio ripensamento nel pensiero mariano del santo dottore? Ha mai
inteso egli negare a Maria, positivamente e inequivocabilmente, il privilegio
dell'immacolato concepimento o non piuttosto, anche nei testi più controversi
(lasciando cioè per ora da parte le affermazioni che potrebbero sonare
risolutive, dello stesso Tommaso) egli si rivela preoccupato di nulla togliere
all'affermazione paolina, incontestabile, secondo cui «Cristo è il salvatore
di tutti» (24)? Nella Summa theologica ragiona a questo modo: la santità
della beata Vergine non si può pensare anteriore alla sua animazione. Primo
perché la santificazione di cui parliamo è la purificazione dal peccato
originale, ma la colpa si può mondare solo mediante la grazia, che può esser
recepita esclusivamente da una creatura razionale. E poi, sempre considerandola
prima dell'infusione dell'anima, la prole concepita non è suscettibile di
colpa. Sicché, se fosse stata santificata allora, ossia avanti che possedesse
un' entità come persona umana attraverso la recezione di una propria anima,
Maria non avrebbe contratto il debito comune al resto degli uomini, né avrebbe
avuto bisogno della redenzione e della salvezza. Dunque, non rimane che porre
tale santificazione di Maria dopo la sua animazione (25).
Vediamo d'intenderei meglio, riducendo per il
lettore meno preparato la complessa questione in termini accessibili. Visto nel
contesto storico e dottrinale, ogni passo che Tommaso ci ha lasciato in
proposito (anche se non sempre in maniera esplicita) è ordinato a porre in
risalto l'opera del Cristo redentore. Se l'anima della beata Vergine non fosse
stata destinata al contagio del péccato d'origine, Cristo perderebbe la
prerogativa di essere il salvatore di tutti, l'unico che non abbia avuto bisogno
di essere salvato.
Talvolta l'espressione suona rude e, a prima
vista, tale da escludere riserve o incertezze, come nel caso: «La beata Vergine
contrasse il peccato originale, da cui però fu mondata prima della sua nascita»
(26). Ma prendere in considerazione l'ipotesi del peccato quale infezione non già
effettivamente contratta bensì da cui non parrebbe possibile scampare, non
offusca minimamente la persona di Maria: essa, infatti, al pari di tutti noi,
discendendo per via di generazione da altri figli di Eva, nell'atto di esistere
in quanto persona avrebbe dovuto contrarre il debitum culpae, cui
l'umanità era condannata. Una ineluttabilità riguardante ciascun membro della
stirpe umana (escluso Cristo), tranne il caso che non intervenga un qualche
speciale privilegio, capace di esplicare un effetto liberatore.
Si badi,
non un privilegio qualunque. Il « Precursore» (Giovanni) fu santificato
anch'egli nel grembo materno, ma tre mesi dopo essere stato concepito: Maria,
l'unica - l'Immacolata Concezione come la proclama solennemente la Chiesa
cattolica -, fruì del beneficio di una redenzione preveniente.
L'Angelico non adoperò mai, e neppure conobbe la
formula a noi tanto familiare, di un intervento divino «in previsione dei
meriti di Cristo»; tuttavia, fin dagli inizi della sua carriera di teologo,
Tommaso sembrò nutrire nell'intimo un identico convincimento.
Nel primo libro del suo commentario alle quattro
Sentenze di Pietro Lombardo, il giovane professore aveva scritto: «La beata
Vergine fu di tale immacolatezza da autorizzarci a sostenere la sua immunità
tanto dal peccato d'origine, quanto da quello attuale» (27). Posizione
esplicita e netta, uscita dalla penna di maestro Tommaso allo stesso modo di
altre, opposte diametralmente ma solo all’apparenza, che egli ebbe il coraggio
di fare in ossequio alla dottrina ufficiale e a un'equanime indagine teologica.
Sino al rischio di venir frainteso.
La sua mente vigile dovette accorgersi presto, o
addirittura subito, che un'affermazione tanto inconsueta avrebbe potuto condurre
altri teologi a illazioni inaccettabili, almeno entro il contesto della
mariologia di quell'epoca. Non sarebbe parso, allora, che Maria fosse l'unica
creatura a non beneficiare della redenzione che sappiamo di portata universale -
operata dal Figlio? E secondo quale modalità la Vergine poteva essere stata
oggetto di santificazione prima del concepimento?
San Tommaso sembra perciò preferire, per
quanto possibile, nelle dispute e negli scritti più sistematici, l'astenersi da
un pronunciamento - in un senso o nell'altro - di fronte all'interrogativo sul
«quando» preciso Maria fu santificata. Se è costretto a farlo, e lo si vedrà
nel testo seguente, si esprime in modo da riferire più l'opinione corrente che
una personale convinzione: «Si ritiene che Maria sia stata santificata ‘cito
post conceptionem et animae infusionem’» (28). Il suo creditur espone una
sentenza accettata da molti. Il che corrispondeva a verità, per la maggioranza
dei teologi fino al secolo XIII.
Tommaso proseguì la sua quieta meditazione;
quieta e sofferta, per l'alternarsi forse ora dell'una, ora dell'altra
prospettiva e delle rispettive implicazioni. Serbò nitida la percezione di aver
visto chiaro fin dall'inizio? Prudente, con quel senso della misura che lo
contraddistingue, preferì sacrificarsi in materia tanto delicata alla
tradizione e all'atteggiamento pratico della Chiesa che non celebrava la festa
dell'Immacolata? (29) E cosa sicura che fino a quel momento lo Spirito Santo non
aveva inondato di luce un segreto così arcano. E Tommaso sembra custodire
dentro di sé, per se stesso e nel corso di lunghi anni, il convincimento. Ne
nutre una silente devozione. Fino a che, giunto al termine della parabola
terrena, qualcosa o Qualcuno pare sospingerlo a ribadire daccapo la primitiva,
silenziosa certezza che accuratamente aveva voluto disgiungere dal suo profondo sentire
cum Ecclesia.
Sotto le nuove formule riaffiora la certezza
personale che Maria non soggiacque all'influsso del peccato d'origine (anche se,
cosa ben diversa, ella doveva esser considerata inclusa nell'ambito, universale
come il genere umano, dei discendenti da una coppia di progenitori moralmente
falliti, che avevano riversato sull'intera stirpe le conseguenze di un debitum
da saldare). Maria, possiamo ben affermarlo in quest'ordine di idee, ebbe
bisogno d'essere redenta: è questo il significato vero dell'opera redentrice di
Cristo, che santificò sua Madre nell'istante in cui essa veniva concepita.
Maestro Tommaso optava per un sincrono confluire dell'anima (cui - in linea di
principio - necessitava la grazia santificante) e della grazia stessa?
Desideriamo confortare una simile tesi - sostanzialmente immacolatista - non
cedendo a pregiudiziali antistoriche quantunque in buona fede, ma limitandoci a
riportare gli ultimi testi di Tommaso, a poco più di un anno dalla sua morte.
È in questa direzione che vogliono condurci i suoi dettati estremi?
Si apra il Compendium theologiae
(1272-73), e vi troveremo: «[Maria] fu resa immune non solo dal peccato attuale
ma anche da quello originale, 'in forza di uno speciale privilegio'»(30).
In questo termine, immunis, c'è solo la liberazione «cito post [conceptionem
et animae infusionem] »(31) e in tal caso come spiegare l'immunità
sostenuta nel commento a Pietro Lombardo? - (32) o non piuttosto il senso
plenario di un aggettivo che, in latino ancora più che nella nostra lingua,
quando venga usato in forma assoluta importa esenzione, privilegio, immunità da
tutto ciò che contamina, e quindi immacolatezza? Il «cito post» di Tommaso ha
proprio ed esclusivamente valore temporale? È lecito cioè, alla luce di quanto
detto fin qui e di quanto stiamo per aggiungere, eliminare dal «cito post»
ogni concomitanza d'ordine divino-intenzionale tra animazione del feto e
santificazione immunizzante? Il privilegio soltanto allora sarebbe davvero
singolare, facendo della sanctificatio in utero l'estinzione del debito
nell'istante medesimo in cui i meriti di Cristo compiono, su colei che diverrà
sua madre, il primo effetto redentivo.
La priorità temporale dell'infusione
dell'anima (necessaria certo a costituire nel grembo materno quel nuovo essere)
non è forse compatibile con una arcana co-priorità salvifica, in simultaneo
concorso? Un interrogativo che viene ad aggiungersi agli altri della vexata
quaestio.
Prendiamo, infine, l'incompiuto commento di
Tommaso al salterio (tra l'ottobre 1272 e il 6 dicembre successivo egli aveva
commentato cinquantaquattro salmi) dove, nell'esegesi del salmo 14 abbiamo,
testualmente: «In Cristo e nella Vergine Maria non vi fu, assolutamente, la
minima ombra di peccato» (33). O neghiamo l'autenticità del testo (e non è
lecito almeno finora), oppure non possiamo pretendere maggior chiarezza: omnino sine
macula, può tradursi in una sola maniera: non macchiata, assolutamente
incorrotta, tanto da poter essere posta al fianco del Cristo, il Santo,
l'intemerato per eccellenza.
Ma se non bastasse, poche pagine più in là,
nell'esporre il salmo 13, Tommaso riprende: «Dicendo dunque [il salmista]: 'Ha
stabilito nel sole la propria dimora' (…) intende affermare che [Cristo] abitò
corporalmente nel Sole, ossia nella beata Vergine, la quale non conobbe affatto
l'oscurità del peccato: quae nullam habuit obscuritatem peccati».
Scrivendo che Maria non conobbe affatto («non
habuit») oscurità di peccato è cosa ben diversa che se l'Aquinate avesse
scritto: «non aveva più (non habebat)» tale oscurità o intorpidimento morale
nel momento in cui concepiva il Figlio per virtù dello Spirito Santo.
Interessante anche la rigorosa analogia con la formula di un testo agostiniano,
citato sovente da san Tommaso: «[Dominus] constat nullum peccatum habuisse:
sappiamo, cioè, che il Signore non conobbe assolutamente il peccato».
In entrambi i casi l'affermazione è svincolata
da qualunque limite temporale. Maria, allora, splendette come il sole
dall'istante medesimo in cui, concepita e con-santificata, incominciò a essere
Maria.
La lunghezza delle quattro collactiones
varia in un rapporto diretto con le intrinseche difficoltà, dogmatiche e
morali.
Una
semplice scorsa basterà poi a mostrare con ogni evidenza che l'ossatura di
quest'opera composita è sostanzialmente scritturistica: in queste pagine si
possono contare oltre un migliaio di citazioni bibliche.
In effetti, da testi privi all'apparenza di
qualunque difficoltà e magari di peculiare interesse, Tommaso sa isolare tre o
quattro termini, e d'incanto ecco ampliarsi l'orizzonte e la portata dell'intero
discorso. Il lettore vedrà da sé in quale grado l’Aquinate possedesse l'arte
di scegliere una determinata auctoritas (solitamente dalla Scrittura o
dalla patristica), per servirsene come punto di appoggio o come connessione
dinamica.
Lo troveremo sempre coerente con la prima
regola che egli raccomandava ai confratelli predicatori: la salda adesione alla
dottrina certa, onde non deviare dalla verità. Si attiene alla parola rivelata,
al dogma e al sensus Ecclesiae, deciso a svolgere il proprio ruolo di
fedele interprete e di umile divulgatore. Si ha la sensazione netta che Tommaso
cerchi la verità innanzitutto per un'insopprimibile esigenza personale. Egli
prova ripugnanza di fronte a ogni sorta di oscurità. Di qui la sua cura nel
dividere e suddividere, e il lettore moderno di buon volere finirà per
rilevarne l'intrinseco pregio.
Nell'esporre la sacra pagina, Tommaso si attiene
il più possibile al senso letterale, cui farà seguire un giudizioso impiego
del significato morale e dei simbolismi tradizionali. Tutto il pensiero
cristiano di Tommaso - la sua teologia - si edifica in un sapiente ricorso alla
Parola.
La predicazione viva si avvalora sul pulpito
mediante l'uso dei gesti, delle infinite tonalità della voce umana, delle pause
e degli stessi silenzi. Così, i passaggi impliciti tra pensiero proprio e
citazione biblica, Tommaso li avrà sottolineati con questi accorgimenti tanto
naturali quanto allusivi, che tuttavia nessuno stenografo avrebbe potuto mai
registrare.
Per questa ragione e al fine di rendere più
agevole la lettura ed espliciti i nessi riguardanti gli innumerevoli riferimenti
scritturistici citati da san Tommaso, abbiamo fatto ricorso a dei passaggi, a
dei legamenti nostri, nella misura più discreta possibile, sul tipo di «affinché
non abbiamo a sentirci dire da Pietro» (e seguono le parole dell'apostolo), o
«perché il profeta Amos non abbia a rimproverarci», e via dicendo.
Nel commentare il «Decalogo», Tommaso sostiene
che, per conseguire la salvezza, l'uomo deve conoscere talune nozioni basilari
(la «scientia credendorum», la «scientia desiderandorum» e la «scientia
operandorum»). Costante, come si vede, il termine scientia: la conoscenza.
Nelle prediche dedicate al «Padre nostro», poi,
illustrava il significato primario del termine «salvezza», quale scampo dai
pericoli che attentano al conseguimento di un dato fine. Avendo Dio creato
l'uomo in ordine alla vita eterna, ci potremo dire salvi allorché ci troveremo
nelle condizioni di ottenere la medesima.
E sono le buone opere - conclude nell'esegesi del
«Credo» quelle che ci conducono alla vita eterna. Ragion per cui ogni
cristiano deve conoscere e richiamare costantemente alla memoria queste verità,
da cui dipende la salvezza. Esplicito, dunque, il rapporto tra conoscenza della
verità rivelata, della salvezza offertaci dal Cristo, e della vita eterna.
La verità di Dio è l'unica verità che salva.
SINTESI
BIOGRAFICA SU SAN TOMMASO D'AQUINO
1225 (o 1226). Nascita di
Tommaso nel castello di Roccasecca, al confine tra il Lazio e la Campania.
1230. Lo ritroviamo all'età
di cinque anni tra i pueri oblati, qualcosa che doveva somigliare a un
convitto per «interni», ma la cui funzione educativa e culturale mirava a
formare dei futuri monaci (e magari degli abati).
1239. Montecassino subisce
la devastazione da parte delle truppe di Federico II, e Tommaso che ormai
quattordicenne ha seguito gli studi previsti dall'ordinamento scolastico del «trivio»,
iniziando forse anche quelli superiori, ritorna temporaneamente in famiglia per
poi scendere a Napoli e frequentarvi l'università.
Vi conosce i domenicani e coltiva il proposito di
aggregarsi all'Ordine dei Predicatori.
1243. Riceve l'abito di
novizio dalle mani del priore di S. Domenico Maggiore, fra Tommaso Agni da
Lentini.
1244. Mentre cerca di
guadagnare Parigi per sfuggire ai fratelli che lo inseguono intenzionati a
opporsi ai progetti di fra Tommaso e dei domenicani che l'accompagnano, nei
pressi di Bolsena viene raggiunto e ricondotto indietro.
Trascorre un anno di segregazione nel castello di
Monte San Giovanni Campano. Vi supera una grave insidia contro la purezza,
mediante cui si sperava di distoglierlo dalla vocazione.
1245. Arresisi i parenti
di fronte alla sua costanza, fra Tommaso viene liberato e torna a Napoli.
Giovanni Teutonico, maestro generale dell'Ordine, lo affida ad Alberto Magno. E
Tommaso si forma alla sua scuola, seguendolo nei viaggi tra Colonia e Parigi.
Presto il giovane studente dimostra doti di
preparazione dottrinale e capacità didattiche talmente accentuate da indurre i
superiori ad avanzare la sua candidatura quale baccelliere (era detto «baccellierato
» il primo grado accademico, che preludeva a quello di professore) presso la
cattedra di teologia. Tommaso ha appena ventisette anni e le difficoltà
burocratiche o settarie creano accese polemiche, che solo un diretto intervento
del Papa Alessandro IV può ridurre al silenzio.
1257. Ottenuta la licentia
docendi nell'anno precedente, Tommaso può iniziare il suo insegnamento in
qualità di magister all'università parigina.
1257-1259. In quegli anni
altre polemiche lo coinvolgono suo malgrado: ad esempio quella capeggiata da
Guglielmo di S. Amore che, coi
professori laici o del clero secolare, tentava d'impedire agli Ordini mendicanti
la libera docenza universitaria.
1259-1268. Rientra in
Italia, e durante circa dieci anni può dedicarsi a una prodigiosa attività
scientifica. Insegna presso lo Studium della curia romana a Viterbo, poi
a Orvieto.
Dal '65 al '67 risiede nel convento romano di S.
Sabina con l'incarico di riordinarvi lo Studio generale.
Quando può approfittare delle pause che la
stesura dei trattati o l'insegnamento nei corsi scolastici gli concedono,
volentieri risale sui pulpiti a predicare.
E nel periodo italiano che san Tommaso compone le
opere fondamentali e sistematiche del suo pensiero teologico: la Summa contro
gentiles (1259; 1261-64) e la Summa theologiae (1266-'73), anche se
le aveva ideate già molto tempo avanti e terminerà la III pars di
quest'ultima, forse, in Francia.
1269-1271. Sembra per
desiderio dello stesso Pontefice, san Tommaso ritorna a Parigi e vi insegna per
due anni accademici consecutivi. Periodo di nuove dispute (averroismo dilagante
nella facoltà delle arti, l'attacco frontale al suo stesso orientamento
aristotelico, la rinnovata polemica contro i religiosi mendicanti e la loro
presenza nelle cattedre universitarie).
1272. Deve accettare
l'invito di Carlo d'Angiò e si occupa dell'insegnamento presso lo Studium
dell'Ordine, a Napoli.
1273. Predica la
quaresima nella chiesa di S. Domenico Maggiore.
1274. Convocato da Gregorio X a partecipare in veste di esperto al concilio di Lione (un tentativo per ristabilire l'unione tra greci e latini), fu colpito da malore. Chiesta ospitalità all'abbazia di Fossanova, Tommaso vi muore il 7 marzo.
COMMENTO
AL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI
(«CREDO»)
Mediante la fede:
2. La fede produce come un germoglio di vita eterna, la
quale in sostanza altro non è che il conoscere [svelatamente] Dio (cf. Gv 17,
3). Quaggiù ne abbiamo una conoscenza iniziale mediante la fede, ma in futuro
diverrà perfetta, e conosceremo Dio nella sua realtà. La fede, cioè, sta alla
base delle realtà divine in cui speriamo (cf. Eb 11, 1). Sicché, nessuno potrà
giungere alla beatitudine derivante da una piena conoscenza di Dio, se prima non
ne accoglie l'esistenza per mezzo della fede (35).
3. Essa costituisce l'orientamento più sicuro
nella vita. Per poter vivère rettamente è necessario conoscere le regole
fondamentali della rettitudine; ma
se per apprenderle l'uomo dovesse affidarsi alla pura riflessione, non vi
giungerebbe mai o soltanto dopo lunghissimo tempo. La fede invece ci insegna
tutto questo, rassicurandoci sull'esistenza di un Dio che premia gli onesti e
punisce i disonesti, nonché sull'esistenza di una vita futura e altre simili
verità, efficaci a orientare la vita dell'uomo verso il bene e a distoglierlo
dal male; «il giusto - infatti - vivrà ispirandosi alla fede» (Ab 2, 4).
Ciò trova conferma nel fatto che prima
dell'avvento di Cristo, basandosi sul proprio ingegno - elevatissimo quanto si
voglia -, nessun sapiente giunse a conoscere intorno a Dio e ai mezzi atti a
conseguire la vita eterna tanta certezza quanta ne possiede una vecchierella
cristiana, in forza appunto della sua fede. Dopo l'avvento del Signore si
realizza quanto profetizzato da Isaia, che cioè Dio si è reso conoscibile per
tutta l'estensione della terra (cf. Is II, 9).
Inoltre, mediante la fede superiamo agevolmente
le tentazioni. Non di rado i santi hanno vinto il contrasto coi potenti del
mondo, grazie alla loro fede (cf. Eb II, 33). Sappiamo che qualunque tentazione
proviene dal diavolo o dal mondo o dalla sensualità (36). Satana vorrebbe
indurre l'uomo a non sottomettersi, disubbidendo ai precetti di Dio. La fede, al
contrario, ci riconferma che egli è il sovrano Signore, cui è saggezza
ubbidire. «Il vostro avversario, il diavolo - ci avverte san Pietro - si aggira
come un leone alla ricerca di qualcuno da divorare. Voi resistetegli, saldi
nella fede» (I Pt 5, 8).
Il mondo ci tenta allettandoci con le prosperità,
oppure spaventandoci col timore delle tribolazioni. Anche stavolta possiamo
vincere grazie alla fede, la quale ci addita un'esistenza migliore di questa, e
così possiamo superare i pericoli nascosti nelle fortune e nelle disgrazie
mondane. «La vittoria che trionfa su questo mondo è la nostra fede!» (I Gv 5,
4.). E in più, essa ci illumina circa disgrazie anche maggiori, cioè
l'inferno, che è il peggiore dei mali.
La carne, infine, ci tenta invitandoci ai piaceri
transitori della vita terrena; e ancora una volta la fede ci trae in salvo
mostrandoci come, se ci attaccassimo a essi indebitamente, potremmo perdere le
eterne gioie del cielo. L'utilità della fede è quindi evidente.
Taluno può giudicare una stoltezza la fede, il
credere cioè in qualcosa che non cade sotto l'esperienza dei sensi. È un
dubbio inconsistente, se appena cominciamo a considerare i limiti
dell'intelletto umano. Nel caso potessimo davvero conoscere perfettamente tutte
le cose visibili e invisibili, allora sarebbe un'autentica stoltezza accettarle
per pura fede. Purtroppo, però, la nostra mente è tanto debole che mai alcun
filosofo è riuscito a sondare sino in fondo la natura d'una semplice mosca: vi
fu ad esempio uno studioso che rimase isolato dal resto del mondo, per
trent'anni, a investigare sulle abitudini delle api...
Quindi, se l'intelletto è così debole, non sarebbe
stoltezza da parte nostra, nell'investigazione di un soggetto altissimo quale è
Dio, volerci fermare a quelle elementari nozioni che la ragione giunge a farsi
in proposito? Si tratta niente meno di quel Dio «così grande da restar
misterioso di fronte a ogni nostra investigazione, come pure è impossibile
contare gli anni della sua eternità» (Gb 36, 26).
All'obiezione si può rispondere anche in quest'altro
modo. Mettiamo che un maestro, competente nella propria materia, venga
contestato da un profano; deve trattarsi, dirà chiunque, di persona di poco
senno. Ebbene, dato che l'intelletto angelico supera di gran lunga
l'intelligenza del più acuto filosofo (assai più di quanto il maestro di cui
abbiam parlato non superi la limitata capacità d'intendere di un ignorante),
sarebbe ben poco savio colui che negasse credito a una verità recatagli da un
angelo, e molto più, dunque, se non volesse credere al Dio che si rivela. Di
fatto, la fede ci manifesta parecchie cose al di sopra della pura ragione umana
(37).
Se del resto qualcuno volesse ostinarsi ad accogliere
esclusivamente ciò di cui ha diretta esperienza, un tale uomo potrebbe vivere
in questo mondo? Come campare senza fidarsi dell'altrui esperienza? Chi, per
esempio, potrebbe essere certo di esser figlio dell'uomo che si dice suo padre?
Quindi è necessario che ognuno presti fede agli altri,
là dove la personale conoscenza non arriva. E soprattutto dobbiamo fidarci di
Dio, credibile più di ogni altro. Perciò l'uomo che respinge le verità
rivelate non si dimostra intelligente, bensì sciocco e orgoglioso (cf. 1 Tm 6,
4); mentre chiunque si fida di Dio e lo onora con il debito ossequio, sperimenta
una certezza incrollabile (38).
E si può ancora aggiungere che Dio non manca di
avallare l'autenticità delle verità di fede. Quando un re invia delle lettere
contrassegnate col proprio sigillo, nessuno può metterne in dubbio l'autenticità.
Altrettanto possiamo dire a proposito del nostro assunto: le verità di fede che
i santi hanno creduto e poi tramandato fino a noi risultano autenticate da quel
sigillo di Dio che sono i miracoli (ben al di sopra della portata delle semplici
creature), coi quali Cristo ha convalidato l'insegnamento degli agiografi e
degli apostoli (39).
Che se tu volessi insistere, che i miracoli
stessi sfuggono alla diretta esperienza della maggior parte degli uomini, ti
risponderò: la storia - comprese le fonti pagane - ci insegna che l'intera
umanità credeva negli idoli mentre la fede di Cristo veniva combattuta. Ma da
un certo periodo in poi il mondo prese a convertirsi al vangelo. Sapienti,
nobili, ricchi, personaggi celebri e autorevoli si convertono nell'ascolto di
pochi, semplici e poveri predicatori evangelici.
Ebbene, o questo è un fatto miracoloso, oppure
no. Nel primo caso, eccoti la dimostrazione che cercavi. Se tu invece negassi
ancora, ti farò notare che un miracolo più prodigioso di questo è addirittura
inimmaginabile: che il mondo si sia potuto, senza intervento divino, convertire
a Cristo. Mi pare abbastanza chiaro.
Concludendo: nessuno può ragionevolmente
dubitare delle verità rivelate e, anzi, deve crederle più di ciò che
percepisce attraverso i sensi. La vista, ad esempio, può ingannarsi, mentre la
sapienza di Dio è assolutamente infallibile.
Credo in un solo Dio,
Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra
Non crede in Dio, invece, chi pretendesse di far
derivare le creature dal caso. È quasi impossibile amméttere che taluno neghi
l'esistenza di un ordine nel creato, in cui ogni cosa appare indirizzata verso
un preciso fine: sono di comune esperienza numerosi cicli naturali, tra cui il
ritorno delle stagioni; vediamo sorgere e tramontare il sole, e la luna e le
stelle percorrono orbite di assoluta precisione. Dunque, esattamente il
contrario del caso. Se qualcuno perciò fosse davvero convinto che Dio non
esiste, deve trattarsi di uno stolto (cf. Sal 13. 1).
Vi sono altri che, pur ammettendo l'azione
finalizzatrice di Dio sopra il resto della natura, la escludono per quanto
riguarda l'uomo; le umane vicende sarebbero per costoro, al di fuori di ogni
intervento divino. A sostegno della loro tesi adducono il fatto che in questo
mondo [spesso] i buoni sono afflitti, mentre i malvagi prosperano; il che
dimostrerebbe che la divinità non si occupa di noi. La Scrittura riferisce le
parole di uno di tali increduli: «Che cosa può conoscere Iddio? Può forse
giudicare [le nostre cose] attraverso la caligine? Le nubi gli fanno velo,
quindi egli non vede in giù. Così, egli se ne va a passeggio per la cerchia
dei cieli!» (Gb 22, 13-14).
Ma questa è una vera sciocchezza. I loro giudizi
sono simili a quelli di chi, vedendo un medico somministrare, in base ai dettami
dell'arte medica (che essi ignorano), acqua a un infermo e vino a un altro,
concludono che deve trattarsi di una terapia cervellotica e di un procedere a
caso.
Dio, paragonabile a un medico esperto, per quelle
giuste cause che egli conosce, dispone quanto ritiene sia meglio per l'uomo,
lasciando alcuni buoni nell'afflizione e altri, peccatori, nella loro prosperità.
Pensare che ciò denoti disinteresse da parte di Dio è, ripeto, stoltezza e
presunzione d'una creatura che pretende di dar consigli al Creatore. Contro
costoro si legge in un salmo: «Van dicendo: 'Il Signore non vede' (...) Cercate
di comprendere, stolti più di chiunque altro! O insensati, quando imparerete?
Chi ha formato gli orecchi non udrà? chi ha plasmato gli occhi, non vedrà?» (Sal
93, 7-9).
Dio vede
tutto, non esclusi i pensieri e i desideri più inconfessati. Ne deriva per noi
una vigile necessità di ben fare, dal momento che ogni cosa umana non ha
misteri per lo sguardo di Dio. «Tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui
al quale dobbiamo render conto» (Eb 4, 13).
Ne segue poi che questo Dio, che dispone
[ordinatamente] e governa l'universo, debba essere unico, l'unico possibile;
anche per la ragione che tra miriadi di esseri l'ordine è perfetto quando i
medesimi siano governati da una sola mente in grado di farlo. La molteplicità
dei governanti spesso induce il disordine tra i sudditi. Dunque, essendo
infinitamente superiore a qualunque regime escogitato dagli uomini, è chiaro
che l'ordine riscontrabile nel cosmo non può dipendere da un collegio di dèi,
ma da un'unica divina intelligenza: Dio.
I motivi che inducono a credenze politeiste sono
diversi.
I. La limitatezza della mente umana. Non
riuscendo a varcare i confini del mondo materiale, gli uomini primitivi non
sospettarono neppure l'esistenza di altre realtà all'infuori dei corpi
sensibili. E tra questi supposero che i più preziosi e nobili esercitassero
svariati influssi sul creato. Giunsero a rendere loro culti di adorazione, come
ad esempio nel caso del sole e d'altri corpi celesti.
A costoro accadeva un po' ciò che si narra di
quel sempliciotto che, entrato nella reggia per vedere il sovrano, credette di
trovarsi appunto in presenza del re non appena si imbatté nel primo funzionario
di passaggio, decorosamente vestito. Il sole, la luna e le costellazioni
stellari non sono, come erroneamente fu creduto, i governatori di questo mondo (cf.
Sap 13, 2). «Uomini, ci esorta la Scrittura, alzate gli occhi al cielo e
guardate in basso la terra: i cieli svaniranno come fumo, la terra si consumerà
come una veste [divorata dalle tignole], e i suoi abitanti periranno come le
mosche; la mia salvezza invece [dice il Signore] dura in eterno e la mia
giustizia non potrà mai esaurirsi» (Is 51, 6).
2. Anche l'adulazione può aver avuto il suo
peso. Volendo lusingare un padrone o il proprio sovrano, taluni resero loro
quell'onore che dev'essere tributato a Dio; così li ubbidirono ciecamente, si
dichiararono loro schiavi e, col sopraggiungere della morte, elevarono un uomo
al rango degli dèi, se già non lo avevan fatto ancor prima, mentre era in
vita. Servano ad esempio in tal senso le parole di Oloferne: «Chi è dio se non
Nabucodonosor? Egli manderà le sue forze e li disperderà dalla faccia della
terra (...) e non li scamperà il loro Dio!» (Gdt 5, 29).
4. La malizia del diavolo di sicuro non rimase
inattiva. Colui, infatti, che dal principio ambì d'equipararsi al suo Creatore
dicendo: «Sormonterò l'altezza delle nubi, sarò simile all'Altissimo» (Is
14, 14), non desistette neanche dopo [il castigo]. Egli fa di tutto per essere
adorato dagli uomini e ottenerne offerte sacrificali. Non sa che farsene di un
cane o di un gatto che vengono immolati in suo onore, ma gode di vedersi oggetto
di quella riverenza che è dovuta a Dio. Giunse a proporre al Cristo l'offerta
di tutti i regni del mondo nella loro splendida magnificenza se, prostrato a
terra-, lo avesse adorato (cf. Mt 4, 9). Per meglio ingannare gli uomini e
conseguire il culto cui ambivano, i demoni presero ad abitare gli idoli,
emettendo oracoli.
È qualcosa d'orribile l'idolatria, [celandosi
dietro a essa il nemico di Dio], eppure non sono pochi quelli che, per una
ragione o per l'altra, vi aderiscono. Anche se non lo confessano apertamente e
non ne sono coscienti, tuttavia lo danno a vedere con il loro comportamento.
Quanti ad esempio pensano che gli astri siano in
grado di influenzare le decisione umane, o li consultano nella speranza di
ottenere risultati felici in base agli oroscopi, costoro deificano praticamente
i corpi celesti, come quelli che costruiscono gli astrolabi (41). Il timore di
fronte a prodigi celesti, quali i fenomeni naturali, devono indurre a un
moderato timore, mentre i pagani, attribuendoli a inesistenti divinità, se ne
spaventano oltremisura (cf. Ger 10, 2).
Chi ubbidisce al sovrano più che a Dio, o in
qualcosa che contrasta coi divini comandamenti, anche costui professa una forma
di idolatria; e gli Atti degli Apostoli perciò ci ricordano che «bisogna
ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).
Le persone che si occupano di filtri e
incantesimi attribuiscono ai demoni prerogative divine: chiedono infatti agli
spiriti del male determinati responsi che solo Dio può dare, quali la
rivelazione di cose nascoste o di avvenimenti futuri.
Tutto ciò, allo scopo di ribadire che esiste un
unico Dio, cui competono le suddette prerogative.
Chiarito che vi è un solo Dio, passiamo ora a
mostrare come egli sia il creatore e l'organizzatore del cielo e della terra,
delle realtà visibili e di quelle invisibili.
Lasciando da parte le dimostrazioni sottili,
porterò qualche esempio elementare. A colui che prende a considerare la realtà
di questo mondo succede un po' come a chi, entrando in una casa, sentisse un
certo grado di calore che vada aumentando col procedere verso le stanze più
interne. Anche senza vedere la fonte da cui emana il calore, egli dirà che deve
esservi un fuoco acceso.
Così, nell'universo vediamo che le cose sono
ordinate secondo una scala di valori, come bellezza e nobiltà intrinseche (42).
Le più elevate sono anche le più belle e nobili, e i corpi celesti sorpassano
per dignità quelli terreni, allo stesso modo che le sostanze spirituali
sopravvanzano quelle percepite dai sensi. Perciò è ragionevole concludere che
l'insieme del creato dipenda da un unico. Dio, il quale dà alle singole
creature l'essere e un grado determinato di nobiltà. Stolti, dunque, son quegli
uomini «che ignorano Dio, e dai beni che si vedono non han saputo risalire a
colui che è: anzi, pur mirando le sue opere, non ne riconobbero l'artefice ma
credettero dèi, governatori del mondo, il fuoco o il vento o l'aria veloce, o
il firmamento stellato o le acque violente o gli astri del cielo. Se li
ritennero dèi perché attratti dalla loro bellezza, cerchino di capire quanto
più meraviglioso dev'essere il Signore di quelle cose: chi le creò è l'autore
della stessa bellezza. Se poi li ha colpiti l'energia che da esse sprigiona,
comprendano quanto più potente è colui che le ha fatte; poiché la grandezza e
la bellezza delle creature svelano alla ragione, per riflesso, l'identità del
loro autore» (Sap 13, 1-5).
Nessun dubbio dunque per noi, che Dio sia
l'autore dell'intero universo.
Tre errori da evitare in
proposito.
I. Quello dei manichei, per i quali il creato
visibile è opera del diavolo, mentre a Dio andrebbe attribuita esclusivamente
la creazione degli esseri spirituali. Partivano da una verità: se Dio è il
sommo bene (e lo è in effetti), tutto quanto da lui deriva dovrebbe somigliare
a lui. Di qui, con una logica grossolana, deducevano che quelle cose che in
qualche modo si rivelino difettose o causa di un male contingente, fossero
decisamente cattive e opera del maligno. Perfino il fuoco, per essi, era cattivo
perché brucia, o l'acqua in cui uno può affogare, e via dicendo. Ora, non
esistendo al mondo nulla che possa dirsi perfettamente buono, ne conclusero che
l'insieme delle realtà visibili dovesse trarre origine non da Dio, bontà per
essenza, bensì dallo spirito del male.
Agostino ribatte con l'esempio seguente. Entrando
nell'officina d'un artigiano qualcuno inciampa contro un arnese e si fa del
male: se concludesse che deve trattarsi senz'altro di un'arma destinata a
ferire, ragionerebbe da stolto, dal momento che l'artigiano l'adopera
esclusivamente per il proprio lavoro. Altrettanto sciocco è il dedurre, dal
fatto che possono nuocere in determinate circostanze, che le creature siano
intrinsecamente malvagie e ordinate al male. La medesima cosa infatti che può
nuocere ad uno, può giovare ad altri.
Un simile errore è contrario alla dottrina della
Chiesa. Perciò nel Credo si legge che Dio è creatore di tutte le cose: «delle
creature visibili e di quelle invisibili». Dio ha creato il cielo e la terra:
tutto è stato fatto mediante il suo Verbo (43).
2. Il secondo errore, di quelli che sostengono
l'eternità del mondo, deriva dalla difficoltà di intenderne rettamente
l'origine. Riferendosi a codesta opinione, l'apostolo Pietro così scrive: «Da
quando i padri [cui venne fatta la rivelazione] sono morti, tutto è rimasto
com'era fin dal principio della creazione» (2 Pt 3, 4). E Rabbi Moyses dice che
a costoro succede come a un bambino che venisse relegato, subito dopo la
nascita, in un'isola [deserta]. Non avendo veduto mai una donna incinta né
sapendo nulla circa le modalità del parto, se da grande gli venisse detto che
egli stesso, un tempo, era stato concepito e nutrito nel grembo di sua madre,
egli si rifiuterebbe di ammettere che un adulto come lui potesse esservi
contenuto. Così costoro, vedendo lo stato attuale del mondo, non riescono a
immaginarne il principio.
Anche questo è un errore contro la fede
cattolica. Abbiamo perciò, nel Credo: «Creatore del cielo e della terra». Se
le creature sono state fatte, è lo stesso che dire ch'ebbero un inizio. A un
cenno del Signore cominciarono a esistere (cf. Sal 148, 5).
3. Secondo altri, Dio avrebbe formato il mondo
partendo da una materia preesistente. Vorrebbero farsi un'idea della divina
potenza paragonandola alla nostra. Noi, infatti, non possiamo far nulla senza
una materia su cui agire; e lo stesso affermano di Dio: creò il mondo
servendosi di una materia predisposta.
È un errore. L'uomo sì, essendo un agente di
limitata potenza, può solo modificare la forma della materia su cui agisce. Dio
però è causa totale, in grado di creare tanto la materia quanto la forma della
medesima. Dunque ha fatto tutto, dal nulla, il «creatore del cielo e della
terra».
Creare e fare non sono sinonimi: nel primo caso
si tratta di un chiamare all'esistenza partendo dal nulla, mentre il secondo
verbo indica le molteplici modificazioni operate sulla materia.
E se Dio ha fatto il tutto dal nulla, è
credibile che potrebbe rifare ogni cosa, se questo mondo cessasse di esistere; e
può dare a un cieco la capacità di vedere della quale era privo, nuova vita a
un cadavere e fare miracoli di ogni genere. «Signore, (...) nelle tue mani sta
il potere e puoi usarlo quando tu vuoi» (Sap 12, 18).
Ne derivano alcune conclusioni. L'uomo viene
orientato verso la conoscenza di un Dio maestoso. Un autore emerge sempre
rispetto alle proprie opere, e Dio che abbiamo chiamato «creatore dell'universo»
risulta infinitamente più grande delle sue creature. La grandiosità e la
bellezza delle opere divine non sono altro che un pallido riflesso del Creatore
(cf. Sap 13, 3-4). Qualunque cosa noi possiamo concepire o fantasticare, resterà
sempre inferiore alla realtà di Dio. Giobbe esclama con ragione: «Ecco, Dio è
così grande che non possiamo adeguatamente comprenderlo... L'Onnipotente, del
quale non possiamo penetrare la forza, la rettitudine, la giustizia!» (Gb 36,
26; cf. ib. 37, 23).
La nostra gratitudine riceve, dal considerare
quanto detto finora, continuo impulso: è evidente che tutto ciò che siamo o
abbiamo, ci viene da Dio. Alla domanda rivolta all'uomo da san Paolo: «Che
cos'hai, tu, che non l'abbia ricevuta da Dio?» (I Cor 4, 7) risponde il
salmista: «Del Signore è la terra con quanto essa racchiude: il mondo e i suoi
abitatori» (Sal 23, 1). Quindi dobbiamo ringraziarlo, chiedendoci
continuamente: «Che posso io rendere al Signore, per tutti i benefici che da
lui ho ricevuto?» (Sal 115, 12).
Anche la pazienza nelle avversità ne risulta
accresciuta. Ogni creatura ha origine dal volere di Dio, perciò è
intrinsecamente buona: se essa ci è causa di qualche danno o sofferenza,
dobbiamo escludere che voglia farci del male, colui che È; è esente dal male
in assoluto, e credere piuttosto che quanto egli permette sia sempre ordinato al
bene. Dobbiamo sopportare con pazienza ogni pena, in quanto esse hanno il potere
di purificare l'uomo dai peccati, umiliano il colpevole, spingono i retti a un
più vivo amore di Dio. «Se da Dio si accetta il bene, il male [che egli
permette in ordine ai suoi fini provvidenziali] perché non dovremmo accettarlo?»
(Gb 2, 10).
Una retta conoscenza di Dio ci induce a usare
debitamente delle cose create, in linea con il fine inteso dal Creatore: la sua
stessa gloria e il nostro vantaggio (cf. Prv 16, 4; cf. Dt 4, 19). In altre
parole, dobbiamo servirci dei beni creati in maniera da non contrastare la sua
volontà, evitando di macchiarci col peccato, qualora li indirizzassimo verso
fini diversi dai suoi. Qualunque cosa tu possieda - dalla scienza alla bellezza,
tu devi riconoscerla da lui, e servirtene per rendergli gloria (cf. I Cr 29,
14).
Infine, la conoscenza di Dio, quale Padre e
creatore dell'universo, ci guida verso una maggior conoscenza dell'umana dignità.
Difatti la creazione venne ordinata a quella creatura che, dopo gli angeli, più
è simile a Dio: l'uomo. A lui affidò il dominio del creato (cf. Sal 8, 8). Non
fece a sua immagine, secondo la propria somiglianza (cf. Gn I, 26) gli spazi
siderali o i corpi celesti, bensì l'uomo allorché la nostra anima fu dotata di
libera volontà, ed è immortale. Ciò ci rassomiglia più di qualunque altra
creatura alla divina essenza.
L'uomo perciò va considerato come la creatura
maggiormente elevata in dignità, dopo l'angelo. Dobbiamo far sì che i desideri
immoderati verso beni a noi inferiori non degràdino questa dignità. Le
creature sono al nostro servizio, ma occorre servirsene ragionevolmente,
conforme ai fini stabiliti da Dio.
Egli fece l'uomo affinché governasse il creato
ma restasse a lui soggetto. Dobbiamo quindi disporre dei beni creati rimanendo
però sottomessi al Creatore, pronti a ubbidirgli sollecitamente. Arriveremo in
tal modo al godimento di Dio.
[Credo]
in Gesù Cristo, suo unico Figlio e Signore nostro
La seconda verità di base cui i cristiani devono
prestare fede è questa: Gesù è vero figlio di Dio. Non si tratta di leggenda
ma di verità certa, garantita dalla voce che risuonò sul monte [della
trasfigurazione]. Ne è testimone lo stesso Pietro, trovatosi presente: «Siamo
stati testimoni della sua maestà. Lassù [Cristo] ha ricevuto da Dio Padre
onore e gloria, quando tra il glorioso splendore gli fece udire una voce, che
diceva: «Questi è il mio Figlio diletto, in cui ho riposto tutta la mia
compiacenza. E noi l'abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando
eravamo con lui sulla montagna santa, sicché acquista per noi una forza ancor
maggiore la parola dei profeti» (2 Pt I, 16-19).
Gesù stesso, in diversi passi del Vangelo chiama
Dio «Padre mio», e si definisce «Figlio di Dio», cosicché gli apostoli e i
santi padri poterono aggiungere tra gli articoli di fede che Gesù Cristo è
vero Figlio di Dio.
Non mancarono gli eretici, che intesero
erroneamente questa verità.
Fotino (44) asseriva che il Cristo può esser
considerato figlio di Dio non diversamente da un qualunque uomo virtuoso che,
vivendo secondo i precetti divini, si comporta (per dirla con espressione
metaforica) da figlio adottivo di quel Dio che egli onora. Così avrebbe fatto
Gesù: vivendo santamente in ossequio alla volontà divina, meritò
l'appellativo di «figlio di Dio». Di più, Fotino sostenne che il Cristo ebbe
esistenza solo nel momento in cui venne concepito dalla beata Vergine.
Il suo ragionamento pecca doppiamente. Per prima
cosa egli erra nel non credere che Gesù sia Figlio di Dio, consostanziale col
Padre; poi nell'attribuirgli un'esistenza puramente temporale. La dottrina
cattolica insegna invece che Cristo è Figlio di Dio in forza della comunione
nella divina natura, e professa la fede nell'eternità del Verbo che si incarna
in Maria. La sacra Scrittura smentisce ampiamente le gratuite asserzioni di
questo eretico. Ad esempio, leggiamo del Cristo che non solo è figlio, ma
figlio unigenito del Padre (cf. Gv 1, 18). Gesù afferma di sé stesso: «Prima
che Abramo nascesse, io già esistevo» (Gv 8, 58). Abramo visse assai prima di
Maria. Egli è perciò «figlio unigenito di Dio; nato dal Padre prima di tutti
i secoli».
Sabellio (45), pur ammettendo che Cristo
preesisteva a sua madre, sostenne tuttavia che non ci sono un Padre e un Figlio.
È il Padre in persona a incarnarsi. Dottrina ereticale, che intacca il dogma
della Trinità, esplicito ad esempio nel Vangelo di Giovanni: «Non sono solo -
afferma Gesù - perché con me ho il Padre, che mi ha inviato [mediante l'opera
dello Spirito]» (Gv 8, 16). Nessuno evidentemente può inviare se stesso.
Sabellio, quindi, ha torto. Nel Credo leggiamo così che Cristo è «Dio
[proveniente] da Dio; Luce da Luce»: cioè, Dio Figlio procede da Dio Padre, e
il Verbo è luce intellettiva derivante dal lume divino che è il Padre.
Ario (46) non commette gli errori precedenti, però
attribuisce a Cristo tre elementi inaccettabili: egli sarebbe una creatura
quanto si voglia nobilissima, esistente non ab aeterno; e non avendo la
medesima natura del Padre, non potrebbe dirsi vero Dio.
Anche qui le autorità scritturistiche parlano
chiaro. «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 30); evidente perciò
l'unità di natura tra le persone divine. E come il Padre è vero Dio,
altrettanto lo è il Figlio. Non creatura, ma «Dio vero da Dio vero»; non
creato nel tempo, bensì «generato» nell'eternità e «della stessa sostanza
del Padre».
Siamo convinti che Cristo è il Figlio unigenito
del Padre, a lui consostanziale e coeterno. Quaggiù noi professiamo queste
verità mediante l'atto di fede; nella vita eterna ne avremo la chiara visione.
Intanto possiamo render più confortevole l'attesa sviluppando qualcuno dei
punti sopra accennati.
Il termine generazione può avere diversi
sensi: Dio infatti genera in modo assai diverso dai modi in cui si esplica il
molteplice riprodursi delle creature. Orbene, se vogliamo farci un'idea meno
impropria della divina azione generante, prendiamo in considerazione quella
realtà che, nel campo della nostra esperienza, più si avvicina all'essere di
Dio. Dobbiamo cioè partire dall'anima umana, la quale, mediante i suoi concetti
universali concepisce appunto, o genera, un verbum ossia la parola
dell'intelletto.
Il Figlio di Dio altro non è che il Verbo,
la Parola del Padre, non nel senso di una delle nostre parole che pronunziandole
situiamo al di fuori di noi stessi. Egli è piuttosto somigliante al concetto
mentale che resta interiorizzato nell'intelligenza. Il Cristo è Verbo intimo
alla Trinità, della medesima natura del Padre e dunque Dio egli stesso. Nel
prologo del suo Vangelo, parlandoci del Verbo, san Giovanni respinge con
un'unica espressione le tre eresie fin qui esaminate: «In principio era il
Verbo», contro quella di Fotino; «e il Verbo era presso Dio», contro Sabellio;
«e il Verbo era Dio», contro la dottrina di Ario (Gv I, 1).
Essendo il Verbum Dei la medesima realtà
che il Figlio di Dio - e ogni parola di Dio ne riflette in qualche modo
l'infinita ricchezza -, dobbiamo:
1) ascoltarne volentieri il messaggio. È segno
che amiamo il Signore;
2) credere a quanto egli dice. In tal modo il
Verbo di Dio prende dimora in noi, attraverso la fede (cf. Ef 3, 17);
3) meditare continuamente sulle parole uscite
dalla bocca di Dio. Diversamente la fede non produrrebbe i suoi frutti; e una
tale meditazione è assai efficace contro il peccato, seguendo l'esempio del
salmista che scrive: «Custodisco nell'intimo le tue parole per non peccare e
offenderti» (Sal 118, 11), mentre in altro salmo è detto dell'uomo giusto che
«medita la legge di Dio giorno e notte» (Sal I, 2). Di Maria, infine, narra
san Luca che «conservava ogni parola udita [sul conto del Figlio], meditandola
attentamente» (Lc 2, 51).
4) Si richiede inoltre che l'uomo, nutritosi
della divina dottrina, la comunichi anche agli altri, ammonendo o predicando con
fervore, per l'edificazione del prossimo (cf. Col 3, 16). Il medesimo apostolo
raccomandava, scrivendo ai cristiani di Colosse: «La parola di Cristo coi suoi
tesori abiti in voi; istruitevi ed esortatevi a vicenda con tutta saggezza
(...), secondo che la grazia v'ispira» (Col 3, 16), mentre a Timoteo dà un
consiglio valido per chiunque sia preposto al governo dei suoi fratelli in
Cristo: «Predica il vangelo, insisti a tempo e fuori tempo, riprendi, minaccia,
esorta, sempre con pazienza e integrità di dottrina» (2 Tm 4, 29).
5) La Parola di Dio dev'esser principalmente
tradotta in pratica, sì da non meritare il rimprovero di Giacomo: «Non vi
limitate ad ascoltarla, ingannando voi stessi» (Gc I, 22).
Nel dare dalla propria carne un corpo al Verbo
divino, la beata Vergine Maria adempì tutto ciò perfettamente. L'ascolto della
Parola [di cui l'angelo è messaggero]: «Lo Spirito Santo verrà su di te, la
potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra» (Lc I, 35). Il consenso
della fede: «Eccomi, sono l'ancella del Signore» (Lc I, 38). Essa lo andò
formando e custodì nel grembo. Lo diede alla luce. Lo nutrì col suo latte. La
Chiesa può cantare di lei: «Colma di celesti tesori, la Vergine Madre allatta
il re degli angeli».
Occorre credere poi nell'incarnazione del Verbo,
seguendo l'evangelista Giovanni che, dopo averci rivelato [nel prologo del
quarto Vangelo] verità ardue e sublimi, passa ad accennare all'incarnazione del
Figlio di Dio: «E il Verbo si è fatto uomo» (Gv I, 14).
Per meglio intenderci, porteremo due esempi.
Abbiam detto che non è possibile trovare un'altra immagine atta a
rappresentarci il Verbo del Padre, all'infuori del pensiero concepito dalla
mente umana. Nessuno può conoscerlo finché esso rimanga racchiuso nell'anima
di colui che l'ha pensato. Proferendolo, egli lo comunica all'intorno.
Analogamente, fino a quando il Verbo rimase nella mente del Padre, nessun altro
oltre al Padre poté conoscerlo. Incarnandosi (come accade al nostro pensiero,
reso sensibile non appena si riveste di suoni intelligibili), il Verbo divino
divenne manifesto anche per gli uomini. Simile alla sapienza creatrice di cui
parla il profeta Baruc, il Verbo [incarnato] «apparve sopra la terra. e abitò
in mezzo agli uomini» (Bar 3, 38).
Altro esempio. Possiamo conoscere l'altrui
pensiero mediante la parola captata dall'organo dell'udito, ma non la si può,
però, né vedere né tanto meno toccare, finché non venga scritta sopra una
pagina: allora appare ai nostri occhi, assume una qual certa consistenza fisica.
Così il Verbo divino si rese visibile e
tangibile, quando fu come scritto nella umana carne. Noi, che usiamo chiamare
parola del re la carta stessa su cui è stilato il suo volere, indichiamo col
nome di Figlio di Dio l'uomo cui ipostaticamente (47) venne a unirsi il Verbo.
Nel Credo perciò si afferma che egli fu «concepito per opera dello
Spirito Santo, nacque da Maria Vergine».
Anche su questa verità di fede furono in molti a
errare; sicché nel sinodo di Nicea (48) i padri [della Chiesa] aggiunsero varie
precisazioni contro le nuove eresie, come si può vedere nell'antica
formulazione dogmatica.
Origene (49), infatti, insegnava che Cristo era
venuto al mondo per salvare tutti, compresi i demoni. Alla fine avrebbero
conseguito la redenzione gli stessi spiriti del male. Il che è contro la
Scrittura, la quale registra a loro riguardo la sentenza di Cristo giudice: «Andate
lontano da me, voi maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi
sostenitori» (Mt 25, 41). Di qui l'aggiunta, nel Simbolo: «[Il Verbo si è
incarnato] per noi uomini, per la nostra salvezza (non già per quella dei
demoni)». Un segno di più dell'amore che Dio ha voluto riservarci.
Fotino (50), concesso che Cristo era nato da
Maria, ne faceva un semplice uomo che, vivendo rettamente nell'adempimento della
divina volontà, meritò d'essere elevato al rango di figlio di Dio, come del
resto gli altri santi. Trova però smentita nelle parole di Gesù riportateci da
Giovanni: «Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di
colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38). Se ne è discéso, è segno che vi si
trovava, e un comune mortale non abita nei cieli. Egli invece veramente «discese
dal cielo».
I manichei (51) sostenevano che, pur essendo
stato sempre Figlio di Dio, venendo sulla terra egli non assunse un corpo reale,
ma solo apparente. Ciò è falso, anche perché non era conveniente che il
Maestro della verità ricorresse agli inganni, ma soprattutto se consideriamo le
parole di Gesù [e la conseguente testimonianza degli apostoli]: «Guardate le
mie mani e i miei piedi: son proprio io. Palpatemi e osservatemi: uno spirito
infatti non ha carne e le ossa come vedete che ho io» (Lc 24, 39). Esatta,
quindi, la formulazione: «Il Verbo si è incarnato».
Ebione (52) l'ebreo disse che il Cristo,
vero figlio di Maria, sarebbe il risultato di un normale rapporto coniugale. Ma
l'angelo, rassicurando Giuseppe, dice esplicitamente: «Non temere di prendere
con te Maria, tua fidanzata, perché colui che in lei è stato concepito è
opera dello. Spirito Santo» (Mt I, 20). E il Credo annota fedelmente tale verità.
Valentino ammette che il Cristo fu concepito
secondo le parole dell'angelo, ma suppose che l'opera dello Spirito Santo fosse
consistita nel deporre nel grembo di Maria quella medesima [nobile] sostanza che
costituisce le emanazioni celesti (53), da cui ebbe origine il corpo umano del
Cristo. La Vergine fu, per quest'eretico, null'altro che l'asilo vivente che
protesse il bambino nei mesi della gestazione, un puro tramite che gli permise
di comparire tra noi. Eppure, ancora una volta l'angelo aveva parlato con
chiarezza: «Il figlio che da te nascerà, il Santo, sarà detto 'Figlio di Dio'»
(Lc I, 35), e altrettanto chiaro scrive san Paolo: «Trascorso che fu il numero
dei secoli prestabiliti, Dio mandò suo Figlio, fatto da una donna» (Gal 4, 4).
«Nato - perciò - da Maria Vergine».
Ario (54) e Apollinare (55) dicevano: Cristo è
il Verbo di Dio, Maria ne è veramente la madre, però quel figlio non ebbe
un'anima propria, simile alla nostra, essendo sufficiente ad animarlo la divinità.
Questa tesi va contro diversi passi della Scrittura. Ad esempio: «Adesso provo
angoscia nell'anima!» (Gv 12, 27); oppure: «La mia anima è triste, quasi fino
a morirne» (Mt 26, 38). A evitare eresie in proposito, i Padri aggiunsero nel
Simbolo: «Si è fatto uomo», dotato d'un'anima e di un corpo, integralmente
uomo, escluso il peccato.
La formula in questione, circa la vera natura umana del Cristo, si è dimostrata valida anche contro gli errori di Eutiche (56) e quelli di Nestorio (57). Costui affermava che il Figlio di Dio inabitava semplicemente l'uomo Gesù (ma leggiamo nel vangelo di Giovanni, letteralmente: «Voi cercate di uccidere quest'uomo che sono io e v'ho detto una verità che ho conosciuto stando presso il Padre» (cf. Gv 8, 40). Il primo, cioè Eutiche, aveva fantasticato nella persona del Cristo una mescolanza delle due nature - quella divina e quella umana, da cui però sarebbe risultato un essere che, propriamente parlando, non era né Dio né uomo. Il Credo perciò sostiene che il Verbo si è fatto uomo.
Possiamo ormai trarre alcune conclusioni di
notevole importanza.
I. La fede cristiana, considerando il mistero
dell'incarnazione viene a essere rafforzata. Se qualcuno raccontasse meraviglie
a proposito di terre sconosciute che mai ha visitato, gli daremmo credito fino a
un certo punto. Qualcosa di simile accadde a proposito della rivelazione:
patriarchi e profeti e lo stesso Giovanni Battista furon creduti con un certo
margine di riserva, assai meno cioè di quanto non fu creduto il Cristo,
l'inviato del Padre, anzi Dio egli medesimo. La nostra fede, basata sul
messaggio di Gesù, ha quindi un ottimo fondamento. L'unigenito Figlio che vive
nel seno del Padre ci ha fatto conoscere non la legge di Mosè ma la grazia e la
verità (cf. Gv I, 18; 17). Egli ha illuminato molti misteri, fino allora
nascosti al genere umano.
2. La speranza si eleva più fiduciosa, al
pensiero che il Figlio di Dio è venuto tra noi, come uno di noi, per un non
lieve motivo: al contrario, assunti corpo e anima d'uomo, si degnò di nascere
dalla Vergine per comunicare agli uomini la propria divinità. Si è fatto uomo
per elevare l'uomo sino a Dio. «Mediante la fede in Gesù Cristo abbiamo
ottenuto l'accesso a questa grazia in cui siamo, e ci gloriamo nella speranza
della gloria di Dio» (Rm 5, 2).
3. Si ravviva la carità. Nessun indizio più
evidente dell'amore che Dio ci serba, quanto il vedere il creatore dell'universo
farsi egli stesso creatura, il Signore farsi nostro fratello, il Figlio di Dio
diventare figlio dell'uomo. «Dio ha tanto amato il mondo da sacrificare il
proprio Figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma
abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Come possiamo restare indifferenti e non
sentirci infiammati d'amore, a nostra volta?
4. Siamo stimolati a preservare l'anima dal
peccato. Essa acquistò una nobiltà somma dall'essere unita a Dio e, nella
persona del Cristo, elevata alla comunione con la persona del Verbo.
Comprendiamo così perché, avvenuta l'incarnazione, l'angelo non permise che
Giovanni lo adorasse (58), mentre i messaggeri celesti erano soliti ricevere
questa sorta di ossequio anche da parte dei massimi patriarchi.
Considerando debitamente una simile elevazione,
l'uomo deve avere in orrore di abbassarsi nel peccato. Scrive l'apostolo Pietro:
«Dio Padre ci ha chiamati alla fede e (...) ci ha messo in possesso dei
preziosi e magnifici beni promessi, affinché (...) diveniamo partecipi della
natura divina fuggendo la corruzione che esiste nel mondo a causa della
concupiscenza» (2 Pt I, 4).
5. Infine, sentiremo infiammarsi il nostro
desiderio di raggiungere Cristo [nella gloria]. Se il fratello di un re stesse
lontano, certo bramerebbe di poter vivergli accanto. Ebbene, Cristo ci è
fratello: dobbiamo quindi desiderare la sua compagnia, diventare un sol cuore
con lui, imitando l'apostolo Paolo che avrebbe voluto morir subito per non
tardare ulteriormente l'incontro col Signore (cf. Fil I, 23). Meditando sul
mistero dell'incarnazione, s'accresce questo desiderio.
Accolta la realtà dell'incarnazione del Verbo
nella persona di Cristo, il cristiano deve credere alla sua vita sofferente, che
si concluse con la morte [in croce]. Che cosa ci avrebbe giovato il nascere - si
chiede san Gregorio -, se poi non avessimo trovato un redentore ?
Questo mistero, che cioè Cristo sia morto per
noi, è talmente sublime, che il nostro intelletto riesce a farsene appena una
pallida idea. Impossibile penetrarlo sino in fondo! Davvero, nella vicenda del
Cristo si è compiuta un'opera divina quasi incredibile a raccontarsi (cf. At
13, 41; Ab 1, 5). La gratuita carità di Dio nei nostri riguardi è stata così
munifica, che stentiamo a percepirne la portata.
Non dobbiamo tuttavia credere che, morendo il
Cristo, sia morta la stessa divinità. Fu soggetta alla morte la natura umana
unita al Verbo. Cristo morì in quanto uomo, non certo in quanto era Dio.
Vediamo di spiegarci meglio.
Quando muore uno di noi, ossia quando l'anima si
separa dal corpo, è in quest'ultimo che si spegne la vita, giacché l'anima
sopravvive. In Gesù sopravvissero e l'anima e la divinità.
Si affaccia a questo punto una obiezione: se non
uccisero la divinità, i giudei [che decisero l'eliminazione del Cristo] sono
colpevoli di un semplice omicidio. Al che rispondo: se qualcuno insudicia
intenzionalmente la veste del sovrano, non viene considerato colpevole di reato
allo stesso modo che se ne avesse imbrattato la persona? Perciò, sebbene non
abbiano ucciso Cristo-Dio (cosa impossibile), gli autori [morali] della morte di
Gesù hanno meritato, in base alle loro intenzioni, una gravissima condanna
(59).
E poi, come si è detto, il Figlio di Dio, Parola
dell'eterno Padre, incarnandosi s'è reso in qualche modo visibile, leggibile
come uno scritto davanti ai nostri occhi. Chi lacerasse un decreto regio,
attenta alla stessa maestà regale; e quindi il peccato di quei giudei è di
tentato deicidio.
Altra possibile domanda: era necessario che il
Verbo divino patisse per noi? Sì, era necessario, oltre che opportuno.
Dalla passione del Cristo deriva un rimedio
molteplice, contro le conseguenze del peccato.
I. Infatti, peccando, l'uomo deturpa la propria
anima dato che la virtù è un'interiore bellezza, che viene a essere imbruttita
dalla colpa. Riecheggia il lamento del profeta: «Per qual motivo, o Israele,
sei in terra nemica, invecchi in un paese straniero, ti vai contaminando tra i
morti, (...) tra coloro che discendono nell'abisso?» (Bar 3, 10-11). La
passione sofferta dal Cristo vi apporta il giusto rimedio: il sangue sparso da
lui è come un lavacro spirituale, in cui i peccatori potranno purificarsi (cf.
Ap I, 5). Il sacramento del battesimo acquista una forza rigeneratrice, in virtù
appunto del sangue di Gesù.
Chiunque pecchi dopo il battesimo, reca a Cristo
una maggiore offesa, secondo la giusta ammonizione di Paolo: «Colui che abbia
violato la legge di Mosè è messo a morte - sulla deposizione di due o tre
testimoni - senza misericordia; di qual supplizio più atroce pensate voi non
sarà degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e reputa come immondo il
sangue della sua alleanza, col quale è stato santificato, e avrà fatto
oltraggio allo Spirito della grazia?» (Eb 10, 28-29).
2. Peccando, offendiamo Dio. Come l'uomo carnale
ama la bellezza fisica, così egli predilige l'interiore armonia che abbellisce
l'anima. Il peccato la inquina, Dio ne rimane offeso e ne prova disgusto: «Il
Signore odia in egual misura l'empio e la sua empietà» (Sap 14, 9).
Cristo pone rimedio a tale situazione, rendendo
al Padre quella soddisfazione che l'uomo non avrebbe mai potuto dargli. La carità
del Figlio, la sua ubbidienza hanno superato la portata dello stesso peccato
d'origine. «Siamo stati riconciliati con Dio, noi suoi nemici, mediante la
morte del suo Figlio» (Rm 5, 10).
3. Cresce la nostra fragilità morale. Possiamo
illuderci di riuscire a evitare nuove cadute, ma l'esperienza ci convince
facilmente del contrario. A seguito del primo cedimento l'uomo risulterà
debilitato e proclive a cedere. Il peccato ci domina gradualmente e, abbandonati
a noi stessi, rassomigliamo sempre più a chi si getta in un pozzo da cui non
potrà uscire se altri non lo aiuta.
La natura umana è stata indebolita e corrotta
dal peccato d'origine, l'uomo è maggiormente incline a cadere. Ed ecco il
Cristo, che viene a ridurre la portata di questa nostra infermità morale. La
natura non è ricondotta allo stato primigenio, ma l'uomo trae energia dai
meriti della passione di Cristo, mentre la forza del male è in qualche modo
sotto controllo di quella grazia divina che ci proviene dall'uso dei sacramenti.
I nostri sforzi per risalire la china non saranno dunque più vani, come per
l'uomo vecchio, schiavo del peccato (cf. Rm 6, 6). Prima che Gesù si offrisse
in olocausto, ben pochi saranno stati gli uomini cui riuscì di vivere senza
colpe gravi. Dopo, invece, tantissimi son vissuti e vivono liberi da tale
schiavitù.
4. Un altro effetto del peccato è la conseguenza
penale che trae seco. La divina giustizia esige che chiunque abbia peccato debba
essere punito, commisurando la pena sulla gravità della colpa. Ora, essendo
praticamente infinita una colpa come quella del peccato mortale - un attentato
al bene infinito che è Dio e che viene gravemente offeso dal trasgressore della
legge -, la pena dovrà essere proporzionata.
In forza dei suoi patimenti, Cristo ci ha
liberati dall'obbligo di saldare un debito umanamente insolvibile. Pagò egli
stesso, al posto nostro, di persona. Egli, secondo l'espressione apostolica, «ha
portato su di sé i nostri peccati: nel proprio corpo crocifisso al legno della
croce, affinché noi, separati da tutto ciò che è peccato, vivessimo secondo
giustizia. Siete stati guariti al prezzo delle sue piaghe» (I Pt 2, 24).
La passione di Gesù fu di tale efficacia, che
sarebbe sufficiente a espiare i peccati di tutto il mondo, fossero pure in
numero infinito.
Questo è il motivo per cui, a contatto col
sacramento, i battezzati ricevono la piena remissione delle loro colpe. È la
passione del Cristo che conferisce al sacerdote un potere assolutorio, e quanto
maggiormente una persona si conforma alla passione del Cristo, tanto più ampio
è il perdono e più abbondante la grazia.
5. Il peccatore perde ogni diritto d'entrare nel
regno dei cieli, secondo la pena dell'esilio riservata ai colpevoli di lesa
maestà. Adamo, per primo, fu scacciato dal paradiso [terrestre], e alle sue
spalle venne sbarrato l'ingresso anche di quello celeste. Cristo lo riaprì
grazie ai meriti della sua passione [e morte]. Gli esuli videro revocato il
divieto di rientrare in patria. La porta del regno dei cieli fu di nuovo aperta
nel momento in cui veniva squarciato il fianco al Cristo, spirato sulla croce.
Versato che fu il suo sangue, scomparve la macchia del peccato, fu placato lo
sdegno del Padre, la fragilità umana trovò un rimedio, ed espiata la pena gli
esuli sono richiamati in patria!
A uno dei due malfattori [morente sul Calvario]
venne fatta la promessa: «Oggi stesso sarai con me in paradiso» (Lc 23, 43).
Non sono parole rivolte a qualcun altro, ad Adamo per esempio, o ad Abramo il
patriarca o al re e profeta David... Qui non si tratta di profezia che dovrà
attendere per lungo tempo d'essere adempiuta: «Oggi», gli dice, nel giorno
stesso in cui la porta dei cieli venne riaperta. Il delinquente pentito ottenne
senza dilazioni il perdono implorato. Sperimentò in quel medesimo giorno ciò
che dice san Paolo: «Grazie al sangue di Gesù Cristo, abbiamo la certezza di
poter entrare nel santuario» (Eb 10, 19).
Quanti utili esempi, poi, ricaviamo dalla
meditazione del sacrificio di Cristo! Infatti, come nota sant'Agostino, la
passione di Gesù è sufficiente per impostare di sana pianta l'umana esistenza.
Chiunque voglia vivere una vita di perfezione, altro non dovrà fare che
disprezzare ciò che il Salvatore respinse fino alla croce, e non amare qualcosa
di diverso da ciò che egli amò.
Non c'è virtù che dalla morte in croce del
Cristo non tragga incentivo.
6. Difatti, se cerchi un esempio d'amore (e
nessuno ne ha uno più grande di chi sappia sacrificare la vita per gli amici) (cf.
Gv 15, 13), vedi che Cristo te lo seppe dimostrare salendo al tuo posto in
croce. Se quindi ha esposto la propria vita nel suo farsi olocausto d'amore, non
dobbiamo giudicare eccessivo il soffrire le nostre croci per amor suo. Niente di
più gradito potrò offrire al Signore, in cambio dei molti doni che mi ha
elargito (cf. Sal 115, 12).
7. Se invece vi cerchi mi esempio di pazienza, la
croce del Cristo è di per sé la risposta più eloquente. Un uomo dà prova di
vera pazienza quando accetta le grandi traversie della vita, oppure qualora si
esponga a gravi disagi che potrebbe evitare.
Ebbene, la pazienza del Cristo fu magnanima
specie sulla croce. Avrebbe potuto ripeterci: «Oh, voi tutti che passate per la
via, fermatevi a considerare se vi sia un dolore simile al mio!» (Lam I, 12).
Tollerò pazientemente ogni spasimo, e «ingiuriato, non rispondeva con ingiurie»
(I Pt 2, 23). Di lui aveva profetato Isaia: «Era maltrattato ma restava sereno,
non diceva una parola, simile a un agnello che si porti a uccidere; come la
pecora rimane muta dinanzi a chi la tosa, egli non aprì la bocca per lamentarsi»
(Is 53, 7).
Avrebbe potuto facilmente evitare tanta
sofferenza, ma preferì andarle incontro; e a Pietro che aveva usato la spada
per difenderlo, chiedeva: «Credi forse che io non possa pregare il Padre mio,
che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si
adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che avvenga così?» (60).
Giudica tu, da te stesso, se fu grande la pazienza del Cristo in croce. Perciò,
«corriamo [anche noi] nell'arena che ci è aperta dinanzi, tenendo lo sguardo
fisso all'autore e perfezionatore della fede, Gesù, il quale anziché il gaudio
di cui poteva disporre, preferì sopportare la croce senza curarsi
dell'ignominia» (Eb 12, 1-2).
8. Nel Crocifisso troverai il modello per la tua
umiltà: Dio che si lascia trascinare in tribunale, dinanzi a Ponzio Pilato, per
subirvi un [iniquo] processo ed essere condannato a morte. La sua causa parve
subito quella di un pregiudicato (cf. Gb 36, 17), di un delinquente della
peggiore specie, cui viene riservata una morte ignominiosa (cf. Sap 2, 20). Il
Signore che si espone a morire al posto del suo servo! Colui che è vita degli
angeli, si lascia uccidere per noi uomini!
9. Non potresti trovare un più alto esempio
d'ubbidienza, alla scuola di colui che fu ubbidiente al Padre sino a morire! (cf.
Fil 2, 8). E «come per la disubbidienza di un solo uomo gli altri sono stati
resi peccatori, così per l'ubbidienza di uno, gli altri saranno resi giusti» (Rm
5, 19).
10. E se infine vai cercando un perfetto esempio
di disprezzo delle cose terrene, segui il Re dei re, il Sovrano dei sovrani,
colui che racchiude in sé la sapienza in grado massimo: e tuttavia lo trovi
spoglio sulla croce, dove muore dopo essere stato schernito, oggetto di sputi,
percosso e abbeverato con fiele e aceto...
Non attaccarti perciò eccessivamente a vesti e
ricchezze, di fronte a Gesù che ti ripeterebbe: «Si dividono tra loro gli
abiti miei; tirano a sorte la mia tunica» (Sal 21, 19); non attaccarti agli
onori, giacché [l'Uomo dei dolori] ti ricorda: «Io ho conosciuto gli insulti e
le percosse. Non mirare alle posizioni di prestigio, se a me fu riservata una
corona di rami spinosi intrecciati; non alle cose che danno gusto, se per me i
carnefici seppero trovare soltanto una spugna imbevuta d'aceto».
Commentando il passo in cui l'Apostolo considera
i patimenti sofferti dal Figlio di Dio (cf. Eb 12, 1-2), Agostino ha scritto: «Gesù
Cristo spregiò tutte le cose terrene, per insegnarci a disprezzarle».
Il
terzo giorno risuscitò da morte
La morte di Cristo, s'è visto, sopravvenne per
la separazione dell'anima dal corpo, come accade per tutti gli uomini; ma la
divinità, congiunta indissolubilmente con l'uomo-Cristo, seguitò a pervadere
nel modo più completo sia l'anima che il corpo dissociati. Perciò il Figlio di
Dio fu nel sepolcro assieme al corpo di Gesù, e ne accompagnò l'anima nella
sua discesa oltre la tomba.
Egli vi andò per quattro motivi.
I. Per addossarsi interamente la pena relativa ai
nostri peccati e, in tal modo, espiarli del tutto. Il castigo comminato per la
colpa originale non consisteva soltanto nella morte fisica dell'uomo ma nelle
sofferenze che l'anima umana avrebbe sperimentato trovandosi privata della
visione divina.
Finché una simile pena fosse rimasta valida,
tutti gli uomini, compresi i patriarchi e i giusti dell'antica alleanza, morendo
dovevano scendere nel limbo e restarvi fino a quando non fosse venuto in terra
il Redentore, a soddisfare anche questo debito. Allora, prefiggendosi di
estinguerlo interamente, Cristo volle seguire in tutto il destino del genere
umano: morire e scendere nell'oltretomba (61). Con questa differenza: che mentre
gli altri vi dimoravano in qualità di prigionieri, Cristo vi giunse libero, da
liberatore.
2. Poté aiutare così nella maniera più
perfetta i propri amici. Ne aveva non solo quaggiù, ma nel limbo dei giusti.
Qui in terra suoi amici sono quanti vivono nella carità; nell'aldilà gli sono
amici tutti coloro che passarono da questa vita amando Dio e protési nella
speranza verso il Messia venturo: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, David e altri
uomini retti.
Essendosi intrattenuto con gli amici viventi in
questo mondo sino al giorno in cui morì sulla croce, Cristo volle visitare
anche gli eletti recando loro aiuto nella dimora ultraterrena. Come la divina
sapienza cantata dall'Ecclesiastico, poté ripetere: «Penetrerò nelle più
profonde regioni del creato, getterò lo sguardo sui dormienti e illuminerò
chiunque abbia riposto la propria speranza nel Signore» (Sir 24, 25).
3. La discesa nell'oltretomba costituì una
compiuta vittoria sul diavolo. Non si limitò a vincerlo sul campo di battaglia
ma lo inseguì, occupandone il dominio e spodestandolo dal trono. Sulla croce,
la vittoria: «il principe di questo mondo» perde la sua prerogativa di
dominatore assoluto (cf. Gv 12, 31). Il Cristo risorto lo volle incatenare nel
regno infernale: vi penetrò scardinando ogni cosa, strinse il nemico in ceppi e
gli tolse di mano le anime [dei giusti] che teneva quale preda di guerra. Il
Padre, mediante l'opera del Figlio, spogliò i principati e le potestà
infernali e li espose alla pubblica derisione (cf. Col 2, 15).
Dominatore del cielo e della terra, Cristo estese
il dominio fino al regno dei morti, in maniera che si avverò quanto proclama
l'Apostolo: «Nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e
negli inferi, e ogni lingua riconosca che Cristo Gesù è il Signore, a gloria
di Dio Padre» (Fil 2, 10). Nome, il suo, di illimitata potenza, se ai discepoli
inviati a predicare il vangelo sarebbe bastato pronunciarlo per mettere in fuga
gli spiriti del male! (cf. Mc 16, 17).
4. Volle morire infine per liberare [come si è
accennato al n. 2] i santi che lo attendevano nel limbo. Affrancati i viventi da
una morte senza risurrezione, Cristo estese il beneficio anche ai defunti. Il
Messia, il re mansueto e pacifico cantato dal profeta, in forza del sangue con
cui siglò la nuova alleanza tra gli uomini e Dio ha fatto uscire «i
prigionieri dalla fossa arida» (cf. Zc 9, 11). Egli poté ripetere le parole
profetizzate da Osea: «Li libererò dal sepolcro, li salverò dal potere della
morte. A cosa son servite le tue stragi, o morte, che valgono i tuoi micidiali
flagelli, o inferno?» (Os 13, 14). [L'antica versione di questo passo] dice: «Io
sarò come un morso, per te, o inferno», poiché mentre egli pose fine a una
condizione di morte [eterna], per l'ade fu una grave lacerazione, in quanto che
liberò non tutti i prigionieri ma solo quelli che vi si trovavano immuni dal
peccato d'origine (dal quale erano stati salvati individualmente per il rito
della circoncisione) e da altri peccati mortali. Del resto, anche prima che la
circoncisione venisse praticata, i piccoli innocenti conseguivano la salvezza
mediante la fede dei genitori [verso il Messia venturo], e gli adulti grazie
alle offerte sacrificali e, sempre, alla fede.
La macchia del peccato d'origine contaminava la
natura stessa dell'uomo, per cui l'intero genere umano avrebbe trovato il suo
liberatore esclusivamente nel Cristo. Egli, dunque, lasciò nell'oltretomba
[infernale] gli adulti, morti in stato di colpa grave, e [nel limbo ] i piccoli
se incirconcisi (62).
Dalla considerazione di questo articolo del Credo
si rafforza in noi la speranza d'essere accetti a Dio. Per quanto possa trovarsi
nell'afflizione, l'uomo dovrà sempre sperare nell'aiuto dell'Altissimo,
confidare in lui. Nulla, infatti, vi è di più grave dell'inferno; ora, se
Cristo provvide a liberare dall'oltretomba le anime che vi si trovavano, molto
più il cristiano, amico di Dio, dovrà confidare che sarà liberato dalle
angustie. La Sapienza del Padre discese a confortare il giusto che giaceva tra
le mura del carcere, rimase al fianco di chi stava in catene, finché gli procurò
lo scettro del regno, gli dette potere sopra i suoi stessi tiranni, demolì la
sicurezza ostentata dagli avversari e lo coronò di gloria immortale (cf. Sap
10, 13-14).
E poiché Dio aiuta specialmente i suoi servi,
deve sentirsi sicuro chiunque si ponga al suo servizio. «Chi teme il Signore
non ha timori né perde il coraggio, poiché Dio è la sua speranza» (Sir 34,
14).
Dobbiamo alimentare il timor [di Dio] e
respingere ogni presunzione. Pur restando vero che Cristo è sceso
nell'oltretomba per recare alle anime i frutti della redenzione, è vero altresì
che egli non liberò dal potere di Satana chiunque vi si trovasse, ma solo
quanti lo attendevano privi di gravi colpe. Lasciò nell'inferno coloro che
erano morti in peccato mortale. Perciò non s'illuda, chiunque entri in simili
condizioni nell'aldilà. Dovrà restare nell'inferno quanto i giusti si
tratterranno in paradiso: per l'eternità. «I dannati andranno all'eterno
supplizio, gli eletti invece all'eterna gloria» (Mt 25, 46).
Altro beneficio: la discesa di Cristo agli inferi
ci rende maggiormente solleciti. Egli infatti vi andò per evitarci quella che,
per noi, sarebbe una discesa senza ritorno. Dobbiamo perciò andarvi
frequentemente col pensiero, considerando le pene che vi si soffrono,
sull'esempio di Ezechia, il quale usava ripetere: «A metà della mia vita me ne
dovrò andare, varcando la soglia dell'aldilà» (Is 38, 10).
Chi vi si sofferma spesso con la riflessione,
facilmente eviterà di dovervi andare morendo. Convien fare un po' quel che
vediamo far attorno a noi, da quanti cercano di non infrangere il codice
[penale] considerandone le severe sanzioni. Quanto più dunque dobbiamo
guardarci dall'agire male riflettendo sulle pene infernali, che superano ogni
altra pena sia per la durata, sia per l'asprezza e la varietà dei tormenti. «In
ogni azione pensa alla tua fine, e non peccherai!» (Sir 7, 40).
Quale esempio, infine, di come dobbiamo amare le
anime dei defunti, Cristo scese agli inferi per liberare i suoi amici. Noi pure,
con i suffragi, dobbiamo affrettare la liberazione dei nostri.
Da sole, nulla possono le anime del purgatorio,
mentre possiamo alleviare noi le loro sofferenze. Mostrerebbe una grande durezza
di cuore chi trascurasse d'aiutare una persona cara rinchiusa in un carcere.
Assai più lo è il cristiano che non porge il minimo aiuto agli amici che
stanno nel purgatorio, non essendovi proporzione tra le sofferenze di questo
mondo e quelle del purgatorio. Ciascun'anima che vi si trova sembra ripeterci
l'invocazione di Giobbe: «Pietà di me, pietà di me, amici miei, ché la mano
di Dio mi ha percosso!» (Gb 19, 21). Pietoso e utile, dunque, è il pregare per
i defunti, affinché venga affrettata la loro purificazione.
offrendo il sacrificio della
Messa, pregando, e distribuendo elemosine in suffragio dei defunti; san Gregorio
vi aggiunge il digiuno. Mi sembra giusto se pensiamo che, anche in questo mondo,
tra amici ci si aiuta l'un l'altro. Dunque, un nostro sacrificio può valere a
pro di un'anima che stia espiando in purgatorio. Non per i dannati.
L'uomo deve considerare due verità fondamentali,
circa la gloria [beatificante] di Dio e le pene infernali. Attratti dal
desiderio di una immortalità gloriosa e atterriti dal pensiero degli eterni
castighi, gli uomini stanno più cauti e cercano di evitare i peccati. Si
tratta, purtroppo di verità non facilmente percepite dalla sola ragione
naturale.
Nel primo caso, è vero ciò che leggiamo nel
libro della Sapienza: «A stento sappiamo comprendere ciò che è
terreno, conosciamo così poco persino le cose che abbiamo tra mano; quindi, chi
riuscirà a capire le cose celesti?» (Sap 9, 16). E la difficoltà cresce per
l'uomo immerso nella realtà mondana. Di lui Gesù diceva: «Chi viene dalla
terra, alla terra appartiene e parla secondo una mentalità materialistica» (Gv
3, 31). Invece l'uomo spirituale [a imitazione del Cristo] ha pensieri elevati.
Dal cielo, il Verbo è sceso su questo mondo, per svelarci le verità
soprannaturali.
Ugualmente difficile farsi una chiara idea dei
castighi eterni. [Dicono molti]: «Nessuno è mai tornato dall'oltretomba» (Sap
2, 1). Ma è un ritornello ormai privo di senso poiché la medesima Persona che
venne in terra a insegnarci la dottrina che conduce alla vita eterna, è
risuscitata dai morti per confermare l'esistenza di un aldilà [dove la
giustizia divina punisce i peccatori]. È necessario perciò credere che Dio non
soltanto si è incarnato ed è morto in croce, ma «il terzo giorno risuscitò
dai morti».
Sappiamo che diverse persone vennero risuscitate,
come Lazzaro, il figlio della vedova [di Naim] e la figliola del caposinagoga
[di Cafarnao]. Ma tra queste risurrezioni e quella del Cristo vi sono alcune
[radicali] diversità.
Intanto, la causa della risurrezione. Fu Cristo a
operare direttamente questo genere di miracoli, oppure essi ebbero luogo per
l'intercessione di qualche santo. Cristo invece risuscitò per virtù propria:
essendo nello stesso tempo Dio e uomo (e la divinità del Verbo non fu mai
separata né dall'anima né dal corpo), egli poté ricomporre gli elementi
costitutivi della persona umana quando volle. L'aveva predetto, del resto: «Io
ho il potere di cedere spontaneamente la mia vita, e di riprenderla quando mi
piaccia» (Gv 10, 18).
Morì davvero, non però [direttamente] in
seguito ai maltrattamenti o per l'esaurirsi delle forze fisiche: morì perché
permise che la morte facesse il suo corso naturale. Chi muore ormai privo di
vigore, si spegne in un ultimo soffio; Gesù, al contrario, nell'attimo in cui
rese lo spirito nelle mani del Padre gridò ad alta voce (63). Il centurione
esclamò [anche per questo motivo]: «Costui era veramente il Figlio di Dio!» (Mt
27, 54). E come tale, Cristo ebbe la facoltà di ritornare in vita quando gli
piacque. «Risuscitò dai morti», non «venne risuscitato». Poteva dire, nel
suo passare dalla morte alla vita, le parole che Davide disse riferendosi al
normale sonno: «Mi ero adagiato per dormire e mi assopii; dopo fui nuovamente
sveglio» (Sal 3, 6). Non c'è contraddizione con quanto riferiscono gli Atti:
«Costui è quel Gesù che Dio ha risuscitato» (At 2, 32); infatti il Cristo
venne richiamato alla sua integra vita d'uomo dal Padre e dal Verbo insieme. La
loro divina potenza è inscindibile.
Diverso, inoltre, è lo stato di vita nuova a cui
giunsero Cristo e gli altri risorti, poiché Gesù iniziò un'esistenza beata e
permanente «a gloria del Padre» (Rm 6, 4); gli altri, come Lazzaro, furono
riammessi a questa vita terrena per un certo numero di anni.
Una terza differenza si riscontra nella portata
dei vari casi di risurrezione. Gli uomini richiamati in vita ne trassero un
beneficio circoscritto alla propria persona, mentre è in forza della
risurrezione di Gesù che tutti potranno risorgere. Ciò accade fin dal momento
in cui Cristo morì. Infatti «molti santi che riposavano nei sepolcri,
risuscitarono» (Mt 27, 52), e l'apostolo Paolo lo chiama «primizia dei risorti
dal sonno della morte» (1 Cor 15, 20).
Fa' attenzione, a questo punto, che Cristo giunse
alla gloria attraverso le sofferenze (cf. Lc 26, 26), sicché varrà anche per
noi l'insegnamento di Paolo e Barnaba, che «è inevitabile passare per molte
tribolazioni prima di entrare nel regno di Dio» (At 14, 21).
Un'ultima diversità, tra la risurrezione operata
dal Cristo in sé medesimo e la risurrezione cui è destinato il genere umano.
Quest'ultima, infatti, è rinviata alla fine del mondo, eccetto pochi
privilegiati come la beata Vergine e (secondo che si narra) Giovanni
evangelista. Cristo risuscitò tre giorni dopo la morte.
Risurrezione, morte e nascita di Gesù erano
ordinate alla nostra salvezza. Volle perciò tornare in vita nel momento più
opportuno al compimento dell'opera redentrice.
Se infatti fosse risorto pochi istanti dopo
essere spirato, sarebbe rimasto il dubbio di una morte solo apparente. Al
contrario, se avesse dilazionato troppo l'ora del suo risveglio dai morti, i
primi discepoli avrebbero potuto perdere la fede, e il suo tanto patire sarebbe
risultato inutile.
Risuscitò il terzo giorno affinché non
restassero dubbi circa la realtà della sua morte, né la fede di chi sperava in
lui restasse delusa.
Per concludere, facciamo qualche riflessione
applicabile a ciascuno di noi.
I. Studiamoci di risorgere con sollecitudine
dalla morte spirituale prodotta dal peccato; torniamo a una vita virtuosa,
mediante la penitenza. Ci esorta l'Apostolo: «Svégliati, tu che dormi; risorgi
dai morti; e Cristo ti illuminerà» (Ef 5, 14). È la prima risurrezione, cui
allude l'Apocalisse: «Felice e santo chi partecipa della prima risurrezione! Su
costui la seconda morte non ha alcun potere» (Ap 20, 6).
2. Non rimandiamo [la conversione] sino al
momento della morte: «Non indugiare a pentirti, non rimandare da un giorno
all'altro» (Sir 5, 7). Forse, gravato dalle infermità, non riusciresti a
provvedere alla tua salvezza. Oltre a ciò, perdi una parte dei meriti di cui si
arricchisce la Chiesa, mentre l'ostinazione nel peccato aggrava l'infermità
dell'anima. Quanto più a lungo uno resterà sotto il dominio del diavolo -
osserva Beda il Venerabile -, tanto più difficilmente Satana rinuncerà alla
preda.
3. Riottenuta la vita di grazia, vediamo di
non contaminarla nuovamente; vi sia in noi cioè il proposito di evitare le
colpe mortali. Simili al Cristo che, risorto dai morti, più non si assoggetterà
alla morte (cf. Rm 6, 29), «anche voi - ci raccomanda san Paolo - pensate che
siete morti nei confronti del peccato e che dovete vivere per Iddio in Gesù
Cristo. Non regni dunque la colpa nel vostro corpo mortale, in modo da tenervi
tuttora soggetti alle sue concupiscenze. Non abbandonate le vostre membra al
servizio del peccato, sì che non diveniate strumento di iniquità. Offritevi
interamente a Dio, come viventi, da morti che eravate, e fate servire a Dio le
vostre membra, come strumenti di giustizia» (ib. 11-13).
4. Sia nobile la nuova vita [in grazia], evitando
le occasioni che portarono la morte nell'anima. «Come Cristo è risuscitato dai
morti a gloria del Padre, così noi pure dobbiamo camminare in una vita nuova»
(Rm 6, 4): una vita ispirata alla giustizia [soprannaturale], che rigenera
l'uomo spiritualmente e lo conduce alla gloriosa eternità.
Bisogna credere poi nell'ascensione del Cristo,
avvenuta quaranta giorni dopo la risurrezione. Si trattò di un fatto sublime,
conveniente e utile. Vediamone il perché.
I. Salì il più in alto possibile. Sopra
qualunque altra realtà corporea, oltrepassò i cieli più lontani, per primo,
giacché fino a quel momento i corpi, nella cui composizione entrava l'elemento
terra, non potevan trovarsi che circoscritti nell'ambito sublunare. Adamo
medesimo [pur essendo ricco d'ogni sorta di doni] visse nel paradiso terrestre.
Passò ancora oltre; oltre quei cieli spirituali
che sono le gerarchie angeliche. «[Il Padre celeste] dimostrò la sua sovrana
potenza in Cristo, risuscitandolo da morte e facendolo sedere alla sua destra
nell'alto dei cieli, al di sopra di ogni principato, potestà, virtù e
dominazione, al di sopra di qualsiasi dignità o grandezza che possa esser
nominata non solo lungo i secoli ma nell'eternità» (Ef 1, 20; cf. Ef 4, 10).
Si fermò accanto al trono del Padre. Daniele lo
aveva veduto in visione, ed esclamava: «Egli avanzò fino all'Eterno (...), che
gli conferì potere, maestà e regno, sì che tutti i popoli, le nazioni e le
genti.di ogni lingua lo servivano. Il suo potere è un potere eterno, che non
verrà meno, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Dn 7, 13-14). La profezia
si avvera nella testimonianza dell'evangelista: «Il Signore Gesù, dopo aver
loro parlato, si elevò nel cielo, e siede alla destra di Dio» (Mc 16, 19).
L'espressione «alla destra di Dio» è
evidentemente metaforica: cioè, in quanto Verbo di Dio, il Cristo ottenne la
perfetta eguaglianza con lui; in quanto uomo, entrò in possesso dei beni più
grandi (cf. Ef I, 20). Era la sublime altezza di gloria bramata da Lucifero: «Salirò
fino al cielo, innalzerò il mio trono sopra le stelle di Dio; mi assiderò sul
monte dell'adunanza nelle estremità settentrionali. Salirò ben più in là
delle nubi: sarò simile all'Altissimo!» (64).
Ma a una tale sommità non poté giungervi altri
che il Cristo. Egli solo può sedere alla destra del Padre, che lo invitò: «Siedi
alla mia destra» (Sal 109, 1).
2. Ragionevole, ossia giusta, fu l'ascensione del
Cristo. Il cielo gli apparteneva in forza della divina natura. È infatti
conveniente che ciascuno ritorni là da dove trasse origine, e il Verbo di Dio
trasse origine dal Padre, l'Altissimo. Gesù lo insegnò apertamente: «Uscito
dal Padre, son venuto nel mondo; ora lascio il mondo e mi accingo a tornare al
Padre» (Gv 16, 28). Oppure, sempre nel vangelo di Giovanni: «Nessuno è asceso
al cielo, se non colui che ne è disceso, il Figlio dell'uomo che è in cielo»
(Gv 3, 13).
Anche ai santi è concesso di salire al cielo, ma
non come poté fare il Cristo, per virtù propria cioè: i santi salgono al
cielo in quanto attratti da Cristo.
Si potrebbe anche dire che egli sia l'unico a
penetrare davvero nei cieli: gli altri vi pervengono nella loro qualità di
membra di Cristo, che è il capo della Chiesa, suo corpo mistico.
Il cielo gli spettava quale premio per la sua
vittoria. Venuto quaggiù per lottare contro il diavolo, lo aveva sconfitto. Per
questo meritava d'essere esaltato al di sopra dell'intera creazione. L'Apocalisse
ne riporta le parole d'esultanza: «Io, che ho vinto, mi sono assiso sul trono
accanto al Padre!» (Ap 3, 21).
Lo aveva guadagnato, il cielo, con la sua umiltà.
Mai potrà esservi abbassamento più profondo di quello vissuto dal Cristo: Dio,
volle farsi uomo; dominatore, si fece servo di tutti, ubbidiente fino alla morte
(cf. Fil 2, 8); e scese ancora: negli abissi del creato. Meritò ampiamente di
essere innalzato al trono dell'Altissimo, avendo percorso [per amore] tutta
intera la via dell'umiltà: «Chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14, 11).
3. Molteplice, infine, l'utilità derivante dal
mistero dell'ascensione. L'umanità aveva smarrito il sentiero che conduce al
cielo, sicché il Cristo vi ascese facendoci da guida, simile al condottiero che
cammina alla testa d'una moltitudine (cf. Mic 2, 13). Per rafforzare la nostra
speranza di aver parte al regno dei cieli, vi entrò lui per primo: «Vado a
prepararvi un posto» (Gv 14, 2).
La speranza diviene certezza, al pensiero che
Cristo si trova in cielo, immortale e onnipotente, per intercedere in nostro
favore (cf. Eb 7, 25). Presso il Padre abbiamo un avvocato: «Gesù Cristo il
Giusto» (I Gv 2, 1).
È asceso al cielo per attrarvi il nostro cuore,
nel disprezzo dei beni che passano. Se Cristo vale più di qualunque altro
tesoro, il nostro spirito deve serbarsi in sintonia con lui (cf. Mt 6, 21). «Se
siete risuscitati con Cristo - conclude l'Apostolo -, cercate le cose del cielo,
dov'è Cristo assiso alla destra del Padre: aspirate alle cose di lassù e non a
quelle che son sulla terra. (...) La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio»
(65).
[Dal
cielo] verrà a giudicare i vivi e i morti
La facoltà di giudicare spetta ai re e ai capi (cf.
Prv 20, 8). Tornando perciò nel proprio regno e sedendo alla destra del Padre,
è chiaro che spetta al Figlio - quale Signore di tutto il creato - giudicare i
vivi e i morti. L'avvenimento è adombrato nelle parole rivolte dagli angeli
agli uomini di Galilea: «Quel Gesù che, lasciandovi, è salito al cielo, verrà
[di nuovo]» (At I, 11).
A proposito di questo giudizio futuro possiamo
considerare tre cose: la persona del giudice, i convenuti in giudizio e la
materia del giudizio medesimo.
Cristo è stato costituito dal Padre quale
giudice dei vivi e dei morti (cf. At 10, 42), e col nome di vivi possiamo
indicare sia coloro che vivono rettamente, sia gli attuali abitatori della terra
[prescindendo da ogni considerazione]; invece morti, oltre ai defunti in senso
fisico, anche i peccatori.
Egli è giudice in quanto Dio e in quanto uomo,
opportunamente. La divinità è una realtà così beatificante che nessuno può
trovarsi alla sua diretta presenza e non essere colmato di gaudio. Quindi è
necessario che il giudice divino appaia nella persona del Cristo, in maniera da
poter giudicare l'intera umanità senza che i reprobi gustino il sommo bene.
Gesù, «figlio dell'uomo» (cf. Gv 5, 27) ha
meritato l'incarico di giudice universale, egli che venne giudicato
ingiustamente.
In più, sapendo che dovranno incontrarsi con un
giudice divino ma dall'aspetto umano, gli uomini serberanno una certa quale
speranza, che non potrebbe sussistere se li attendesse per vagliare le loro
azioni la pura divinità. Minore sarà lo spavento allorché gli uomini «vedranno
un 'figlio dell'uomo' venire sulle nubi» (Lc 21, 27). E nessuno degli uomini
che videro la luce del sole, nessuno potrà sottrarsi a quel processo. Infatti
«tutti quanti dobbiamo comparire innanzi al tribunale di Cristo, perché ognuno
riceva ciò che è giusto per quel che avrà fatto mentre viveva unito al corpo,
sia in bene che in male» (2 Cor 5, 10).
San Gregorio Magno prende in esame le differenze che
intercorrono tra le categorie di coloro che saranno convocati al giudizio
finale.
Tra i reprobi, un certo numero verrà condannato senza
che si proceda neppure a un esplicito dibattimento. Si tratta di coloro che
rifiutarono il dono della fede. «Chi non crede è già condannato, perché non
crede nel nome dell'unigenito Figlio di Dio» (Gv 3, 18).
Altri ascolteranno la sentenza che li condanna, dopo la
denunzia delle loro colpe: i credenti cioè che morirono in peccato mortale. La
sola fede non basterà a salvarli, e riceveranno la paga del peccato - che è la
morte [eterna] -, di cui parla san Paolo (cf. Rm 6, 23).
Anche nel numero degli eletti vi saranno tal uni che
verranno invitati alla destra di Cristo giudice sin dall'inizio: quanti vissero
in spirito di povertà per amore di Dio. Leggiamo nel vangelo di Matteo che
chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o moglie,
o figli, o campi, per seguire il Signore non solo riceverà il centuplo e avrà
in eredità la vita eterna, ma sarà chiamato a sedersi accanto al «Figlio
dell'uomo» per giudicare con lui il genere umano (cf. Mt 19, 28). Oltre ai
dodici e agli altri discepoli che accompagnarono il Maestro nel suo peregrinare
terreno, una uguale sorte è serbata a tutti i poveri in spirito. Non potrebbe
esserne escluso l'apostolo Paolo, ad esempio, che si affaticò più d'ogni
altro, vivendo la povertà evangelica. Altrettanto varrà per i discepoli degli
apostoli e per tutti gli uomini autenticamente apostolici. San Paolo esprime
addirittura la certezza che gli eletti giudicheranno perfino gli angeli
[decaduti] (cf. I Cor 6, 3). Nel giorno del giudizio, gli eletti somiglieranno
agli anziani e ai principi del popolo di Dio, di cui parla Isaia (cf. Is 3, 14).
Gli uomini che saranno stati colti dalla morte in
uno stato di sostanziale equità benché non siano vissuti esenti da qualche
attaccamento ai beni temporali conseguiranno la salvezza, ma ogni particolare
della loro esistenza sarà accusatamente soppesato: azioni, parole, e perfino i
pensieri. Ci avverte pèrciò la Scrittura: «Segui pure gli impulsi del tuo
cuore e i desidèri dei tuoi occhi. Sappi però che per tutto questo Dio ti
chiamerà in giudizio» (66). E il Signore: «Vi dico che nel giorno del
giudizio gli uomini renderanno conto di ogni parola vana che avranno proferita»
(Mt 12, 36), mentre la Sapienza ribadisce che non sfuggiranno al giudice
divino neppure i propositi che l'empio avrà formulato credendosi al sicuro
perfino dallo sguardo di Dio (cf. Sap I, 9).
Di fronte a un simile giudizio il timore è ben
giustificato.
I. Saremo esaminati da un giudice capace di
penetrare l'intimo dell'anima. Egli sa tutti i nostri pensieri, le nostre
parole, le nostre opere: «tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui al
quale dobbiamo rendere conto» (Eb 4, 13). Allo sguardo di altri uomini le
nostre scelte potranno apparire oneste, ma il Signore scruta le profondità
dello spirito (cf. Prv 16, 2).
Dio [come s'è detto] conosce ogni parola da noi
pronunziata: come un orecchio geloso, anch'egli ascolta tutto e non gli rimane
nascosto neanche il sussurro delle mormorazioni (cf. Sap I, 10). Ci legge nel
pensiero. Il cuore umano, certo, è più complesso d'ogni altra cosa, e
malizioso. Ebbene, dice il Signore, «Io scruto i cuori, scandaglio i reni (67),
per dare a ciascuno secondo la sua condotta e il frutto delle sue opere» (Is
17, 9).
Non saranno assenti, nel giorno del giudizio
finale, i testimoni. Teste infallibile, la coscienza d'ognuno, secondo
l'Apostolo: «I dettami della legge sono scritti nei loro cuori, come ne fa fede
la loro coscienza coi suoi giudizi, la quale, volta per volta li accusa o li
difende. E questo diventerà manifesto nel giorno in cui (...) Dio giudicherà
per mezzo di Gesù Cristo le azioni segrete degli uomini» (Rm 2, 15-16).
2. Altro motivo di timore: la potenza, o per
meglio dire l'onnipotenza del giudice: «Ecco il Signore Dio che viene, con
possanza!» (Is 40, 10). Avrà per alleati tutte le creature, poiché «l'universo
combatterà con lui contro gli insensati [che gli si opposero]» (Sap 5, 20).
Diceva bene Giobbe: «Non c'è chi possa liberarmi dalla tua mano» (Gb 10, 7);
e il salmista: «Se anche salissi al cielo, tu ci sei; s'io vado in fondo agli
abissi, eccoti là» (Sal 138, 8).
3. La sua giustizia sarà inflessibile. Adesso è
tempo di misericordia, ma in quel giorno finale vi sarà posto soltanto per la
giustizia; il momento attuale è nelle nostre mani, mentre allora sarà nelle
sue, esclusivamente. «Quando avrò deciso di farlo, emetterò, con rettitudine,
la mia sentenza» (Sal 74, 3). In preda al suo santo sdegno non perdonerà nel dì
della vendetta, non ascolterà le implorazioni di nessuno, non defletterà dal
suo retto giudizio neppure se gli offrissimo tutte le ricchezze dell'universo
(68).
4. Terribile sarà l'ira del Giudice supremo. Ai
giusti mostrerà il suo volto dolce e beatificante (cf. Is 33, 17), ma ai
reprobi apparirà in collera e tanto tremendo, che essi diranno alle montagne:
«Cadeteci addosso, nascondeteci dalla faccia di Dio che è assiso sul trono e
dall'ira dell'Agnello!» (Ap 6, 16). Non sarà, quello, uno sconvolgimento
emotivo [nell'animo di Cristo giudice, come quando l'uomo si adira], bensì un
modo di esprimere l'effetto della sua indignazione [contro gli ostinati
ribelli]. Quel giorno è chiamato «giorno dell'ira» (69), quando si consideri
la pena inflitta ai peccatori: l'inferno, per l'eternità.
Di fronte a un così fondato timore, ci
sentiremo rianimati se:
- cercheremo di agire bene, secondo l'esortazione
dell'Apostolo: «Vuoi non aver da temere l'autorità? Fa' il tuo dovere, e ne
avrai anzi la lode» (Rm 13, 3);
- ricorrendo al sacramento della penitenza e
riparando gli errori, confessandoci cioè con vera contrizione, con sincero
rincrescimento nell'accusa e severe pratiche penitenziali come espiazione
[commutativa] delle pene eterne;
- distribuendo elemosine, che completano la
purificazione dell'anima. «Procuratevi amici con la disonesta ricchezza,
affinché quando verrà a mancarvi, essi vi accolgano nella dimora eterna» (Lc
16, 9);
- vivendo nella carità, ossia nell'amore verso
Dio e verso il prossimo: sarà così ricoperta una moltitudine di peccati (cf. I
Pt 4, 8; cf. Prv 10, 2b).
Abbiamo veduto che il Verbo di Dio è suo Figlio,
come il verbo [mentale] dell'uomo è il concetto della sua intelligenza (70);
ora accade talvolta che si tratti di concetti non vitali, di progetti inattuati
per mancanza di volontà operativa. Il credente conosce le verità di fede, ma
spesso non agisce in modo coerente. La sua, allora, è una fede morta.
Il Verbo di Dio invece è [eternamente] vivo (cf.
Eb 4, 12): è segno che in lui pulsa la volontà, l'amore.
Come il Verbo è Figlio di Dio, così il suo Amore è
lo Spirito Santo. Ne segue che un uomo ha in sé questo Spirito se ama Dio. «L'amore
di Dio è stato diffuso in abbondanza nei nostri cuori dallo Spirito Santo che
ci è stato donato» (Rm 5, 5).
Non mancarono tal uni che, errando su tale materia,
sostenevano che lo Spirito Santo era una semplice creatura, e, in quanto tale,
minore, rispetto al Padre e al Figlio, loro servo e strumento. Per respingere
simili errori, i teologi della ortodossia aggiunsero nel Simbolo cinque
precisazioni intorno allo Spirito Santo.
I. Esistono altri esseri spirituali, gli angeli, la cui
funzione è propriamente quella di esecutori del volere di Dio: «spiriti al
servizio di Dio», come si legge nella lettera agli Ebrei (Eb I, 14) mentre, al
contrario, lo Spirito Santo è Signore, «è Dio» (Gv 4, 24) o, più esplicito,
«lo Spirito Santo è Signore» (2 Cor 3, 17). Dunque, non subisce coazioni, è
libero, e dove ci sia lo Spirito, ivi troviamo la vera libertà (2 Cor 3, 17).
Egli, infatti, attraendoci all'amore di Dio, ci libera dagli attaccamenti
mondani. Lo Spirito Santo è «Signore».
2. La [vera] vita dell'anima deriva dalla sua unione
con Dio, come è l'anima a render vitale un corpo cui sia unita. Dio si unisce
all'uomo mediante il suo Amore, che è lo Spirito; e lo vivifica: «è lo
Spirito che dà la vita [soprannaturale] (Gv 6, 63). Egli, dunque, «ci dà la
Vita».
3. Lo Spirito Santo è della medesima sostanza [divina]
che il Padre e il Figlio. Difatti, come il Figlio è Verbo del Padre, lo Spirito
è l'Amore intercorrente tra il Padre e il Figlio, procedente da entrambi e
quindi partecipante dell'unica divinità. Egli «procede dal Padre e dal Figlio».
Non è, evidentemente, quella creatura che qualcuno disse.
4. Riguardo al culto [che gli dobbiamo], sta su
un piano di uguaglianza col Padre e il Figlio.
Il battesimo stesso che applica all'uomo i frutti
della passione redentrice del Figlio e procede dalla benevolenza del Padre, si
compie - accomunandolo nel medesimo rito mediante l'effusione dello Spirito (cf.
Mt 28, 19). «Con il Padre e il Figlio, [lo Spirito] è adorato e glorificato».
5. A conferma dell'eguaglianza delle tre Persone
sta la divina ispirazione concessa ai profeti. E evidente che se lo Spirito non
fosse Dio medesimo, nessuno potrebbe sostenere quanto, ad esempio, afferma san
Pietro: «Uomini retti, mossi dallo Spirito Santo, hanno parlato da parte di Dio»
(71). E Isaia poté ripeterlo di sé medesimo: «Il Signore Dio e il suo Spirito
mi hanno mandato [a profetare]» (Is 61, 1).
Risultano così infirmate due tesi ereticali: l'errore
cioè dei manichei, secondo i quali l'Antico Testamento non aveva Dio per
autore; il che è falso, avendo parlato lo Spirito Santo per bocca dei profeti.
Poi l'errore di Priscilla e di Montàno (72), i quali
davano per certo che i profeti non trasmisero il pensiero dello Spirito Santo,
bensì i propri vaneggiamenti.
Dallo Spirito ci deriva una quantità di frutti
spirituali.
Egli purifica l'anima dai peccati, spettando
l'opera di restaurazione all'autore medesimo. Ora, l'anima umana è creata
mediante lo Spirito Santo, dato che il Padre crea ogni cosa per un atto del suo
Amore. «Tu ami tutte le cose esistenti, e nulla disprezzi di quanto hai creato»
(Sap II, 24). E Dionigi scrive che l'Amore non permise che la divinità restasse
infeconda.
Perciò è quanto mai opportuno che il cuore
umano, devastato dalle conseguenze della colpa, venga rimesso a nuovo dallo
Spirito. Anche in senso spirituale vale la considerazione del salmista : «Ridai
[alle creature] il tuo alito e le ricrei, e rinnovi la faccia della terra» (Sal
104, 30). Ed è perfettamente convenevole che in tale operazione purificatrice
operi lo Spirito, dal momento che i peccati trovano remissione in forza
dell'amore. «I suoi numerosi peccati sono stati perdonati - dice Gesù della
peccatrice - poiché ha molto amato» (Lc 7, 47). E Pietro: «Abbiate un'ardente
carità gli uni verso gli altri, perché la carità copre un gran numero di
peccati» (73).
Lo Spirito Santo illumina la nostra mente; tutto
ciò che conosciamo [circa i misteri soprannaturali] proviene dalla rivelazione
dello Spirito. «Lo Spirito Santo che il Padre vi manderà nel mio nome, egli vi
insegnerà ogni cosa e vi farà comprendere tutto ciò che vi ho detto» (Gv 14,
26; cf. 1 Gv 2, 27).
Ci aiuta a osservare i divini precetti,
esercitando su di noi una sorta di [soave] pressione. Nessuno infatti
riuscirebbe a osservare i comandamenti se non amasse Dio. «Se qualcuno mi ama,
metterà in pratica le mie parole» (Gv 14, 23). E lo Spirito-Amore ci induce a
riamare. Egli realizza la promessa antica: «Vi darò un cuore nuovo, in voi
porrò un nuovo spirito; toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e lo
sostituirò con uno di carne. Porrò in voi lo Spirito mio, facendo si che
viviate secondo i miei statuti, mettendo in pratica le mie leggi» (74).
Ci rafforza nella speranza di poter conseguire la
vita eterna, poiché egli ne costituisce quasi il pegno. Dice l'Apostolo: «Avete
ricevuto il suggello dello Spirito Santo, che era stato promesso, il quale è
caparra della nostra eredità» (Ef I, 13-14). La vita eterna infatti viene
promessa all'uomo che [mediante la fede in Cristo] diviene figlio adottivo di
Dio, simile cioè al Cristo per opera dello spirito che abita in Gesù, ed è lo
Spirito Santo. «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere
nella paura, ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale possiamo
gridare: Abbà, Padre!' Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che
siamo figli di Dio» (Rm 8, 15-16).
«La prova che voi siete figli, sta nel fatto che
Dio mandò lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori, il quale grida: Abbà!',
che vuol dire Padre!» (Gal 4, 6).
Infine lo Spirito Santo ci consiglia nelle
situazioni difficili, mostrandoci quale sia [nel caso concreto] la volontà di
Dio. All'invito che leggiamo nell'Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che
lo Spirito dice» (Ap 2, 7), fa eco l'esemplare disponibilità del profeta
Isaia: «Lo ascolterò, come [il discepolo ascolta] il maestro» (Is 50, 4).
[Credo
nel]la santa Chiesa cattolica
Simile al nostro organismo, in cui l'anima diffonde la
vita nelle varie parti, la Chiesa cattolica è un corpo [mistico], composto di
numerosi membri vivificati dallo Spirito Santo. Dobbiamo quindi professare
l'atto di fede nella Chiesa, santa e cattolica, menzionata negli articoli del
simbolo: 'Credo la Chiesa'.
Il nome chiesa significa riunione, società,
sicché la Chiesa è l'assemblea dei fedeli come, dal canto suo, ciascun
cristiano è membro del corpo ecclesiale, cui sembra far cenno il libro
dell'Ecclesiastico (cf. Sir 51, 31).
Quattro sono le note essenziali della Chiesa di Cristo:
essa è una, santa, cattolica ( ossia universale) e apostolica [salda, ben
fondata].
I. Proprio il fatto che le sette ereticali si
siano succedute tanto numerose e in contrasto l'una con l'altra già le esclude
dall'appartenere alla Chiesa, armoniosa in se stessa e unica, simile alla «colomba»,
l'amata dello Sposo (cf. Ct 6, 8).
L'unità della Chiesa promana dall'unica fede, da
un'identica speranza e dalla comunione nella carità.
Infatti i cristiani, membri di una stessa società,
professano le medesime verità rivelate. Raccomanda loro l'apostolo Paolo: «Tra
voi non ci siano divisioni ma siate perfettamente uniti, d'uno stesso pensiero,
concordi» (I Cor I, 10), sicché mostriate d'avere «un solo Signore, una sola
fede, un solo battesimo. Un solo Dio, Padre di tutti» (Ef 4, 5).
Ciascun fedele nutre la ferma aspirazione
di pervenire alla vita eterna: unica è la speranza verso cui siamo orientati
mediante la vocazione cristiana (cf. Ef 4, 4).
I fedeli si ritrovano uniti anche nell'amore
verso Dio e in una vicendevole carità, sì da realizzare il profondo desiderio
del Cristo, che tutti i cristiani siano - come il Padre, il Verbo e lo Spirito -
una sola realtà.
Tale amore, quando è autentico, si manifesta
attraverso una mutua sollecitudine [nel servizio reciproco] e nella comprensione
degli uni per gli altri. Di particolare eloquenza questo passo dell'Apostolo: «Vivendo
secondo un' autentica carità, cerchiamo di crescere sotto ogni aspetto, in
colui che è il Capo, Cristo, dal quale tutto il corpo [mistico], ben
compaginato e connesso, mediante l'apporto d'ogni giuntura e secondo l'energia
di ogni membro, riceve forza per crescere, in maniera da edificare se stesso
nella carità» (Ef 4, 15-16). D'ogni grazia che Dio ci concede dobbiamo farne
partecipe il nostro prossimo.
Nessuno perciò deve prender alla leggera il
meritare d'essere scacciato ed escluso dalla Chiesa [cattolica] dove si trova la
salvezza, come non fu possibile salvarsi per quanti rimasero, al tempo del
diluvio, fuori dell'arca.
2. Anche gli uomini orientati verso il male
costituiscono una specie di congrega, ed è l'alleanza dei malvagi che Dio
aborre (cf. Sal 25, 5).
La società fondata dal Cristo, al contrario, è
protesa a realizzare la santificazione dei suoi membri (75). È la «santa Chiesa».
I fedeli cristiani vengono santificati in più
modi.
Quando un nuovo tempio vien consacrato, lo si
comincia a lavare, materialmente; così i fedeli: entrando a far parte della
Chiesa vengono purificati [mediante il battesimo], grazie al sacrificio cruento
del Cristo. « [Gesù] ci ha liberati dalle nostre colpe con il suo sangue» (Ap
I, 5), egli che «per santificare il popolo col proprio sangue, patì fuori
della porta della città» (Eb 13, 12).
Il rito di consacrazione d'una nuova chiesa
prevede poi l'unzione [dell'altare]; e altrettanto i fedeli: essi infatti
ricevono l'unzione del crisma, attraverso cui agisce lo Spirito Santo nella sua
opera santificatrice. Sono così, potenzialmente, resi simili al Cristo, l'Unto
(76) per eccellenza.
Dovunque Dio inabiti, quello diviene un luogo
santificato dalla, sua presenza (cf. Gn 28, 16) ed è conveniente che il
cristiano, tempio dello Spirito, si custodisca irreprensibile (cf. Sal 92, 5).
Infine, anche l'invocare Dio ha un'azione
santificante. «Tu sei in noi, Signore, e sopra di noi è stato invocato il nome
tuo» (Ger 14, 9).
Stiamo perciò ben attenti - considerando di
quali e quante santificazioni sia stata oggetto la nostra anima - a non
offuscare lo splendore di questo tempio di Dio. E grave la minaccia che leggiamo
in san Paolo: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di lui abita
in voi? Se uno vìola il suo santuario, Dio lo distruggerà (I Cor 3, 17).
3. Altra nota della Chiesa è la cattolicità.
Essa, cioè, è universale, nel senso che va diffondendosi praticamente su tutta
la terra, contro la tesi dei donatisti (77). La testimonianza di Paolo nei
confronti dei fedeli di Roma («La fama della vostra fede si espande nel mondo»
(Rm I, 8)) è una risposta alla missione evangelica affidata da Cristo agli
apostoli: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura» (Mc
16, 15). Mentre in passato il vero Dio era noto solo entro i confini della
Giudea, adesso la sua rivelazione ha raggiunto le più lontane regioni della
terra (78).
A ciò s'aggiunga l'universalità che dilata
ulteriormente la Chiesa: essa infatti comprende, oltre alla terra, il purgatorio
e il paradiso.
È universale, poi, quanto alle diverse condizioni sociali
delle persone chiamate a fame parte. Nessuno ne è pregiudizialmente escluso, né
il servo né il padrone, né l'uomo né la donna.
Universale anche riguardo al tempo. Certuni
dissero che la Chiesa avrebbe avuto soltanto una sua durata temporale, il che è
falso. Essa durerà, dal tempo di Abele (79), sino al concludersi della fase
terrena, assistita dal Cristo (cf. Mt 28, 20), per trasformarsi alfine
nell'unica Chiesa trionfante in eterno.
4. Possiede la dote della stabilità. Un edificio
può esser detto solido se innanzi tutto poggia su buone fondamenta. Ebbene, la
Chiesa è sorretta dal Cristo. «Nessuno può porvi un fondamento diverso da
quello che già vi si trova, che è Cristo Gesù» (I Cor 3, 11).
Poggia inoltre sugli apostoli e sulla loro
dottrina. La celeste Gerusalemme descrittaci dall'Apocalisse aveva dodici
strati per fondamenta, e su ognuno v'era il nome dei dodici apostoli
dell'Agnello (cf. Ap 21, 14). La Chiesa è detta perciò apostolica, e Pietro
viene indicato espressamente quale pietra di base, onde sottolinearne la solidità
(80).
Ancora. Una costruzione merita d'essere giudicata
stabile se regge quando sia soggetta a violente scosse. Ebbene, la Chiesa non è
stata mai demolita: non vi riuscirono i persecutori, anzi fu sotto il loro
imperversare che essa si accrebbe ulteriormente; i persecutori invece e gli
avversari d'ogni sorta scomparvero uno dopo l'altro. «Chi cadrà su questa
pietra andrà in pezzi; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà» (Mt
21, 44).
Le eresie produssero un effetto analogo: col loro
moltiplicarsi, offrirono occasioni per un ulteriore chiarimento della verità.
«[Gli eretici] si oppongono alla verità essendo uomini dissennati nel modo di
giudicare, che hanno perduto la fede. Costoro però non andranno molto innanzi
perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti» (2 Tm 3, 8).
Gli stessi assalti diabolici non raggiungono
miglior risultato: simile a una torre, la Chiesa costituisce anzi un solido
baluardo entro cui trova riparo chiunque si opponga all'avversario. Il giusto vi
si rifugia ed è al sicuro (cf. Prv 18, 10).
Perciò il diavolo raddoppia i propri assalti
contro la Chiesa; ma non potrà prevalere, avendo il Signore assicurato che «le
porte degli inferi non riusciranno a riportare la vittoria su di essa» (Mt 16,
18). Quasi dica: la battaglia infurierà contro di lei, ma a vincere non saranno
i tuoi nemici.
Comprendiamo meglio adesso come la sola Chiesa di
Pietro (al quale toccò l'Italia quando i discepoli si misero a predicare il
vangelo) restò sempre salda nella [vera] fede. Altrove, o la dottrina di Cristo
è sconosciuta, oppure è inquinata da errori. Non deve stupirci. A Pietro il
Signore ha promesso: «Io ho pregato per te, che la tua fede non venga meno» (Lc
22, 32).
[Credo
nel]la comunione dei santi e [nel]la remissione dei peccati
Come in un organismo vivente l'attività di un
membro torna a vantaggio dell'insieme, qualcosa di simile accade nel corpo
mistico che è la Chiesa. Il bene compiuto da uno, si comunica agli altri
fedeli; infatti «pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno
per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12, 5). Sicché, tra le
altre verità di fede, gli apostoli ci hanno tramandato questa, della «comunione
dei santi», ossia la comunanza nei beni spirituali.
Cristo è il capo; la Chiesa ne costituisce il
mistico organismo, secondo l'espressione paolina: «[Egli] è il capo di tutta
la Chiesa, la quale è il suo corpo» (Ef I, 22-23) e quanto di bene c'è in
lui, si diffonde nei cristiani mediante i sacramenti. Agisce in essi l'efficacia
del sacrificio di Gesù, la grazia in remissione dei peccati.
Come sappiamo, i sacramenti sono sette.
I. Il battesimo equivale a una rinascita
spirituale. Un uomo inizia la sua esistenza terrena con la propria nascita e così
pure la vita spirituale comincia in lui mediante la rinascita operata dal
battesimo. «Se uno non rinasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel
regno di Dio» (Gv 3, 5).
Si nasce una sola volta, e una sola volta si
riceve il sacramento del battesimo. «Credo - perciò - in un solo battesimo».
La sua funzione consiste nel purificare l'uomo da
qualunque peccato, sia riguardo alla colpa e sia alla [relativa] pena. Tant'è
vero che ai neo-battezzati non viene imposta alcuna penitenza riparatrice, si
fosse pure trattato dei peggiori uomini del mondo. Morendo subito dopo il
battesimo, un uomo entrerebbe direttamente in paradiso. Questa è la ragione per
cui, sebbene spetti d'ufficio soltanto al sacerdote amministrare il battesimo,
in caso di necessità può fare altrettanto chiunque; basterà osservare la
formula sacramentale: «Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo».
La virtù del primo sacramento promana dalla
passione di Cristo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù,
siamo stati battezzati nella sua morte?» (81). La triplice immersione vuole
simboleggiare i tre giorni durante i quali Gesù rimase entro il sepolcro.
2. Cresima o confermazione. A ogni essere
che nasce sono necessarie le forze per poter agire; così l'uomo che rinasce
spiritualmente ha bisogno di essere corroborato dallo Spirito Santo. Gli
apostoli stessi, affinché la loro azione risultasse vigorosa, ricevettero lo
Spirito, dopo l'ascensione di Cristo (cf. Lc 24, 49).
A noi, tale aiuto viene conferito nel sacramento
della confermazione. Perciò, chi ha cura dei fanciulli dev'essere molto
diligente affinché vengano cresimati, trattandosi di una grazia assai
importante. Il cristiano che muore col sacramento della cresima - e quindi dopo
aver ricevuto un aumento di grazia - riceve un maggior grado di gloria.
3. Eucarestia. Nato che sia e raggiunto un
certo sviluppo, un essere umano ha necessità di assumere regolarmente cibo; per
la vita spirituale esso è costituito dal corpo di Cristo, in base alle sue
stesse parole: «Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il
suo sangue, non avrete in voi la vita soprannaturale» (Gv 6, 54). Quindi,
secondo le norme stabilite dalla Chiesa, ogni cristiano riceverà almeno una
volta all'anno l'eucarestia, dopo essersi debitamente preparato e purificato:
chi infatti «mangia il pane o beve il calice del Signore in modo indegno» (I
Cor II, 27) - ossia con la coscienza d'esser in colpa grave, di cui non si sia
confessato né si proponga di evitare in futuro - «mangia e beve la propria
condanna» (82).
4. Confessione o penitenza. Succede anche al
nostro organismo di ammalarsi e - qualora non intervenga a tempo un rimedio
efficace -, di morire. Nell'ordine spirituale è il peccato che produce le
infermità [spesso gravissime, come nel caso del peccato mortale] (83). Sicché,
per recuperare la salute, è indispensabile una medicina: la grazia contenuta
nel sacramento della penitenza. «Egli perdona tutte le tue colpe e ti risana
dalle infermità» (Sal 102, 3).
I requisiti di una buona
confessione sono tre: il dolore perfetto dell'animo per aver offeso Dio,
un'accusa integrale dei peccati e la riparazione mediante opere penitenziali.
5. Estrema unzione (84). Sono tante le cause che
impediscono all'uomo di purificarsi in maniera completa dalle conseguenze
[punitive] del peccato; e siccome nessuno può partecipare della vita eterna se
prima non sia perfettamente mondato, si rese opportuna la istituzione di un
altro sacramento in forza del quale l'uomo gravemente ammalato sia purificato
dalle colpe e, a Dio piacendo, riottenga la sanità del corpo. Il sacramento
della estrema unzione prepara l'uomo all'ingresso nel regno celeste.
(Quando non si verifichi l'effetto di una
guarigione fisica, ciò dipende dal fatto che un prolungamento della vita
terrena non sarebbe giovevole alla salute spirituale). Ne parla diffusamente
l'apostolo Giacomo: «Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della
Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con l'olio, nel nome del Signore.
E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà, e se
ha commesso peccati gli saranno perdonati» (Gc 5, 14-15).
6. Ordine. Dovrebbe risultare evidente, ormai,
che facendo ricorso ai cinque sacramenti fin qui esaminati, il cristiano può
condurre una soddisfacente vita spirituale.
Occorrono ovviamente degli uomini che li
amministrino. Ecco il sacramento dell'ordine sacro, che abilita all'esercizio
della consacrazione e amministrazione sacramentaria.
Se la loro vita [personale] non appare esemplare,
dobbiamo fermare l'attenzione sulla virtù del Cristo, da cui i sacramenti
traggono efficacia. Quanti hanno ricevuto l'ordine sacro diventano «ministri di
Cristo e dispensatori dei misteri di Dio» (I Cor 4, 1).
7. Matrimonio. Grazie al settimo sacramento, i
coniugi che lo vivano onestamente possono non soltanto salvarsi ma acquistare
dei meriti. Difficile per loro evitare quei peccati veniali causati dalla stessa
concupiscenza; che se poi non rispettassero i fini del matrimonio la loro colpa
diverrebbe grave (85).
I sette sacramenti perfezionano la remissione dei
peccati, cui fa riferimento il Credo.
Furono gli apostoli a ricevere la facoltà di
concedere il perdono delle colpe morali e da essi, come a loro volta essi
medesimi dal Cristo, uguale potestà viene conferita ai ministri della Chiesa.
La nostra fede ci insegna che appartiene al Papa il pieno potere «di sciogliere
e di legare» e, secondo una gradualità, agli altri prelati.
I cristiani partecipano non solo all' efficacia
del sacrificio di Cristo, ma ai suoi meriti, e addirittura partecipano dei
meriti dei santi; tali meriti si propagano in tutti coloro che vivono nella
grazia, dal momento che formiamo assieme il corpo mistico di Cristo.
Ne deriva che, vivendo nella carità, ciascuno di
noi partecipa della sia pur minima opera virtuosa che si compia nel mondo. Ne
godranno però in modo particolare quelle persone che siano presenti nelle
intenzioni di chi fa il bene. Uno potrà pagare al posto di un altro, e lo si
vede ad esempio nel caso delle congregazioni religiose che ammettono altri a
valersi dei meriti di una data famiglia spirituale (86).
In forza della comunione tra i santi, i meriti di
Gesù sono distribuiti a ciascun fedele, e così i nostri meriti personali. Gli
scomunicati, trovandosi a essere estromessi dalla società ecclesiale, perdono
gran parte del tesoro dei meriti comuni. E questo è un danno tutt'altro che
trascurabile, giacché supera qualunque altro fallimento nei beni temporali.
Inoltre, mentre il diavolo si trova ostacolato
nella sua opera malefica proprio dai suffragi cui accenniamo, chi se ne priva
facilita l'azione deleteria del Tentatore [per tutto il tempo che uno vive
separato dalla Chiesa].
Accadeva spesso così, nella Chiesa primitiva,
che non appena qualcuno era scomunicato, immediatamente diveniva preda del
diavolo, anche fisicamente.
Lo Spirito santifica la Chiesa non solo riguardo alle
anime: in virtù del suo intervento infatti i nostri corpi risorgeranno. Egli «ha
risuscitato dai morti Gesù Cristo, nostro Signore» (Rom 4, 24) e «in virtù
di un uomo [che è appunto Gesù Cristo] c'è una risurrezione dei morti» (I
Cor 15, 21).
Perciò, sorretti dalla fede cattolica noi
crediamo che un giorno avverrà la risurrezione [dell'intero genere umano]. Il
che ci suggerisce alcune considerazioni: l'utilità derivante dal credere nella
risurrezione stessa; le prerogative dei corpi risorti, in generale; le qualità
dei giusti resuscitati, e
quelle dei reprobi.
I. La fede e la speranza nella risurrezione ci
offrono diversi vantaggi, e prima di tutto la liberazione dalla tristezza
derivante dal pensiero dei morti. Infatti, pur essendo impossibile non dolersi
per la morte dei propri cari, tuttavia la speranza d'incontrarli nuovamente il
giorno della risurrezione tempera notevolmente il dolore causatoci dalla
separazione. Ci esorta l'Apostolo:
«Non vogliamo poi lasciarvi nell'ignoranza, o fratelli,
circa i defunti, affinché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non
hanno speranza» (1 Ts 4, 1 3).
Cessa il timore per la morte [che ci attende]. Se
nel morire l'uomo non sperasse in una vita migliore dell'attuale, senza dubbio
la morte risulterebbe tremendamente assurda; e l'uomo si sentirebbe autorizzato
a compiere ogni sorta di iniquità, nel tentativo di sfuggire alla morte. Ma
poiché siamo certi che esiste una vita migliore di questa, una vita cui
approderemo attraverso la morte, è chiaro che nessuno ha più motivi di temere,
come pure, per timor della morte, di compiere scelte immorali; Cristo infatti
prese un corpo [umano] «per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che
ha il potere della morte, cioè il diavolo» (Eb 2, 14-15).
Un tale pensiero, ci rende solleciti e diligenti
nel compiere il bene; se infatti l'uomo dovesse vivere solo questa vita
temporale, non troverebbe in ciò un efficace incentivo a ben fare: qualunque
cosa gli sembrerebbe inadeguata dal momento che il desiderio umano non è
vincolato ad alcuno dei beni particolari e per un tempo determinato, bensì è
rivolto alle realtà eterne e senza limitazioni di sorta.
Ora, siccome noi crediamo che tutto ciò che
andiamo compiendo sulla terra riceverà un'eterna ricompensa alla risurrezione
finale, ci ingegniamo d'agire rettamente. «Se riponessimo la nostra speranza
nel Cristo soltanto in questa vita - scrive san Paolo - siamo da compiangere più
di tutti gli uomini» (I Cor 15, 19).
Infine ci ritrae dal male. Difatti, come induce
al bene la speranza del premio, così il timore delle pene che sappiamo essere
riservate ai reprobi ci tien lontani dal peccato. Vedi il Vangelo: «Quelli che
hanno operato il bene usciranno dai sepolcri per la risurrezione di vita; quelli
invece che fecero il male, per una condanna» (Gv 5, 29).
2. Riguardo poi alle prerogative dei corpi
risorti, bisogna sapere che talune note interesseranno tutti indistintamente.
L'identità dei corpi risuscitati: riavrà il
soffio vitale lo stesso corpo che abbiamo ora (stessa carne, stesse ossa ecc.),
sebbene tal'uno sostenga il contrario; ma è tesi che si allontana
dall'insegnamento dell'Apostolo. Egli dichiara infatti: «E' necessario che
questo corpo corruttibile si rivesta d'incorruttibilità e che il nostro corpo
mortale si rivesta d'immortalità» (1 Cor 15, 53).
Anche altrove la sacra Scrittura afferma che, per
virtù divina, riprenderà a vivere lo stesso e medesimo corpo; vedi Giobbe:
«Nuovamente rivestito della mia pelle, attraverso questi sensi vedrò Dio!» (Gb
19, 26).
La condizione dei corpi che riprenderanno a
vivere sarà però differente dalla condizione terrena: beati e reprobi
riceveranno corpi incorruttibili, senonché i primi vivranno immersi nella
gloria, i secondi per sempre nelle pene [infernali]. Abbiamo già citato
l'espressione della lettera ai Corinti (1 Cor 15, 53). Trattandosi di corpo
incorruttibile e immortale, non ha senso parlare più di cibo né di piaceri
sessuali. Secondo l'evangelista «dopo la risurrezione non si ammoglieranno né
si mariteranno, ma saranno simili agli angeli di Dio in cielo» (87).
Questa è una verità [rivelata], contro le
credenze dei sadducei e dei saraceni. «Chi scende nello sheol più non
ne risale; non ritorna nella propria casa» (Gb 7, 9-10).
Tutti, buoni e cattivi, risorgeranno con quella
integrità corporale che attiene all'individuo. Non vi saranno più ciechi,
zoppi o menomati in altra maniera. L'Apostolo scrisse ai Corinti: «I morti
risorgeranno incorrotti» (I Cor 15, 52), ossia immutabili, rispetto alle
presenti imperfezioni.
Riguardo all'età, tutti risorgeranno in un'età
congrua, sui trentadue-trentatré anni; e la ragione è questa; chi morì prima
d'esservi giunto, non conobbe l'età che esprime il vigore ideale dell'uomo,
mentre i vecchi riavranno la perfezione della giovinezza (88). Sulla parola
dell'Apostolo «tutti arriveremo allo stato di uomo perfetto, nella misura che
conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4, 13).
3. Circa la risurrezione dei buoni in particolare
bisogna sapere che li attende una gloria specifica: i santi riceveranno dei
corpi glorificati, con quattro specifiche qualità: lo splendore cui accenna
Matteo: «I giusti splenderanno come il sole, nel regno del loro Padre» (Mt 13,
43). La liberazione dal dolore o impassibilità, secondo che afferma san Paolo:
«[Il corpo] seminato spregevole, risorge glorioso; si semina debole e risorge
vigoroso» (I Cor 15, 43). E nell'Apocalisse: «Egli tergerà ogni
lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né
affanno» (Ap 21, 4). E l'agilità: «Nel giorno della loro ricompensa
risplenderanno e scorreranno leggeri, simili a scintille nella stoppia» (Sap 3,
7). Infine la sottigliezza: «Si semina corpo materiale, risorge spirituale» (I
Cor 15, 44). Non nel senso di puro spirito, bensì di corpo materiale ma
totalmente assoggettato allo spirito.
4. A proposito della condizione dei dannati, essa
sarà l'opposto della condizione beata: in essi si avrà pena eterna, con le
seguenti caratteristiche. Riceveranno corpi tenebrosi. Vi accenna Isaia: «I
loro visi saranno visi riarsi» (Is 13, 8). Corpi sensibilissimi [a ogni
sofferenza], che tuttavia mai potranno ridursi in cenere, e pur ardendo
eternamente non ne risulteranno consunti; è il concetto di Isaia: «Il loro
fuoco non sarà mai estinto» (Is 46, 24). Saranno inoltre, i loro, dei corpi
estremamente materiati: difatti l'anima rimarrà come reclusa in un carcere
angusto. «I re - dice un salmo - saranno avvinti in catene» (Sal 149, 8).
E infine quell'anima diverrà, come il corpo, in
certo modo incarnita. Si rammentino le parole di Gioele: «I giumenti finirono
per marcire tra i loro stessi rifiuti» (89).
E
[aspetto] la vita eterna. Amen.
Queste parole concludono il Simbolo della fede,
alludendo al coronamento di ogni desiderio del cuore umano, e cioè la vita
eterna.
E' una proposizione che contraddice quanti opìnano
una morte dell'anima, assieme a quella che la separa dal corpo. Se ciò fosse
vero, la condizione umana non sarebbe diversa da quella degli animali bruti, che
morendo ritornano nel nulla (cf. Sal 48, 21).
La nostra anima invece è quasi un riflesso della
immortalità di Dio, e può essere paragonata alle bestie solo per gli eccessi
della concupiscenza. Sostenendo che essa muoia assieme al corpo, ci si allinea
con quelli [abbrutiti dal peccato] di cui sta scritto: «Non conoscono i segreti
di Dio; non sperano ricompensa per il retto vivere né credono a un premio
destinato alle anime pure. Sì, Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece
a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia
del diavolo; e ne fanno [la più amara] esperienza (90) coloro che gli
appartengono» (Sap 2, 22-23).
Cos'è la vita eterna?
Essa è innanzi tutto la comunione [perfetta e
interminabile] dell'anima con Dio, che diviene così premio e coronamento di
ogni nostra fatica. Nel significato più ampio sarà vera la sua promessa: «Io
sono il tuo protettore e la tua ricompensa infinitamente grande» (Gn 15, 1).
Questa fusione tra l'anima e Dio si attua
attraverso la perfetta visione della divina essenza. «Adesso [infatti] vediamo
[Dio] come in uno specchio, in maniera confusa, allora invece a faccia a faccia»
(I Cor 13, 12). La nostra lode diverrà anch'essa un cantico perfetto, poiché
per usare le parole di Agostino «vedremo, ameremo, loderemo» e nella visione
beatifica troveremo gaudio e allegrezza, e l'anima sarà tutta un inno di
ringraziamento e di lode (cf. Is 51, 3).
Perfetta la sazietà dei nostri desideri: nella
vita eterna infatti ogni beato avrà ben più di quanto possa desiderare e
sperare; e la ragione è evidente: quaggiù è impossibile soddisfare l'umana
brama di felicità; quaggiù non c'è alcun bene creato [neppure l'intero
universo] che sia capace di placare appieno gli aneliti dell'uomo. Dio soltanto
vi riesce, anzi supera qualunque nostro desiderio, all'infinito. Agostino ha
scritto con ragione: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore non
troverà quiete fin quando non riposi in te».
Ora, i santi possedendo Dio perfettamente nella
gloria beatifica, sono saziati in ogni loro desiderio. La ricchezza della gloria
celeste sarà sempre superiore a ogni nostra aspettativa. Il servo buono e
fedele prenderà parte alla gioia del suo Signore (cf. Mt 25, 21) e, secondo che
osserva Agostino, non sarà tanto il gaudio divino a entrare nel cuore umano
quanto piuttosto l'uomo e ogni sua facoltà a immergersi interamente nella
stessa beatitudine di Dio. Contempleremo il suo volto, ci sazieremo della sua
presenza (cf. Sal 16, 15), in una giovinezza eternamente rinnovata (cf. Sal 102,
5).
Tutto ciò che di piacevole possiamo immaginare
lo troveremo con la visione beatifica, in maniera sovrabbondante. L'uomo trova
in Dio - sommo bene - il massimo diletto: nell'Onnipotente avremo ogni delizia (cf.
Gb 22, 26), gioia piena alla sua presenza, dolcezza senza fine derivante dal
trovarci, tra gli eletti, alla sua destra (cf. Sal 15, l1).
Vi troveremo il più alto grado di onore. Gli
uomini laici considerano il massimo degli onori diventare re, i chierici
ambiscono alla dignità episcopale; ebbene, nella gloria celeste, sarà piena la
nobiltà regia e sacerdotale dei figli di Dio (cf. Ap 5, 10; cf. Sap 5, 5).
La sete di sapere riceverà
completa soddisfazione: i segreti della natura e qualunque verità che vorremmo
investigare, tutto quello che può essere oggetto dell'umana conoscenza l'avremo
assieme alla vita eterna (cf. Prv 10, 24).
Essa poi porterà con sé quella perfetta
sicurezza che invano cerchiamo qui in terra. Quanto più possediamo di beni
materiali o siamo insigniti di alte cariche, tanto più temiamo di perdere gli
uni o le altre, e dobbiamo far ricorso a mille accorgimenti per difenderne il
possesso. Nella vita eterna, al contrario, è sconosciuta la minima tristezza,
la minima angustia, il minimo timore. Vi sarà piena tranquillità e sicurezza
da qualunque apprensione (cf. Prv I, 33).
Infine, la vita eterna consiste nella
beatificante convivenza tra i beati: la più amabile delle società, essendovi
la piena comunione dei beni. Là, veramente, ognuno ama il prossimo suo come se
stesso, e godrà del bene posseduto da altri quanto del proprio. Ne deriva che
il gaudio generale accrescerà la letizia del singolo, in un vicendevole apporto
di felicità (cf. Sal 86, 7).
I santi godranno, in patria, di questi beni
accennati e di molti altri che non riusciamo a descrivere.
I reprobi, invece, cominceranno a vivere la morte
eterna, soffrendo nell'anima e nei sensi non meno di quanto gli eletti godranno
nella gloria.
Il loro tormento sarà accresciuto:
- dalla separazione da Dio e da qualsiasi altro
bene. E' la cosiddetta pena del danno, correlativa all'avversione [da essi
nutrita durante la vita terrena riguardo a Dio], e supera quella dei sensi.
Quaggiù il peccatore visse nelle tenebre dello spirito, ma dopo il giudizio
finale anche i suoi occhi conosceranno la totale privazione della luce: verrà
gettato nelle tenebre, tra il pianto e lo stridere dei denti (cf. Mt 25, 30);
- dai rimorsi della coscienza, che [in nome di
Dio] gli ripeterà: «Ti rimprovero: ti pongo innanzi i tuoi peccati» (Sal 49,
21). Gemerà senza sosta il loro spirito tormentato (cf. Sap 5, 3). Ma un simile
pentimento e i gemiti più accorati saranno del tutto inutili non traendo ormai
più origine dalla compunzione di aver peccato, bensì dalle insostenibili pene;
- vi si aggiunga la pena riservata ai sensi, il
fuoco infernale, capace di tormentare e il corpo e l'anima. Sarà una delle
sofferenze peggiori, e si troveranno nella condizione di chi stia sempre sul
punto di morire e invece non muore mai. Ecco perché la loro condanna si usa
chiamarla morte eterna. «Come pecore sono avviati agli inferi, loro pastore sarà
la morte (...). L'inferno sarà la loro dimora» (91).
E li avvinghierà la disperazione nel sapersi
irrimediabilmente perduti. Se infatti restasse in loro appena un barlume di
speranza d'essere liberati dalle pene, già questo costituirebbe un lenimento
del loro [eterno] soffrire. Venendo meno qualunque ragionevole speranza, tutto
diviene più atroce.
Resta chiarita la radicale differenza tra il bene
e il mal'operare: l'uno conduce alla vita, l'altro alla morte [eterna]. Gli
uomini perciò dovrebbero ricordarsi spesso di queste verità atte a stimolare
al bene e a frenarli dinanzi al male.
Efficace la chiusa del Credo, col suo richiamo
alla vita eterna, affinché si imprima a fondo nella memoria l'anelito verso la
vita immortale, cui voglia condurci il Signore, Gesù Cristo, Dio benedetto nei
secoli dei secoli. Amen.
Il Pater è la più perfetta tra le
formule di preghiera, avendo tutte e cinque le doti che un'orazione ben fatta
dovrebbe possedere.
I. Innanzitutto, essa deve elevarsi fiduciosa,
sorretta cioè da un tranquillo abbandono. E' infatti un accedere fidente al
trono della divinità, per implorarne le grazie (cf. Eb 4, 16). Deve poggiare su
una fede che non conosca esitazioni (cf. Gc l, 16).
Ebbene, a buon diritto la preghiera del Pater è
atta a infondere la massima sicurezza essendo stata composta dal nostro miglior
difensore, sapientissimo (cf. Col 2, 3), che sta in veste d'avvocato dinanzi al
Padre per placarne l'ira accesa dalle continue trasgressioni: Gesù Cristo, il
Giusto (cf. I Gv 2, 1). Nel suo commento al Pater san Cipriano ne deduce
che, dovendo noi implorare perdono per le nostre colpe, nulla di meglio possiamo
fare che ripetere le parole suggeriteci dal nostro patrono.
Ancor più sicura la rende il fatto che, a
chiedere nella maniera più opportuna, ce l'ha insegnato proprio colui che
assieme al Padre esaudisce le preghiere, adempiendo alle parole del salmo: «Griderà,
rivolto a me, e io lo esaudirò» (Sal 90, 15). Sempre san Cipriano definisce «amichevole,
familiare [alle sue orecchie] e devota» quella preghiera che si rivolge al
Signore servendosi delle sue stesse parole. Non è possibile quindi che un uomo
termini la preghiera del «Padre nostro» senza riportarne qualche frutto: come
minimo ne otterrà - insegna sant'Agostino - la remissione dei peccati veniali.
2. Ogni preghiera, poi, dev'essere onesta, ossia
deve chieder qualcosa di conveniente. Il Damasceno (92) la definisce, appunto,
«una richiesta che abbia le doti dell'accettabilità». Molto spesso non siamo
esauditi proprio perché alle nostre preghiere manca tale elemento condizionante
(cf. Gc 4, 3).
D'altra parte è assai difficile sapere
esattamente cosa sia opportuno chiedere e cosa no, dal momento che siamo in
difficoltà di fronte alla selezione dei desideri. Ne era consapevole l'Apostolo
scrivendo ai romani: «Ignoriamo quel che [in particolare e in un dato momento]
ci convenga chiedere» (Rm 8, 26). Ma c'è chi può insegnarcelo, Gesù, cui gli
apostoli si eran rivolti: «Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11, 1). Sicché,
quanto entra a far parte della preghiera del Cristo, è petizione
irreprensibile. Se preghiamo in modo giusto e opportuno qualunque siano le frasi
che andiamo dicendo (conclude sant'Agostino), nient'altro esprimiamo con esse di
ciò che si trova in questa preghiera del Signore.
3. Ci dev'essere un determinato ordine, nelle
richieste come nei desideri che esse esprimono. Prima di tutto dobbiamo
anteporre le suppliche che riguardino i beni spirituali, e quelle che si
realizzano in cielo a quelle terrene: «Cominciate a cercare il regno di Dio e
la sua giustizia, e il resto vi sarà dato per giunta» (Mt 6, 33). Ed è volontà
esplicita del Signore, come si rileva chiaramente dalle due sezioni che
compongono il Pater.
4. Fervente orazione: la religiosità intensa,
difatti, rende gradito a Dio il sacrificio dell'orante, come faceva il salmista:
«Invocando il tuo nome alzerò le mie mani: come di midollo e di grasso, sia
ripiena l'anima mia» (93).
Siccome però non di rado la devozione si
affievolisce a causa dell'eccessiva lunghezza di una preghiera, il Signore ci ha
raccomandato d'evitare le prolissità: «Non ripetete macchinalmente le stesse
parole» (Mt 6, 7). E Agostino, in una lettera a Proba, ricorda che «l'orazione
non ha bisogno di lunghi discorsi; però non facciamoci scrupolo d'insistere se
il fervore ci sostiene». Anche in tema di concisione, il Pater ci è di
esempio.
La devozione è un po' il fervore della carità,
sia verso Dio che verso il prossimo; ed entrambi vengono raccomandati nel Pater.
Convinti che egli ci ama, lo chiamiamo «Padre»,
mentre la carità che nutriamo per il prossimo vien espressa dall'aggettivo che
segue la parola iniziale: «nostro».
5. Infine, la preghiera dev'essere umile poiché
Dio «ascolta le suppliche degli umili» (Sal 101, 18), come possiamo rilevare
dall'episodio evangelico che ha per protagonisti un fariseo e un pubblicano (cf.
Lc 18, 9-14), o nelle parole di Giuditta: «A te, Signore, piacque sempre la
preghiera degli umili e dei mansueti» (Gdt, 9, 16).
L'umiltà ha un posto d'onore nel «Padre nostro»,
dato che tale virtù può dirsi autentica quando un uomo, riconoscendosi inetto
a compiere il bene o [a meritare alcunché) con le proprie forze, si ripromette
di conseguire tutto dalla divina potenza.
Ecco adesso i vantaggi d'una preghiera ben fatta.
E' rimedio efficace contro i mali, operando la
liberazione dal peccato. Davide ne è testimone: «Tu perdonasti l'empietà
della mia colpa; perciò ti pregherà ogni fedele» (Sal 31, 5-6). In croce, il
rapinatore implorò il perdono e lo ottenne, e in quello stesso giorno fu
accolto in paradiso (cf. Lc 23, 43). Il pubblicano, pregando [rettamente], se ne
tornò assolto a casa sua (cf. Lc 18, 14).
Inoltre essa libera dal timore di poter essere
ancora [fatalmente] schiavi del peccato, quindi dall'angosce e dalle
tribolazioni [che vi son connesse] (94). San Giacomo esorta: «C'è qualcuno tra
voi che soffre? Preghi!» (Gc 5, 15). Ed è utile, quale scampo dalle
persecuzioni dei nemici. Mentre gli avversari lo calunniano e minacciano di
morte, Davide, ad esempio, ricorre alla preghiera (cf. Sal 108, 4).
E' il mezzo più efficace ad ottenerci le buone
cose che desideriamo. Sta scritto, infatti: «Tutto ciò che chiederete nella
preghiera, abbiate fede d'ottenerlo e l'otterrete» (Mc 11, 24); che se talvolta
non siamo esauditi, questo dipende o perché non abbiamo chiesto con la
necessaria insistenza laddove «bisogna pregare sempre, senza stancarsi» (Lc
18, 1), oppure perché non stavamo chiedendo ciò che più conviene alla nostra
salvezza. Osserva in proposito sant'Agostino: «Il Signore è buono a non dare,
spesso, quel che vorremmo, concedendoci in cambio ciò che più dovrebbe starci
a cuore». Lo si può dedurre [anche] dal caso di Paolo che, pur avendo
implorato in tre diverse circostanze la liberazione dal tormento che
l'affliggeva nel corpo, non venne esaudito (95).
La preghiera, infine, ci rende familiari a Dio, e
con maggior confidenza potremo ripetere: «Salga come incenso, Signore, la mia
preghiera fino a te» (Sal 140, 2).
Vanno fatte qui due considerazioni: Dio ci è «Padre»
per diversi motivi. Quali, allora, i nostri doveri di figli?
Egli è nostro Padre perché ha riservato a noi
la singolare attenzione di crearci a propria immagine e somiglianza, cosa che
non concesse alle creature inferiori. Ce lo rammenta la Scrittura: «Non è lui
il tuo Padre, che ti ha fatto esistere creandoti?» (Dt 32, 6).
Anche per il modo di governarci, egli agisce come
un padre: non lo fa quasi ci considerasse suoi servi, bensì padroni [delle
nostre scelte]. La sua provvidenza guida verso un fine tutte le cose, ma
s'interessa di noi con molta delicatezza (cf. Sap 14, 3; 12, 18).
Si dimostrò Padre, ancora, nell'adottarci. Quel
che elargisce alle restanti creature sembrano, in confronto, dei regalucci: per
noi -figli ed eredi - c'è l'eredità [del suo regno] (cf. Rm 8, 17). Possiamo
quindi chiamarlo «Abba, Padre!» (Rm 8, 15).
Ne conseguono alcuni doveri, da parte nostra.
I. Onorarlo. Pose egli stesso tale quesito al suo
popolo: «Se io sono il Padre, dov'è l'onore che mi spetta?» (Ml 1, 6).
Onorarlo con la lode devota in quanto Dio («Chi offre il sacrificio della lode
mi onora» (Sal 49, 23), mediante parole che sgorghino dall'intimo, non
semplicemente con le labbra (cf. Is 29, 13) e conservandoci anche fisicamente
irreprensibili (cf. I Cor 6, 26) nonché imparziali nel giudicare il prossimo,
come esige l'equità divina (cf. Sal 98, 4).
2. Dobbiamo poi imitarlo, come si segue l'esempio
paterno. E' il gran desiderio di Dio: d'essere riconosciuto Padre e di non
vedersi continuamente abbandonato dai figli d'elezione (cf. Ger 3, 19).
Ricalcando i suoi esempi, dobbiamo «camminare
nell'amore» (Ef 5, 1) con sincerità d'affetto, ed essere concretamente
misericordiosi (cf. Lc 6, 36), cercando in tutto la perfezione: «Siate perfetti
come è perfetto il vostro Padre che sta nei cieli» (Mt 5, 48).
3. Fare quanto ci ordina. «Se siamo ubbidienti
ai nostri padri terreni, non saremo ancor più sottomessi al Padre [creatore]
degli spiriti?» (96). Prima di tutto gli ubbidiremo perché egli è il Signore.
Diremo anche noi, con Mosè: «Tutto ciò che il Signore ci ha ordinato lo
eseguiremo, ubbidienti» (Es 27, 4).
Poi per l'esempio datoci dal Figlio [unigenito],
ubbidiente al Padre sino alla morte in croce (cf. Fil 2, 8). E non va trascurato
il vantaggio che ne deriva, sì che potremo ripetere [partecipando a tanti beni
soprannaturali]: «Danzerò davanti al mio Signore, che mi ha eletto» (2 Sam 6,
21).
4. Accettare, infine, pazientemente, i castighi
che avremo meritato. «Figlio mio - dice l'autore dei Proverbi - non
disprezzare la disciplina di Jahvè e non scoraggiarti quando da lui sei
castigato, perché Dio corregge chi ama e in esso pone il proprio affetto, come
un padre nel suo figliolo» (Prv 3, 11-12).
Nostro. Quest'aggettivo riassume i doveri che
abbiamo verso il prossimo: amore e rispetto. Amore in quanto, essendo loro come
noi figli di Dio, sono nostri fratelli (cf. I Gv 4, 20). «Non abbiamo forse un
Padre unico, noi tutti? Non ci ha creati un unico Dio? E allora perché ci
comportiamo con reciproca perfidia? » (Ml 2, 10). E alla voce del profeta si
aggiunge quest'altra, dell'Apostolo: «Amatevi con vicendevole fraternità» (Rm
12, 10), facendo a gara nel mutuo rispetto; che è dovuto a tutti i figli di
Dio.
Non piccolo sarà il frutto, dal momento che
Cristo è divenuto, per chi adempie ai suoi precetti, «causa di salvezza eterna»
(Eb 5, 9).
La fiducia occupa un posto eminente tra i
requisiti di chi voglia ben pregare, affinché il suo risulti un chiedere «senza
ombra di perplessità» (Gc I, 6). Perciò, volendo insegnarci la preghiera
perfetta, il Signore comincia da quei motivi che possono generare la fiducia, e
cioè la benignità del Padre, e il suo illimitato potere. [Parlando alla folla,
Gesù diceva:] «Se voi, che pure siete cattivi, sapete dare cose buone ai
vostri figli, guanto più saprà darle il Padre celeste a chi gliele chiede?» (Lc
11, 13). E questo «Padre», se sta «nei cieli», avrà di certo una
grandissima potenza (cf. Sal 122, 1).
Sono varie le considerazioni che possiamo fare
sull'espressione «che sei nei cieli».
I. E' un pensiero che dispone l'anima alla
preghiera, secondo l'invito dell'Ecclesiastico (cf. Sir 18, 23), e che
suggerisce all'orante l'idea della gloria in cui abita la divinità.
La nostra preparazione alla preghiera deve
prender l'avvio dalla coscienza di ciò che in noi stessi abbiamo di originario
del cielo [cioè l'impronta di Dio nel nostro spirito]; come infatti portiamo in
noi la natura dell'Adamo terreno, così dobbiamo riprodurre, imitandolo,
l'immagine di quello celeste (cf. I Cor 15, 49).
La meditazione delle realtà soprannaturali [ci
dispone ancor meglio]; tutti noi torniamo frequentemente col pensiero dove
stanno i nostri genitori e altre persone care («Dov'è il tuo tesoro, lì c'è
pure il tuo cuore») (Mt 6, 21).
I nostri desideri, infine, rivolti al cielo,
chiederanno dal Padre che vi abita, di preferenza «le cose di lassù» (Col 3,
l).
2. «Che sei nei cieli» può anche,
riferito al Padre comune, indicare la compiacenza con cui egli ci ascolta: egli
che ci è accanto [oltretutto] per la sua inabitazione nelle anime in grazia. «Tu,
o Signore, abiti in noi» (Ger 14, 5), esclama il profeta, mentre quei «cieli
che narrano la gloria di Dio» di cui parla l'autore di un salmo possono esser
presi, qui, in senso figurato: i santi, cioè, testimoni della bontà e maestà
divina (cf. Sal 18, 1).
Dio abita nel giusto mediante la fede di costui (cf.
Ef 3, 17), mediante la carità (cf. Gv 4, 18) e l'osservanza dei comandamenti (cf.
Gv 14, 23).
3. L'espressione «che sei nei cieli» può,
infine, richiamare alla nostra mente la potenza di colui che ci ascolta.
Prendendo i «cieli» nella loro realtà fisica (ma non certo nel senso che
questi riescano a delimitare l'Essere infinito (cf. I Re 8, 27)), affiora
l'immagine del Dio dalla vista acutissima, propria di chi può considerare le
cose da molto in alto: onnisciente, oltre che onnipotente ed eterno (97).
Aristotele medesimo rileva come, per l'immutabilità (98), tutti gli uomini
hanno indicato il cielo quale sede degli esseri spirituali.
Così, le parole «che sei nei cieli», ci
infondono una fiducia [più salda] nell'atto del pregare. Infatti un Padre che
abita nei cieli ci ispira confidenza in virtù del suo potere e della bontà con
cui esaudirà ogni conveniente desiderio.
La potenza dell'Essere cui rivolgiamo le
preghiere è adombrata nel testo di Geremia: «Non riempio forse, io, il cielo e
la terra? » dice Jahvè (Ger 23, 24). Sapere che egli pervade gli spazi
stellari dà la sensazione della divina maestà, di una sublime natura. Diviene
così inattendibile la tesi di quanti sostengono che tutto accada per fatalità
di un destino governato dagli astri: in tal caso, sarebbe perfettamente inutile
rivolgere a Dio una qualunque preghiera. Ma pensarla a questo modo è da stolti,
proprio perché Dio sta nei cieli precisamente in qualità di signore degli
spazi celesti e dei corpi astrali (cf. Sal 102, 19).
Altro errore è quello di coloro che non riescono
a pregare senza fare ricorso a immaginazioni sensibili della divinità; ebbene,
affermando che Dio «è nei cieli», ossia al di sopra della creazione
terrestre, la preghiera del Pater rivela la natura sublime di un Dio che
trascende qualunque altra realtà, compresi i pensieri e i desideri degli
uomini. Qualsiasi cosa riescano a concepire il cuore o la mente umana, sarà
sempre al di sotto della sublime realtà che è Dio. Giobbe ne era convinto: «Ecco,
Dio è grande e sorpassa la nostra intelligenza» (Gb 36, 26), mentre un salmo
lo chiama «eccelso sopra tutta l'umanità» (Sal 112, 4).
Anche la familiarità di Dio [verso gli uomini]
è messa qui in risalto, se vogliamo intendere per «cieli» le anime dei
giusti. Avendo insegnato taluni che Dio, a motivo della propria trascendenza,
non potrebbe abbassarsi per prendersi cura delle vicende umane, [mediante questa
interpretazione mistica ma fondata] egli stesso ci rassicura che ci è vicino,
anzi è intimo nostro! È nei cieli, negli uomini cioè santificati dalla grazia
(99).
La fiducia dell'uomo in preghiera se ne
avvantaggia per due ragioni: sappiamo infatti che «il Signore è vicino a
quanti lo invocano» (Sal 144, 18); e addirittura, raccomandando di raccoglierci
in orazione dentro la stanza più segreta, il Signore allude alla possibilità
di incontrarlo nell'intimità del cuore (cf. Mt 6, 6).
Inoltre, siamo incoraggiati a pregare
fiduciosamente sapendo che potremo ottenere quanto desiderato grazie al
patrocinio di altri, davvero santi, nei quali Dio inabita familiarmente (100).
Ulteriore capacità impetratoria acquista la
preghiera se diamo al termine «cieli» - in cui Dio abita - il significato di
beni spirituali, eterni, nei quali consiste la nostra felicità. Per due motivi.
Le aspirazioni umane tenderanno così verso l'alto, dove sappiamo di avere un
Padre e la sua eredità. San Paolo ci esorta in tal senso a ricercare «le cose
di lassù» (Ef 3, 1) e l'apostolo Pietro benedice Dio, «Padre del nostro
Signore Gesù Cristo, il quale, conforme alla sua grande misericordia, ci ha
rigenerati (...) ordinandoci al godimento di un'eredità incorruttibile,
immacolata e inalterabile, riservata per voi nei cieli» (I Pt I, 4).
L'umana esistenza vien così sollecitata a
rendersi degna del cielo e del Padre che sta nei cieli (cf. 1 Cor 15, 48).
Desideri elevati e vita di perfezione rendono
l'uomo in preghiera degno d'essere esaudito. La supplica non resterà senza
risposta.
E' la prima delle sette domande rivolte al Padre,
ed esprime il nostro desiderio di poter conoscere [e far conoscere] in una luce
sempre più chiara il nome di Dio.
Nome meraviglioso, capace di operare meraviglie,
fino a mettere in fuga gli spiriti del male (cf. Mc 16, 17).
Nome amabile, dato che «non esiste nel creato un
altro nome dal quale gli uomini possano attendersi la salvezza» (At 4, 12): e
salvarsi è desiderio universale. In sant'Ignazio martire (101) trovi uno
splendido esempio d'amore per il nome di Cristo. Invitato dall'imperatore
Traiano a rinnegarlo, rispose che nessuno sarebbe riuscito nell'intento, neppure
se (come l'imperatore minacciava di fare) gli avessero mozzato il capo. «Potresti
sigillarmi le labbra, senza togliermi nondimeno Cristo dal cuore; lo porto
scolpito in me: quindi l'invocazione al Cristo è incessante». Desiderando di
verificare quanto aveva sentito, fattolo decapitare, Traiano comandò che gli
strappassero il cuore. E ognuno poté vedere che Ignazio recava davvero in sé,
scritto a lettere d'oro, il nome di Cristo.
Nome degno di venerazione, a tal punto che «ogni
ginocchio in cielo, in terra e nell'inferno si dovrà piegare nel sentirlo» (Fil
2, 9-10). In cielo, gli angeli e i beati; qui in terra, dove gli uomini adorano
il Cristo mossi dal desiderio di conseguire la beatitudine [eterna] o, quanto
meno, dal timore di esser condannati; nell'inferno, i reprobi che vedono nel
Cristo giudice l'autore della divina giustizia (102).
Nome che nessuno potrà mai pienamente
interpretare a fondo, neppure gli angeli. Si ricorre perciò a delle metafore.
Così viene detto pietra per indicare la stabilità su cui, ad esempio,
si sostiene la Chiesa (cf. Mt 16, 18). Oppure lo paragoniamo al fuoco,
nel senso che come la fiamma separa le scorie dal metallo, così Dio purifica il
cuore dei peccatori. Leggiamo nel Deuteronomio: «Il Signore, tuo Dio, è
simile a un fuoco divoratore» (103). A volte è chiamato luce. Il nome
divino è infatti capace di rischiarare le tenebre dell'umano intelletto.
Toccante l'invocazione [né resterà senza risposta]: «Dio mio, illumina le mie
tenebre!» (Sal 17, 29).
Noi stessi [ripetendo «sia santificato il tuo
nome»] chiediamo che il nome di Dio [Padre] sia noto, a tutti e, quindi,
tenuto nella venerazione dovuta alle sacre realtà.
Santo può prendersi secondo vari
significati [e tutti convengono al nome di Dio].
I. E' santo ciò che è stato sancito, dichiarato
inviolabile (104). In tal senso, i beati del cielo, confermati nell'eterna
beatitudine son detti per questo motivo santi. Quaggiù, soggetti come siamo
all'instabilità terrena, nessuno può esser detto santo. Lo riconosceva
Agostino, scrivendo: «Son andato alla deriva, Signore, lontano da te; troppo
spesso ho sbagliato strada, sviandomi dalla via maestra che sei tu, ove avrei
potuto procedere con passo sicuro».
2. Santo può equivalere anche a tutto ciò che
non è terreno, e nei santi che sono in cielo manca ogni attaccamento ai beni
mondani; fin d'ora chi cerca di santificarsi e Paolo, tra gli altri - si
priva di tanti vantaggi e prerogative, e le stima come spazzatura pur di
guadagnare Cristo con tutti i suoi beni (105). Al contrario, con il nome «terra»
[nella Scrittura] vengono designati i peccatori: difatti, come il terreno non
coltivato germinerà soltanto spine e triboli (cf. Gn 3, 18), l'anima dell'empio
- finché non sia lavorata dalla grazia altro non produrrà che tormenti e
acuti rimorsi. Di più, come la terra è scura e non si lascia attraversare
dalla luce, l'anima in peccato è ottenebrata e resiste all'opera della grazia.
E' infine un elemento asciutto, tendente a polverizzarsi se l'umidità
dell'acqua non le dia compattezza. Altrettanto può dirsi del peccatore: la sua
anima sembra essersi fatta arida e assetata. Ne fece Davide l'esperienza: «Dinanzi
a te, l'anima mia è come il deserto che ha sete di pioggia» (Sal 142, 6).
3. Una terza etimologia della parola 'santo' la
farebbe risalire a: tinto nel sangue (106). Si applica in particolare ai santi
che sono in paradiso, dei quali l'Apocalisse dice: «Costoro hanno
superato la grande tribolazione [terrena] e han lavato le loro stole,
purificandole grazie al sangue dell'Agnello» (Ap 7, 14); di Cristo, cioè, che
amando ci «ha operato la liberazione dai nostri peccati, mediante il proprio
sangue» (Ap I, 5).
[Dunque, il tuo nome, Signore, è degno d'essere
venerato quanto merita: nome santo e santificante].
Abbiam detto che lo Spirito Santo ci
indirizza [con la preghiera del Pater] ad amare, desiderare e chiedere
rettamente, oltre che ispirarci un santo timore, in forza del quale domandiamo
che il nome di Dio venga santificato.
Segue, qui, un altro dono, il dono della pietà:
dolce e devoto affetto verso chi ci ha generati, nonché verso chiunque si trovi
in condizioni di miseria.
Essendo Dio il nostro Padre, come si è
dimostrato, noi lo dobbiamo non solo riverire e temere, ma verso di lui nutrire
una devota tenerezza. È questo sentimento che ci inclina a chiedere la venuta
del regno di Dio. Nella lettera a Tito si legge: «Viviamo nel presente con
moderazione, giustizia e pietà... in attesa della beata speranza e della
gloriosa manifestazione del grande Dio e nostro salvatore, Gesù Cristo» (Tt 2,
12-13).
Potremmo chiederci: «Ma, dato che il regno di
Dio è a lui coeterno, che senso ha chieder che venga?» Invece può avere un
triplice significato.
I. Innanzi tutto può accadere che un re abbia
l'autorità sovrana, la facoltà cioè di dominare senza che in effetti il suo
dominio si eserciti compiutamente, perché non tutti gli si sono assoggettati.
In tal caso il suo regno potrà dirsi realizzato appieno solo allorché i
sudditi ne sosterranno la sovranità.
Per sua natura Dio è il Signore universale, come
pure lo è Cristo per l'unione ipostatica. Di lui ha scritto Daniele: «Gli
venne conferito il potere, la maestà e il regno, sì che tutti i popoli, le
nazioni e le genti di ogni lingua lo servivano» (Dn 7, 14).
Quindi è giusto che ogni cosa stia sotto il
dominio di colui che è il Signore; siccome però non si tratta d'una realtà
attuale, lo diverrà [pienamente] al dissolversi di questo mondo. Ce lo conferma
san Paolo: «E' necessario che Cristo governi [la Chiesa] 'fino a che non abbia
debellato tutti i nemici'» (107).
Perciò glielo chiediamo, dicendo «venga il tuo
regno», con tre intenti : [che] la conversione dei giusti si rinnovi
incessantemente, [che] i peccatori ricevano il castigo (108) e la morte sia
annientata. Volenti o nolenti, gli uomini debbono sottomettersi al Cristo. Poiché
la volontà divina è di tale efficacia da conseguire un completo successo - ed
essendo stabilito che tutto ceda il passo alla sovranità del Messia -, i casi
sono due: o l'uomo farà la volontà di Dio spontaneamente, sottomettendosi ai
suoi voleri - ed è quanto fanno i giusti; oppure Dio compirà lo stesso i
propri disegni a dispetto dei suoi nemici, punendo gli ostinati peccatori alla
fine dei tempi. Dice profeticamente il salmo 108: «Siedi alla mia destra,
mentre che io pongo gli oppositori come sgabello sotto i tuoi piedi» (Sal 108,
1).
Per i giusti, chiedere che venga il regno di Dio,
ossia disporsi nel modo più perfetto a compiere la divina volontà, è cosa
gradita. Ma ai peccatori una simile richiesta incute spavento, coincidendo con
1'esecuzione inflessibile della sentenza condannatoria. Amos li avverte: «Guai
a voi che state in attesa del giorno di Dio! A che potrà giovarvi, quel giorno?
Sarà giorno di tenebre, non di luce... Giorno d'oscurità, senza splendore!» (Am
5, 18).
E nel medesimo istante verrà annientata la
morte, questa nemica della vita. Nella prima lettera ai Corinti è detto: «L'ultimo
avversario a essere distrutto sarà la morte» (I Cor 15, 26), e ciò accadrà
nel momento della risurrezione finale; l'istante in cui, secondo l'espressione
dell'Apostolo: «Gesù Cristo trasformerà il nostro miserevole corpo rendendolo
simile al suo corpo glorioso, per mezzo della potenza che egli ha di
assoggettarsi ogni cosa» (Fil 3, 21).
2. Regno dei cieli, poi, è lo stesso che dire
gloria del paradiso, e non deve far meraviglia dal momento che l'idea del regno
sottintende quella di governo. Ora il miglior regime si ha dove non esistono
motivi d'opposizione contro chi governa. Principale intento di Dio è di
procurare agli uomini la salvezza; egli desidera che tutti si salvino; e ciò
sarà vero soprattutto in paradiso, dove non può trovarsi alcunché di avverso
al bene dell'uomo. Accadrà quanto dice l'evangelista: «Gli angeli elimineranno
dal suo regno tutti gli scandali e quelli che avranno compiuto iniquità» (Mt
13, 41).
Quaggiù, invece, sono tante le cose che
minacciano la salvezza dell'uomo. Perciò, quando chiediamo «venga il tuo regno»,
stiamo pregando d'essere fatti partecipi del regno celeste e della gloria del
paradiso.
Tre caratteristiche [del regno celeste] ci devono
spingere a desiderarlo intensamente:
Per la somma giustizia che vi regna. Ne
sottolinea la portata Isaia: «Il tuo popolo sarà un popolo di giusti» (Is 60,
21). Quaggiù infatti i cattivi sono frammisti ai buoni, mentre lassù non si
troverà un solo malvagio, un solo peccatore;
Per la libertà autentica [che vi si gode]. In
terra non c'è una vera libertà, sebbene tutti vi aspirino istintivamente; là,
invece, la liberazione da ogni forma di condizione servile sarà assoluta,
secondo la promessa di Paolo: «Il mondo [soggetto fino a quel momento alle
leggi della disgregazione] ne verrà affrancato» (Rm 8, 21). E ciascuno non
soltanto diverrà libero, ma somiglierà a un re; attesta l'Apocalisse: «Ci hai
fatti, per il nostro Dio, re e sacerdoti; e regneremo sopra la terra [rinnovata]»
(Ap 5, 10). E questa è la ragione: che ognuno sarà concorde col divino volere:
Dio vuole ciò che vogliono i santi, e i santi ciò che a lui piace. Sicché nel
compiere la volontà di Dio si adempirà il volere dei singoli, e Dio sarà come
il diadema che cingerà la fronte del giusto: la «splendida corona, il serto
magnifico» di cui parla Isaia (Is 28, 5).
Infine, [il regno celeste è oggetto di
desiderio] per la sua meravigliosa ricchezza; una ricchezza tale da far dire al
profeta: «Nessun orecchio ha mai sentito, nessun occhio ha veduto mai un altro
Dio far tanto per coloro che in lui han riposto la propria speranza» (Is 64,
4); e il salmo 102 rassicura che «Egli sazierà di beni i tuoi giorni e tu
rinnoverai, come l'aquila, la tua giovinezza» (Sal 102, 5).
Nota inoltre che l'uomo troverà in Dio,
esclusivamente, e nella misura più eccellente e perfetta, ciò che quaggiù ora
va elemosinando.
Tu cerchi la gioia? Ne troverai, in Dio, una
insuperabile. Brami le ricchezze? In lui le avrai da soddisfarti, ché son
ricchezze divine.
Nelle Confessioni, Agostino ha scritto: «Finché
s'intorbida staccandosi da te, Signore, l'anima cercherà, ma non in te, cose
limpide e pure, che non riuscirà a trovare se non quando ti si sarà
riaccostata».
3. L'avvento del regno [di Dio] va implorato
inoltre perché, sia pure temporaneamente, tra gli uomini regna il peccato ogni
volta che uno di noi segue, acconsentendo, i suoi istinti sregolati. Nel vostro
essere mortale - ci raccomanda san Paolo - non lasciate che regni la
concupiscenza (cf. Rm 6, 12); deve regnare Dio, nel tuo cuore (cf. Is 52, 7). E
questo sarà vero se ti mostrerai pronto a ubbidire a Dio, mettendo in pratica.
i suoi precetti: dunque, quando chiediamo che venga il suo regno, esprimiamo il
desiderio che su di noi non regni il peccato, ma Dio stesso.
Attraverso questa petizione attingiamo [anche]
quella beatitudine che il Signore riserva ai miti (109).
Secondo la prima interpretazione del passo,
infatti, desiderando che Dio sia il Signore universale, l'uomo non provvederà
da sé a vendicarsi delle offese che avesse ricevuto, ma ne lascia a Dio il
compito. Se ti facessi giustizia da te medesimo, non sarebbe segno che tu brami
davvero l'avvento del regno di Dio.
In base poi alla seconda interpretazione [che
abbiamo segnalato], se tu attendi la venuta del regno - cioè la gloria del
paradiso -, non ti devi dolere per la perdita di un qualche bene terreno. Paolo
poteva lodare i cristiani della Giudea, per aver accettato con gioia la confisca
dei beni da parte delle autorità civili (110).
Nel terzo significato su esposto, se chiedi che
in te regni Dio, assieme al Cristo che fu mitissimo, anche tu devi essere
mansueto, prendendo esempio da lui (cf. Mt 11, 29).
Il terzo dono [connesso con le invocazioni del Pater]
è il dono della scienza. L'azione dello Spirito Santo non soltanto rende l'uomo
riverente e affezionato nei confronti di Dio, ma lo fa diventare saggio. Era
quanto desiderava Davide: «Insegnami la bontà, una condotta disciplinata e il
discernimento [per agire nel migliore dei modi]» (Sal 118, 66). Si tratta
dunque della sapienza che insegna a ben vivere.
Tra le cose che concorrono a renderci sapienti,
questa superiore saggezza fa sì che l'uomo non confidi troppo nel proprio
parere. Anche il libro dei Proverbi ammonisce: «Non appoggiarti [oltre il
ragionevole] alla tua intelligenza» (111). Quelli, infatti, che presumono
eccessivamente di sé al punto da non far conto dei consigli altrui,
comportandosi da stolti, sono giudicati come tali. «Hai visto di quelli che si
credono persone sagge? Uno stolto può più di loro nutrire speranza [di
rinsavire]» (Prv 26, 12). Che invece l'uomo non faccia credito [esclusivamente]
a se stesso, è segno di umiltà, e quindi di sapienza (112). I superbi, al
contrario, san pieni di sé.
Mediante il dono della scienza, lo Spirito ci
insegna dunque a preferire la volontà di Dio alla nostra. Perciò chiediamo che
ogni divina intenzione si realizzi, appieno, nel cielo e sulla terra. Ecco il
dono della scienza. Diciamo: «Sia fatta la tua volontà» allo stesso modo in
cui un malato, rivolgendosi al medico senza una precisa idea [di quale sia il
rimedio opportuno], semplicemente si rimette al parere dell'esperto. Volersi
imporre a quest'ultimo sarebbe una sciocchezza.
Così, da Dio non dobbiamo chiedere altro che
questo: che - in qualunque situazione ci troviamo implicati abbia il
sopravvento il suo volere; che la sua volontà si compia per intero.
L'animo umano è in regola quando si accorda con
la divina volontà. Cristo fece a questo modo: «Io son disceso dal cielo per
eseguire non la mia, ma la volontà di chi mi ha inviato» (Gv 6, 38).
In quanto Dio egli stesso, la sua volontà
coincideva con quella del Padre; distinta invece la facoltà volitiva del Verbo
da quella dell'uomo Gesù (113). Ed è di quest'ultima, che egli parla allorché
afferma che intende conformarsi alla volontà del Padre. Di conseguenza insegna,
anche a noi, a pregare: «Sia fatta, o Padre, la tua volontà».
Leggendo però in un salmo (cf. Sal 134, 6) che
il Signore compie tutto ciò che vuole, viene spontaneo chiederci: se ogni cosa,
in cielo e sulla terra, si compie conforme a quanto egli ha stabilito, che senso
può avere il nostro fiat?
Bisogna sapere in proposito che Dio desidera, per
il bene degli uomini, tre cose; quelle appunto di cui, nel Pater, noi chiediamo
il compimento.
I. La vita eterna. Chiunque tenda verso un
qualsiasi fine, dispone anche i mezzi adatti a conseguirlo. E così Dio, creando
l'uomo, non poteva avviarlo verso il nulla. « È possibile che tu, Signore,
abbia creato l'umanità senza uno scopo?» (Sal 88, 48). Ma nostro fine
[specifico] non potranno mai essere i piaceri sensibili, che anche i bruti
appetiscono; bensì una vita [felice] che non abbia termine. Ecco cosa vuole
Dio, per l'uomo: che giunga a godere la vita eterna.
Quando un essere raggiunge lo scopo al quale era
destinato, diciamo che è riuscito a salvarsi (114); mentre all'opposto, di
qualunque realtà che non arrivi a buon fine, dobbiamo concludere che sia andata
in rovina; la consideriamo perduta. Avendoci Dio creati in ordine alla vita
eterna, chiunque di noi che la raggiunga ha conseguito la salvezza. Ed è quanto
il Padre desidera, sulla parola di Gesù: «Questa è la volontà del Padre mio
che mi ha mandato: che qualunque persona giunga a conoscere il Figlio e accetti
di credere in lui, abbia la vita eterna» (Gv 6, 40).
Tale suo desiderio si è di già realizzato negli
angeli e nei santi, in cielo, i quali vedono Dio, lo conoscono e vi trovano la
loro beatitudine. Noi, chiedendo che sia fatta la sua volontà, desideriamo che
essa ci trovi disponibili ad attuarla, come accade negli spiriti beati.
2. Poi, Dio desidera da noi l'osservanza dei suoi
comandamenti. Chi si prefigge un fine, vuole anche i relativi mezzi. Simile al
medico che, in ordine alla salute da riacquistare prescrive la dieta, le
medicine e altre necessità del caso, Dio chiede che osserviamo i suoi precetti
se ci sta a cuore la vita eterna (cf. Mt 19, 17). In un testo paolino, la volontà
del Padre è definita «buona, gradevole e perfetta» (Rm 12, 2).
Volontà buona, ossia tutta indirizzata a nostro
vantaggio, come si rileva da diversi passi della Scrittura (115). Volontà
accettevole, che ad altri apparirà ripugnante, non però a colui che ama [il
Signore]: luce, cioè, per il giusto, letizia per chi possiede un animo retto (cf.
Sal 96, 11). Volontà perfettiva, che rendendo perfetto l'uomo, gli conferisce
bellezza interiore. «Cercate d'essere perfetti, come perfetto è il Padre
vostro celeste» (Mt 5, 48).
Dicendo: «Sia fatta la tua volontà» chiediamo
di saper compiere quanto Dio si attende da noi. I giusti s'ingegnano di farlo,
non altrettanto i peccatori; e i primi richiamano alla mente l'idea del cielo, i
secondi quella della terra [pesante e oscura] (116). Vogliamo quindi che la
volontà di Dio sia realizzata «in terra», ossia dai peccatori, come lo è «nei
cieli», grazie al retto agire dei giusti.
C'è per noi - sotteso alla formula di cui
parliamo - un insegnamento. Infatti non dice fai [tu, Padre], e
neppure noi [uomini] faremo, ma «sia fatta». Per meritare
la vita eterna sono necessarie due cose: grazia di Dio e buon volere da parte
dell'uomo. Sebbene abbia saputo crearlo senza che l'uomo [inesistente] vi
cooperasse, Dio non ti salverà se non collabori alla tua propria salvezza
(117). Esplicita, nelle parole del profeta, la condizione: «Convertitevi a me!
... Così io mi volgerò a voi» (Zc I, 3). E altrettanto chiaro il pensiero
dell'apostolo Paolo: «Son quel che sono per misericordia di Dio; e una tale
grazia io non l'ho ricevuta invano» (1 Cor 15, 10).
Perciò non esser presuntuoso, ma fai
assegnamento sull'aiuto della grazia; d'altra parte non mostrarti negligente ma
sollecito [nel metterla a frutto].
Non usa, intenzionalmente, la formula faremo,
noi [uomini] perché non si pensi che l'azione della grazia sia
affatto superflua; e neanche [Padre] fai tu, interamente da te,
quasi che la nostra volontà, il nostro sacrificio non conti per nulla.
«Sia fatta», invece, mette bene in luce la
cooperazione tra grazia divina e libero arbitrio nel realizzarsi della volontà
del Padre.
3. Dio vuole che l'uomo sia reintegrato in quella
dignità in cui fu creato il capostipite del genere umano. Un dominio tale da
far sì che lo spirito, l'anima, non subisse violenza alcuna da parte della
sensualità (118).
Finché l'anima si tenne a Dio sottomessa, la
carne restò soggetta allo spirito da non sentire la minima corruzione - inizio
di morte -, nessuna infermità o passione. Quando invece lo spirito, (medio tra
Dio e la carne) insorse peccando contro il Creatore, anche il corpo si ribellò
allo spirito: e l'uomo sperimentò malattie, morte, e la continua rivolta dei
sensi contro lo spirito (119). «Vedo - ammetteva san Paolo - un'altra legge
nelle mie membra che fa guerra alla legge della mia mente» (Rm 7, 23), poiché
«la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito li ha contrari alla
carne» (Gal 5, 17). Diuturno conflitto, tra la carne e lo spirito; e l'uomo si
logora progressivamente nel peccato.
Pertanto è volontà di Dio che l'uomo
riconquisti lo stato originario, in maniera che nulla, da parte della carne, si
opponga alle esigenze dello spirito. «La volontà di Dio è questa: la vostra
santificazione» (1 Ts 4, 3).
Un restauro del genere non può trovare piena
realizzazione durante questa vita terrena, bensì con la risurrezione dei santi,
quando cioè i corpi glorificati cominceranno a esistere incorruttibili e
nobilissimi (cf. 1 Cor 15, 43).
Tuttavia [fin d'ora] il volere santificante di
Dio si attua nei giusti mediante una vita saggia, informata ai dettami della
giustizia. Nel Pater così, preghiamo affinché la sua volontà si
adempia anche adesso, nella nostra condizione mortale.
Lo spirito umano è quasi un riflesso del cielo,
come la carne richiama il pensiero della terra [da cui trasse origine]. La tua
volontà, dunque, Signore, si compia in terra, ossia nel nostro corpo, come in
cielo, nello spirito che - come è giusto - a te si sottomette.
Facendo la volontà del Padre sperimentiamo, in
mezzo alle afflizioni, la beatitudine di cui parla Matteo: «Beati gli afflitti,
poiché saranno consolati» (Mt 5, 5). Infatti: se davvero desideriamo la vita
eterna, l'attesa dovrebbe risultare così pungente da indurci al pianto. Non
esclamava il salmista: «Ahimé, perché il mio peregrinare si prolunga tanto?»
(Sal 119, 5). Nei santi questo desiderio è tanto intenso da spingerli
[talvolta] a bramare quella morte che, di per sé, anch'essi dovrebbero
aborrire. «Sapendo che mentre siamo nel corpo, siamo come esiliati e lontani
dal Signore... pieni di fiducia vorremmo dipartirci dal corpo e abitare accanto
al Signore!» (2 Cor 5, 8).
Conoscono l'afflizione anche quanti osservano la
legge di Dio, nel senso che, cara allo spirito, questa costituisce però una
continua macerazione per la carne. Si applica benissimo il versetto del salmo:
«Andavano camminando e piangevano - mortificando le passioni dei sensi -; ma
tornando, verranno con allegrezza per la gioia che l'anima ne ricava» (Sal 125,
6).
Infine, un altro motivo di sofferenza deriva
dalla lotta continua tra la carne e lo spirito: è impossibile che, nel
combattimento, l'anima non rimanga in qualche modo scalfita [per così dire] dal
peccato veniale; e tutto ciò si risana nella compunzione. Le parole di Davide:
«Ogni notte bagnerò di pianto il mio giaciglio» (Sal 6, 7) sono vere: la «notte»
rappresenta l'oscurità prodotta dai peccati e il «giaciglio» corrisponde alla
coscienza.
Chi coltiva questo senso di compunzione giungerà
in patria. Che Dio voglia accompagnarci, lassù.
Non di rado si dà il caso di uomini che restano
come impacciati [davanti alla realtà concreta], a causa della grande cultura e
della sapienza [entro la quale sono immersi]. Affinché non crollino nel
confronto con certe difficoltà, è loro necessaria quella forza d'animo che è
dono dello Spirito Santo. Il dono precisamente della fortezza, che «dà energie
allo stanco, e a quelli che vengono meno accresce resistenza e vigore» (Is 40,
29). Anche il profeta Ezechiele sperimentò «una forza che - egli scrive - mi
rimise in piedi» (Ez 2, 2).
Grazie a quest'altro dono, il cuore dell'uomo non
si sgomenta nel timore di non riuscire a procurarsi le tante cose necessarie a
noi mortali. Egli riacquisterà fiducia, nel convincimento che quanto è
indispensabile gli verrà assicurato dalla provvidenza divina. Lo Spirito Santo
perciò ci induce a chiedere, al Padre: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».
Così c'insegna lo Spirito che rinvigorisce [l'uomo, nel corpo e nell'animo].
Fin qui abbiamo preso in esame le tre petizioni
spirituali che quaggiù vengono soddisfatte parzialmente, mentre troveranno
pieno esito nella vita eterna. Chiedendo, difatti, che sia «santificato il nome
di Dio, desideriamo che ne venga manifestata a chiunque la santità; quando
preghiamo che venga il suo regno, mostriamo di bramare d'essere annoverati tra
gli eletti che avranno parte alla vita beata; e allorché desideriamo che sia
fatta la volontà divina, ci disponiamo noi stessi a eseguirla. Nobili desideri,
ma realizzabili pienamente solo nella vita futura.
Era giusto perciò che un'orazione perfetta
[qual'è questa, rivolta al Padre] considerasse in pari tempo alcune naturali
esigenze, appagabili quaggiù per intero. Lo Spirito Santo così ci esorta a
chiedere certe cose d'ordine temporale, di cui non possiamo fare a meno. Dio
provvederà anche a questo.
Mediante le parole con cui chiediamo il pane
quotidiano il Signore ci ammaestra come evitare i cinque errori più comuni,
derivanti dall'appetito delle cose transitorie.
I. Primo eccesso in materia è una voglia smodata
di beni temporali, che sorpassa le giuste esigenze della propria condizione
sociale. Il soldato sogna di poter indossare la divisa d'ufficiale; il chierico
non si contenta della [disadorna] talare e invidia i paludamenti del vescovo.
Tale avidità distoglie gli uomini dagl'interessi dello spirito, invischiandoci
nella pània dei beni effimeri.
Il Signore ci aiuta a evitare un simile sbaglio
insegnando a chiedere il «pane», che simboleggia i beni sostanziali, necessari
alla condizione terrena di chiunque. Non cose delicate, non la loro varietà e
ricercatezza, ma semplicemente il pane. L'essenziale per poter sopravvivere,
l'unico bene che ci accomuna. «Le prime necessità della vita umana sono
l'acqua e il pane» (Sir 29, 28); e scrivendo a Timoteo, san Paolo aggiunge: «Quando
abbiamo vitto e vestito, possiamo dirci contenti» (I Tm 6, 8).
2. Altra abitudine riprovevole: pur di accumulare
beni temporali, vi son molti che non esitano a toglierli, con la violenza o con
la frode, al prossimo. È una maniera d'agire assai pericolosa, dal momento che
è poi difficile restituirli (120). Questa colpa - della sottrazione indebita -
non può trovare assoluzione se, come insegna Agostino, non si restituisca il
maltolto.
«Dacci - perciò - il pane nostro», non
già quello che appartiene ad altri. Chi ruba o commette rapina, non mangia di
certo un pane che possa dirsi suo, avendo lo sottratto al prossimo.
3. Altro errore sta nell'avere il culto del
superfluo: c'è infatti chi non è mai contento di ciò che possiede e vorrebbe
avere sempre di più. Questa sollecitudine è eccessiva, dato che i desideri
vanno commisurati alle necessità. Un savio dice al Signore: «Non concedermi
grandi fortune e scampami [nel medesimo tempo] dalla mendicità: dammi quel che
è necessario per vivere» (Prv 30, 8). Pane «quotidiano» è quello del giorno
corrente, quello proporzionato ai bisogni dell'oggi.
4. L'immoderata voracità spinge altri a
consumare in un giorno ciò che potrebbe bastare a lungo: neppure costoro
cercano il pane quotidiano ma quello di... dieci giorni consecutivi (121). Con
delle spese pazze, sciupano i patrimoni. «Chi passa la vita a sbevazzare e
organizzando banchetti finirà in rovina» (Prv 23, 21); «Un operaio ubriacone
non diverrà mai ricco» (Qo 19, 1).
5. L'ingratitudine, infine. Quando qualcuno si
sente importante per via delle ricchezze che possiede e non riconosce di averle
ricevute da Dio in usufrutto, fa qualcosa di assai scorretto. Ciò che possiamo
avere - materiale o spirituale che sia - è tutta roba che appartiene al Signore
(cf. I Cr 29, 14). Giustamente ci fa ripetere «dacci» e «il pane nostro»,
affinché ci ricordiamo che tutto il «nostro» è, in ultima analisi, suo.
Del resto è un fatto sperimentabile, appena
vediamo qualcuno che, proprietario di grandi ricchezze, non ricava da esse un
vero vantaggio ma solo danni e spirituali e materiali. Più d'uno è morto
proprio per colpa delle sue fortune. Documenta una simile verità la lunga
esperienza del Qoèlet. «C'è un altro guaio che ho riscontrato sotto il sole,
ed è frequente tra gli uomini. A un tale, Dio ha permesso ricchezze e sostanze
e onori; nulla gli manca di tutto ciò che il suo cuore desidera. Ma Dio non gli
permette di goderne, per cui un estraneo gli divora ogni cosa, Una delusione,
una vera disdetta» (Qo 6, 1-2). E a questo mondo non di rado accade che i beni,
gelosamente custoditi dal padrone, d'un tratto si sciupano [impiegati in un
cattivo affare].
Dobbiamo chiedere perciò [la grazia] che il
benessere, se capita, concorra al nostro [spirituale o comunque onesto]
profitto. Favorisce tale disposizione d'animo il ripetere: «Dacci [oggi] il
nostro pane [quotidiano]», nel senso di: rendi giovevoli i beni di cui potrò
disporre. Che non debba dirsi anche di noi quanto ha scritto Giobbe, dell'empio
infelice: «Egli vomiterà le ricchezze che ha divorato... Porterà le
conseguenze del male che ha fatto... in proporzione alla totalità dei suoi
[disonesti] guadagni egli dovrà soffrire. Perché egli oppresse e spogliò i
poveri, e rapì la casa che non aveva edificato. E il suo ventre non ne fu
sazio; e quando avesse tutto quello che bramava, non potrà tenerlo» (Gb 20,
15; 18-20).
Non sarà inutile tornare sul difetto della
sollecitudine eccessiva (122). C'è di quelli che si preoccupano, oggi, di
affanni che saranno reali soltanto di qui a un anno. Vivono nell'inquietudine.
Ma Gesù ci ricorda: «Non state a preoccuparvi, dicendo: 'Cosa mangeremo?',
oppure: 'Avremo da bere?' o 'Di che ci vestiremo?'» (Mt 6, 31). Egli vuole cioè
che si chieda, oggi, il pane dell'oggi, quello che fa bisogno al presente.
Ma vi sono altre due specie di pane, oltre a
quello [puramente] materiale: l'eucaristia e la parola di Dio. «Io sono il pane
venuto dal cielo» (Gv 6, 51).
Chiediamo dunque questo pane sacramentale, che
ogni giorno è approntato sugli altari, e riceviamolo debitamente, come esige un
bene [sacro] ordinato alla salute dello spirito. Diversamente «chi ne mangia...
senza discernere [dal pane comune] il corpo del Signore, mangia... la sua
propria condanna» (I Cor 11, 29).
L'altro pane [di cui ha fame il nostro spirito]
è la parola di Dio. «L'uomo non vive di solo pane, ma d'ogni parola che esce
dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4). Nel «Padre nostro» chiediamo che ci venga
somministrato anch'esso.
Ne deriverà la beatitudine che risponde alla
fame di [un'esistenza ispirata alla] giustizia. «Beati gli affamati e gli
assetati di giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5, 6). I beni spirituali
infatti più si hanno e più sono bramati: una fame che è nobile desiderio, cui
seguirà il più completo appagamento nella vita eterna.
Vi sono uomini di una viva intelligenza e
intrepidi ma eccessivamente sicuri di sé, sicché finiscono per comportarsi in
maniera non saggia e non sempre conducono in porto le loro imprese. «I progetti
traggono nuovo slancio dai [saggi] consigli» (Prv 20, 18). Ebbene, lo Spirito
Santo ci dà, oltre che il dono della fortezza, anche quello del consiglio. Ogni
savia determinazione, profittevole all'umana salvezza, proviene da lui. Ne
abbiamo bisogno, specie in mezzo alle miserie [dello spirito], come del consulto
medico quando cadiamo infermi. Spiritualmente malati a causa del peccato,
abbiamo necessità di conoscere come poter riacquistare [e serbare] la buona
salute [dell'anima]. [Ecco il consiglio del profeta Daniele al re Nabucodonosor:]
«Cancella i tuoi peccati con l'elemosina» (Dn 4, 24).
In effetti, sono ottimi - tra gli altri rimedi -
l'elemosina e le diverse opere di misericordia. Lo Spirito Santo suggerisce ai
peccatori di pregare così: «Rimetti a noi i nostri debiti».
A Dio va restituito ciò che, dei suoi diritti,
possiamo avere illegalmente sottratto. E diritto fondamentale del Signore è che
si adempia, piuttosto che il nostro, il suo volere. Noi facciamo l'opposto ogni
volta che preferiamo agire discordi dalla sua legge. Questo è il peccato, e «nostri
debiti» sono precisamente le nostre colpe. Chiedere che ci vengano condonati i
debiti è, appunto, chieder perdono d'aver peccato.
A questo punto faremo alcune considerazioni,
indagando sul motivo della petizione in esame, in quale modo essa trovi
esaudimento, e a quali condizioni.
I. Bisogna sapere che risultano utilissime
all'uomo viatore le virtù del timor di Dio, dell'umiltà [e della speranza]
(123).
Non è mancato chi sostenesse che l'uomo può
vivere, nella sua condizione di creatura decaduta, evitando il peccato senza
l'appoggio della grazia. Ma questo si è verificato esclusivamente nel Cristo,
il quale ebbe in sé lo Spirito [connaturale al Verbo] (124), e nella Vergine
Maria - la piena di grazia - immune dalla minima colpa. Usava dire sant'Agostino
che in materia di peccato egli non ammetteva neppure che si facesse il nome di
Maria.
Un simile
privilegio, di evitare perfino i peccati veniali, non fu concesso neanche ai più
grandi tra i santi. Lo stesso Giovanni [il discepolo prediletto da Cristo]
confessava umilmente: «Se dicessimo - me compreso - d'essere immuni da colpa,
inganniamo noi stessi; non parliamo secondo verità» (I Gv I, 8).
La petizione di cui trattiamo ne è una riprova.
Tutti, si sa, non esclusi gli uomini di santa vita, ripetono la preghiera del Pater,
con il suo «rimetti a noi i nostri debiti». Dunque, ognuno si riconosce
fallibile, debitore almeno nei riguardi di Dio. E allora, se sai d'essere tale,
devi temere la divina giustizia.
Eppoi [occorre] vivere nella speranza. È vero,
siamo peccatori, ma non dobbiamo lasciarci abbattere da questa verità, col
rischio di abbandonarci poi ad altre e forse più gravi colpe. È quanto
[descrivendo le miserevoli condizioni dei pagani] scrive san Paolo: «Privi di
speranza (125), si sono abbandonati all'impudicizia, facendo a gara ogni sorta
di azioni infami» (Ef 4, 19).
Quindi è assai utile non rinunciare mai a
nutrire fiducia che Dio, vedendo contrito il peccatore e sinceramente disposto
alla conversione, gli conceda il perdono. La speranza si ravviva con le parole:
«rimetti a noi i nostri debiti».
Mortificarono tale speranza i novaziani (126),
insegnando che le colpe commesse dopo il battesimo erano destinate a restare
senza condono. È falso, in quanto la loro dottrina contrasta con le parole di
Gesù [verità per essenza, nella parabola dei servi debitori]: «Io ti ho
condonato il debito per intero» (Mt 18, 32).
Qualunque sia il tuo peccato, se sarai
sinceramente pentito, troverai misericordia da parte di Dio (127). Timore,
quindi, e speranza; contriti e fidenti, tutti gli uomini saranno accolti dalla
misericordia divina.
Non poteva mancare nella preghiera del Signore
questo invito a sperare.
2. Nel peccato vi sono due componenti: la colpa,
come offesa di Dio, e la pena che ne deriva. Ora, la colpa è perdonata per
effetto della contrizione dell'uomo che stabilisca di confessarsi nonché di
riparare debitamente. Davide propose, tra sé: «Riconoscerò la mia iniquità,
senza aver riguardo a me stesso» (Sal 31, 5), e il Signore gli accordò il
perdono.
Nessun motivo, quindi, di lasciarsi prender
dallo sconforto, sapendo che per la remissione della colpa bastano un dolore
perfetto [unito al proponimento di non ricadere] (128), e l'intenzione ferma di
ricorrere quanto prima al sacramento della penitenza.
Qualcuno potrà obiettare: «Ma se la contrizione
è tanto essenziale da ottenerci il perdono, allora a che serve il confessore?».
Rispondiamo che Dio, apprezzando il pentimento di
chi lo aveva offeso, gli perdona la colpa, commutando del pari la pena eterna in
un'altra, temporanea. Ed a quest'ultima, da soddisfare, che resta obbligato il
peccatore [assolto]. Se egli morisse prima d'aver potuto far ricorso al
sacramento della penitenza (purché non vi sia disprezzo della medesima, ma solo
un'imprevista mancanza di tempo), la sua anima andrebbe in purgatorio. Le cui
pene, avverte sant'Agostino, son tutt'altro che trascurabili.
Allorché invece ti confessi, in virtù del
potere delle chiavi (129) il sacerdote ti assolve dalla [residua] pena. Ha detto
agli apostoli il Signore: «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i
peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti» (Gv 20,
22-23). Di conseguenza, confessandoci, la pena ci vien rimessa un po' ogni
volta; e potrebbe darsi che essa risulti estinta per intero, nel corso di
susseguenti confessioni (130).
I successori degli apostoli hanno ideato altri
modi ancora per facilitare l'estinzione della pena [temporale]: il beneficio [ad
esempio] delle indulgenze che, per un'anima già rientrata nel rapporto di
grazia, hanno quel determinato valore indicato caso per caso, e nella misura in
cui saranno adempite le relative condizioni.
Che ciò rientri nelle facoltà pontificie è
abbastanza chiaro. Di molti santi sappiamo che vissero evitando la colpa grave e
- compiendo anzi opere altamente meritorie. Il profitto eccedente torna in
favore del corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, assommandosi ai meriti del
Cristo e della beata Vergine, in un unico tesoro [di grazie]. Quindi il sommo
Pontefice, e quelli a cui egli conceda la facoltà, possono distribuire i
suddetti meriti secondo i nostri bisogni.
Resta così appurato che i peccati trovano
remissione non solo quanto alla colpa, bensì riguardo alla pena: mediante il
sacramento della penitenza e le indulgenze.
3. Noi, da parte nostra, dobbiamo perdonare al
prossimo le offese che ci avesse fatto. S'arricchisce il significato del «rimetti
a noi i nostri debiti». Diversamente Dio non condonerebbe i nostri. «Un uomo
serba rancore verso un proprio simile e chiede a Dio che lo guarisca
[nell'anima]?» (Sir 28, 3). «Perdonate - piuttosto -, e sarete perdonati» (Lc
6, 37). A questa sola domanda del Pater è posta accanto una condizione:
chiedendo d'essere assolti dalle nostre mancanze come noi [cioè se noi]
perdoneremo al prossimo, condizioniamo da noi medesimi l'esaudimento che ci sta
a cuore.
Potresti tentare, forse, una scappatoia. Pensare
cioè: «Dirò [al Padre]: 'Rimetti i nostri debiti', evitando però di
pronunziare la frase successiva».
E tu credi di riuscire a ingannare il Cristo?
Stai tranquillo che non ti riuscirà. Egli sa a mente la preghiera che ha
composto per noi... E allora, se la dici, dilla [per intero], col cuore e coi
propositi più concreti.
Altra questione. Ammesso che taluno decida nel
suo intimo di negare il perdono a un altro, deve, costui, o no, aggiungere: «Come
noi li rimettiamo ai nostri debitori?» Sembrerebbe meglio di no, altrimenti dirà
una menzogna.
Ma il suo è uno scrupolo fuori luogo, dato che
[pur astenendosi dall'aderirvi personalmente] egli continua la preghiera [del «Padre
nostro»] quale membro della Chiesa, che non sarà delusa [nei suoi desideri].
Vi era una buona ragione, dunque, per esprimere anche questa petizione al
plurale.
perdono a chiunque lo
chieda. «Perdona al tuo prossimo che ti ha fatto un torto: e allorché
pregherai, ti saranno rimessi i peccati» (Sir 28, 2).
Ne proviene la beatitudine della misericordia: «Beati
i misericordiosi» (Mt 5, 7). Troveremo misericordia, in cambio della
misericordia [che] ci dispone ad aver pietà delle altrui miserie e debolezze.
C'è della gente che desidera ricevere il perdono
dei peccati di cui si confessa, senza fare peraltro un proposito
sufficientemente fermo d'evitar nuove cadute. Il che non è bello: che cioè da
una parte si pianga nel chiedere venia e nondimeno, dall'altra, si accumuli
materia di rinnovate lacrime. Rivolto a tal genere di persone, Isaia diceva: «Lavatevi,
mondatevi, togliete dagli occhi miei le vostre malvagie intenzioni: smettetela
di agire male» (Is I, 16).
Tenendo presente questo contegno errato, dopo
averci insegnato a chieder la remissione delle colpe, Cristo ci indica qui come
dobbiamo domandare che ci venga concesso d'evitarle. «Non c'indurre in
tentazione», che potrebbe significare una premessa di peccato.
Vediamo subito cosa sia la tentazione in se
stessa; in quanti modi - e da parte di chi - l'uomo sia oggetto di tentazione;
come possa esserne liberato.
Tentare altro non è che saggiare, mettere alla
prova il valore [morale] di un individuo. La virtù, infatti, ha come fine il
retto operare e la fuga dal disordine. È il concetto espresso in sintesi dal
salmista: «Evita il male e fai ciò che è bene» (Sal 33, 15). Così, l'uomo
è sottoposto a verifica, in entrambi i sensi.
Messo alla prova, si vedrà se un uomo è incline
ad astenersi da determinati beni (131). Puoi considerarti virtuoso se con la
debita prontezza fai quel che è giusto fare. Con questo intento Dio mette alla
prova la virtù di taluni giusti: non certo nel senso che egli ignori le loro
qualità, quanto piuttosto per renderle note agli altri uomini, additando i
primi quale esempio. Mise così alla prova [la fede di] Abramo e [la pazienza
di] Giobbe.
Questa ancora è la finalità in vista della
quale permette che i giusti siano tentati: affinché, sopportando essi
virtuosamente le tribolazioni, servano da modello, ed essi stessi crescano
ulteriormente in virtù. «Il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova affinché
si veda se lo amate, o no, con tutto il cuore» (Dt 13, 3).
Inoltre, l'umana virtù subisce il suo collaudo
dal contatto con il male. Se l'uomo resiste egregiamente, rifiutandosi di
accordare la propria adesione, si può dire che la sua virtù è stata grande;
in caso contrario, se egli cede, essa è inesistente.
Dio non tenta mai nessuno nella seconda maniera:
«Dio non cerca di sedurre nessuno al male» (Gc 1, 13).
Tuttavia l'uomo trova un simile incentivo nella
propria carne, oltre che da parte del diavolo e del mondo.
I. La carne ci sollecita al male nella sua
ricerca insaziabile di soddisfare i sensi, e spesso qui si annida il peccato. Se
non altro chi indugia nei godimenti del corpo trascura necessariamente le
esigenze dello spirito. Così «ognuno è adescato dalla concupiscenza che reca
in sé» (Gc l, 14).
Quasi non bastasse, le tentazioni della carne ci
stornano dal bene che, per innata tendenza, l'anima cercherebbe diletto nei beni
spirituali; appesantendola, la sensualità ne raffrena gli slanci. «Il corpo
corruttibile - leggiamo nella Scrittura - aggrava lo spirito» (Sap 9, 15), e
san Paolo, pur desiderando di restar sottomesso alla legge di Dio, sperimentava
un'attrazione da parte degli istinti corrotti, che cercavano in tutti i modi di
renderlo schiavo del peccato (cf. Rm 7, 22-23).
Questo tipo di tentazione proveniente dalle
nostre membra è quanto mai pericoloso, trattandosi di un'insidia che cova
dentro di noi. Boezio osserva in proposito che non esiste peggior flagello di un
nemico che si nasconda tra le pareti domestiche (132). Bisognerà vigilare e
pregare assiduamente (cf. Mt 26, 41).
2. Il diavolo poi è peritissimo nell'arte del
tentare. Se un uomo ha saputo respingere gli assalti della carne, ecco farsi
avanti un altro nemico - il Tentatore - contro cui il conflitto si fa ancor più
drammatico. La lotta coinvolge i «dominatori di questo mondo pieno di tenebre
[intellettuali e morali]» (133). Satana è indicato come «il tentatore» per
antonomasia (134).
Egli è, ripeto, astutissimo. Ricorre alla
tattica d'un consumato condottiero che, cinto d'assedio un castello, studia
quali siano i punti più vulnerabili delle mura. Così fa Satana, che porta la
tentazione dove sa che l'uomo è particolarmente indifeso. Nel caso di individui
che, ad esempio, abbiano acquistato l'autocontrollo sopra gli impulsi della
sensualità, li smuove mediante altre passioni, come l'ira, l'intemperanza nel
parlare e altri vizi che più da vicino interessano lo spirito, verso i quali
sono maggiormente proni.
Nel tentarci, il diavolo - che san Pietro
paragona a un leone avido di preda (cf. 1 Pt 5, 8) - agisce in modo accorto:
innanzitutto provvede a celare sotto una qualche apparenza di bene il fine
cattivo cui vorrebbe piegarci. In tal modo ottiene di smuovere quasi
impercettibilmente la volontà; dopo di che la seduce, ormai senza riparo.
Satana ha saputo, una volta di più, trasfigurarsi «in angelo di luce» (2 Cor
11, 14).
Quando la colpa è stata commessa, allora egli
afferra saldamente il peccatore impedendogli in tutte le maniere di rialzarsi.
Dapprima ci piega con l'inganno, quindi rinsalda la schiavitù del peccato.
3. Anche il mondo possiede svariati sistemi di
seduzione: da un eccessivo, smodato desiderio di beni temporali «Radice di
tutti i mali è l'amore al denaro» (I Tm 6, 10), al terrore esercitato da
tiranni e persecutori («Quelli che vogliono vivere secondo la dottrina di Gesù
Cristo, conosceranno la persecuzione») (2 Tm 3, 12). Ma non dobbiamo temere
coloro che sono in grado di far del male unicamente al corpo (cf. Mt 10, 28).
Finora abbiamo esaminato in che consista la
tentazione [e da quali e quanti nemici essa ci provenga]. Resta da sapere in che
modo l'uomo può superarla.
Cristo - si badi - non ci esorta a pregare di non
esser tentati, bensì di [aiutarci a] non soccombere alla prova. Difatti, se
l'uomo vince, è proprio in forza della tentazione superata che egli merita
d'esser premiato. «Stimate un motivo di gioia, fratelli miei - scrive
l'apostolo Giacomo -, l'imbattervi in prove d'ogni genere, ben sapendo che ciò
che mette alla prova la vostra fede contribuisce a rendere più ferma [e
meritoria] la vostra pazienza» (Gc I, 2). Già nelle pagine dell'antico
Testamento, il savio ammoniva: «Figlio, se ti impegni nel servizio del Signore,
disponi la tua anima alla prova» (Sir 2, 1), cui fa eco la beatitudine
enunciata da Giacomo: «Beato l'uomo che sopporta pazientemente una prova perché,
una volta collaudato, riceverà la corona della vita, che il Signore promise a
quelli che lo amano» (135).
La preghiera del Pater ci insegna a
chiedere d'esser assistiti, nel corso della prova, affinché non acconsentiamo
agli allettamenti del male.
Esser tentati - e Dio non permetterà che lo
siamo al di sopra di quanto un uomo [con in più il soccorso della grazia) possa
reggere (cf. 1 Cor 10, 13) -, esser tentati è conforme alla umana natura.
Diabolico è l'aderire ostinatamente all'errore.
Ma è mai possibile che Dio, stando alle parole
che diciamo («Non indurci in tentazione»), induca al male?
Si dice che Dio induce al male volendo intendere
che lo permette. Ciò risalta meglio nel caso di chiunque abbia abbondantemente
peccato. Dio sottrae la grazia [preveniente] e l'uomo cade ancor più in basso.
Possiamo adattare le parole del salmi sta: «Quando verranno meno le mie forze,
tu non mi abbandonare, Signore» (136).
Poi [Dio] sostiene l'uomo mediante il fervore
della carità: per quanto piccola, la carità può opporsi al peccato (137). E
lo sorregge col lume della retta ragione, per cui discerniamo il male dal bene.
Anche per Aristotele, infatti, chiunque erra, agisce con la mente in qualche
modo offuscata. Davide faceva bene perciò a implorare: «Dai luce ai miei
occhi, perché non mi addormenti nella morte e il mio nemico possa dire: 'L'ho
sopraffatto'» (Sal 12, 3-5).
Siamo esauditi grazie al dono dell'intelletto. E
non acconsentendo alla tentazione, serbiamo integro il cuore, meritando perciò
la visione di Dio. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8).
Il Signore - dopo averci
sollecitati a chiedere la remissione dei peccati e indicato in qual modo si
possano vincere le tentazioni -, c'insegna a chiedere d'essere salvati dal male.
Petizione di carattere quanto mai vasto, contro qualsiasi tipo di male: contro
il peccato [e le sue cause], le infermità [fisiche], le avversità e le
afflizioni [dello spirito], per citare Agostino.
Avendo già parlato delle prime due categorie,
adesso tratteremo delle contrarietà e delle altre cause di tormento, che l'uomo
sperimenta nel mondo. Dio ce ne può liberare in una di queste quattro maniere.
I. Impedendo che [avversità e tribolazioni] si
verifichino. Un caso assai raro, dato che quaggiù han da portare la loro croce
perfino i santi. «Quanti vogliono vivere fedelmente al seguito di Cristo Gesù,
saranno perseguitati» (2 Tm 3, 12). Talvolta - simile al medico che non
prescrive rimedi troppo violenti a un infermo eccessivamente debilitato -, Dio
concede la cessazione o il lenimento della prova, quando giudica un soggetto
incapace di resistere oltre. È il Padre che, come il Figlio di cui parla
l'apostolo Giovanni, può ripetere a ciascuno di noi: «So che le tue forze non
sono molte» (Ap 3, 8).
Un simile ristoro ci sarà per tutti gli eletti,
poiché in cielo il dolore è sconosciuto. «Egli ti salverà da sei
tribolazioni, e alla settima il male non ti toccherà» (Gb 5, 19). Le sei
tribolazioni possono prendersi quale simbolo delle sei età in cui può
dividersi la vita terrena (138). La settima età è l'esistenza eterna. Gli
eletti «non soffriranno più la fame né la sete» (Ap 7, 14).
2. Consolando [interiormente] nel mezzo delle
stesse afflizioni, altrimenti l'uomo finirebbe per soccombere. Anche san Paolo
narra d'essere stato oppresso oltre misura [nell'Asia proconsolare], al di sopra
delle sue forze, al punto da disperare perfino di salvare la vita (139); e
tuttavia, aggiunge: «Dio, che infonde coraggio ai miseri, ci consolò» (2 Cor
7, 6). Prima di lui era accaduto all'autore del salmo 93: «Quando son molte le
mie ansie interiori, le tue consolazioni rallegrano l'anima» (Sal 93, 19).
3. Concedendo agli afflitti una tale abbondanza
di beni, da far dimenticare loro le tribolazioni appena trascorse. «Tu,
Signore, dopo la tempesta fai tornare il sereno» (Tb 3, 22). Quand'è così, le
disgrazie e i patimenti terreni non sono tali da giudicarsi intollerabili, se
Dio ci dà, insieme, consolazioni di spirito; eppoi saranno sempre temporanee.
«La nostra tribolazione, momentanea e tollerabile [con l'aiuto della grazia],
ci procura un premio di gloria eterna al di sopra d'ogni misura» (2 Cor 4, 17).
4. Le tentazioni e gli affanni possono tramutarsi
in occasioni di un bene [maggiore]. Non diciamo [nel Pater] d'essere esentati
dalla tribolazione [cosa del resto impossibile], bensì: «liberaci dal male».
Le croci sono via che conduce alla gloria, e i santi, considerando che esse
potranno procurare loro la corona, si rallegrano al tempo delle tribolazioni. E
non solo producono un collaudo della virtù (cf. Rm 5, 3; Tb 3, 13) ma ci
ottengono la remissione delle colpe [precedentemente commesse] e delle pene.
In questi diversi modi, Dio libera l'uomo dal
male e dalle afflizioni; così facendo egli manifesta la sua sapienza giacché
è prerogativa del sapiente ordinare il male all'edificazione del bene. La
pazienza nelle prove realizza questo prodigio; infatti mentre le altre virtù si
esercitano sopra determinati beni (140), la pazienza aumenta nel [positivo]
confronto con il male. Quindi è tanto necessaria. «Dalla pazienza si conosce
il valore di un uomo» (Prv 19, 11).
Lo Spirito Santo, mediante il dono della
sapienza, ci induce a chiedere: «Liberaci dal male». Affrontando saviamente le
prove della vita arriveremo alla beatitudine, che qui incomincia [a gustarsi]
con la pace dell'anima. Grazie alla virtù della pazienza conosceremo la quiete
interiore sia nei momenti tranquilli, sia nei periodi dell'avversità.
Nella beatitudine evangelica i pacifici sono
detti «figli di Dio» (Mt 5, 9), in quanto rassomigliano a lui, conservandosi
imperturbabili tra le bufere dell'esistenza. «Beati i pacifici - dunque -,
perché saranno chiamati figli di Dio ».
L'amen (141), infine, sigilla - una per
una - le petizioni del Pater.
Volendo esporre in sintesi la preghiera del
Pater, basterà osservare che in essa sono elencate tanto le cose che l'uomo
deve desiderare, quanto quelle che dovremo e vorremmo evitare.
Tra le prime ci sono ovviamente quelle che
risultano più amabili per l'animo umano, e Dio al primo posto. Perciò trovi,
in apertura, la petizione riguardante la gloria di Dio: «Sia santificato il tuo
nome».
Ti deve star a cuore che Dio esaudisca tre [dei
tuoi molti] desideri:
che ti conduca alla vita eterna (e tu, per
questo, dici: «Venga [anche in me] il tuo regno»).
Che - in ordine a quanto ora detto - tu sappia
compiere la volontà divina; che è una vita ispirata alla giustizia: «Sia
fatta la tua volontà, come in cielo così in terra ».
Che non venga a mancarti quanto è necessario per
sostentare la tua esistenza terrena: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».
Gesù stesso riassume tutto ciò
nell'espressione: «Cercate prima di tutto il regno di Dio (e ti richiama alla
mente la prima domanda rivolta al Padre); [praticate] la sua giustizia, (è la
seconda) e tutte queste cose vi saranno date per giunta» (Mt 6, 33), (ed ecco
la terza).
Occorre poi fuggire da tutto ciò che non
realizza il bene che, innanzi tutto, è rappresentato:
dalla gloria di Dio, che nulla e nessuno potranno
impedire. Disse Elihùd a Giobbe, in proposito: «Se tu pecchi, che cosa fai
contro di lui? Se moltiplichi i tuoi delitti, gli rechi forse un danno? E se ti
comporti da giusto, che gli dai? cosa riceve, lui, dalla tua mano?» (142). Ed
è vero, nel senso che - sia che punisca, sia che premi - il male e il bene
tornano sempre a gloria di Dio (143).
Dalla vita eterna cui si oppone il peccato,
giacché ogni diritto a goderne si perde con la colpa [grave]. Per esserne
liberati, diciamo allora: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li
rimettiamo ai nostri debitori».
Dalla giustizia e dalle opere buone. Le
tentazioni infatti ci vorrebbero allontanare dal retto agire. Contro questo
pericolo, diciamo: «E non ci indurre in tentazione ».
Infine, abbiamo bisogno di altri beni (144), che
invece vengono a esserci sottratti dalle avversità e dalle tribolazioni.
Chiediamo così di esserne scampati, ripetendo le parole: «[ma] liberaci dal
male». Amen.
COMMENTO
AI DUE PRECETTI DELLA CARITA'
Per conseguire la salvezza, l'uomo deve conoscere
alcune nozioni di base: cosa credere, cosa desiderare e infine che cosa fare.
Alla prima esigenza ha risposto il Simbolo, che raccoglie gli articoli della
rivelazione; alla seconda, la preghiera del «Padre nostro»; e alla terza, la
legge [di Dio].
Partendo da questa indagine circa le cose che
bisogna praticare [in ordine alla salvezza], ci troviamo di fronte a quattro
tipi di legge.
Innanzitutto c'è la legge naturale, che altro
non è se non il lume della ragione di cui ci ha dotato il Creatore, e in base
al quale possiamo conoscere ciò che va fatto e ciò che invece dobbiamo
evitare.
Questa luce orientativa fu inserita nella natura
umana all'atto della creazione; e tuttavia molti credono d'essere scusati circa
l'inosservanza della legge appellandosi all'ignoranza della medesima. Il profeta
[Davide], dopo aver riportato ciò che essi dicono a propria discolpa («Chi ci
mostrerà il bene che dobbiamo fare?» (Sal 4, 6), risponde loro dicendo: «Su
di noi è impressa, o Signore, la luce della tua bontà» (Sal 4, 7): il lume
cioè della retta ragione. Nessuno infatti ignora che non è bene fare ad altri
quanto noi stessi non vorremmo subire, e norme fondamentali del genere.
Però, mentre Dio ci ha fatto dono della legge
naturale, in un secondo tempo il diavolo ha scatenato nell'uomo un'altra legge:
quella della concupiscenza (145). Fino a quando l'anima dei nostri progenitori
rimase soggetta a Dio e ossequiente ai divini precetti, anche la parte fisica
dell'uomo restò sottomessa ai dettami della ragione. Allorché,
suggestionandolo (146), il diavolo distolse l'uomo dall'osservanza del volere di
Dio, anche la carne si ribellò allo spirito (147). E da quel momento accadde
che, pur desiderando di compiere il bene indicatogli dalla riflessione, l'uomo
si sente tuttavia spinto dalla concupiscenza a muoversi in senso opposto. Era il
lamento di san Paolo: «Secondo l'uomo interiore, provo diletto nella legge di
Dio; ma vedo nelle membra un'altra inclinazione che lotta contro la legge della
mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra»
(148).
Si spiega così perché tanto spesso
l'impeto della sensualità rende vana la voce della coscienza, ossia la corretta
valutazione di ciò che è bene e di ciò che è male.
In tale stato di cose si rendeva necessario
un recupero della persona umana; e ai fini di allontanare l'uomo da una condotta
viziosa, la legge promulgata dalla Scrittura fu quanto mai opportuna.
Ricorderemo in proposito che egli può
essere distolto dal malaffare, e indotto al bene, attraverso due metodi: o
quello del timore, o quello dell'amore.
Difatti il deterrente più efficace per
strappare un individuo dal peccato è la paura dell'inferno [che accoglierebbe
il peccatore] dopo l'estremo giudizio. «Principio di saggezza è il timor di
Dio» (Sir I, 16) giacché scaccia la tentazione del peccare (cf. Sir I, 27).
Sebbene non possa considerarsi senz'altro un giusto colui che evita di incorrere
in colpa per il solo timore dei castighi, tuttavia la sua riabilitazione prende
di qui l'avvio.
Questa era la prassi attraverso cui, nella
legge mosaica (149), l'uomo veniva dissuaso dal crimine e invogliato a vivere
onestamente. I suoi trasgressori potevano essere condannati a morte; infatti «se
uno vìola la legge di Mosè (150), sulla deposizione di due o tre testimoni è
messo a morte senza misericordia» (Eb 10, 28).
Ma un tale modo d'agire è insufficiente, sicché
la legge data tramite Mosè rimase valida per un certo periodo. Se arrivava a
frenare la mano, non riusciva a dominare nell'intimo l'attaccamento al male.
Vi è però un'altra possibilità d'intervento:
quella da parte dell'amore. Tale è la legge di Cristo: la legge della carità
evangelica.
Varie le differenze tra legge dell'amore e legge
del timore. Questa rende servile 1'animo di chi la osserva, mentre la prima crea
degli uomini liberi (151). Chi si comporta bene soltanto per paura del castigo,
si comporta da servo; chi si ispira all'amore fa invece come i figli, come
l'uomo che sia padrone delle proprie azioni (152). «Dove è lo spirito del
Signore, ivi c'è libertà» (2 Cor 3, 17).
Altro contrasto tra le due leggi l: chi osservava
i precetti della legge mosaica otteneva per ricompensa determinati beni
temporali (153). Vedi ad esempio, in Isaia: «Se sarete docili e ubbidirete
[dice il Signore], potrete godere delle risorse del paese» (Is I, 19), ma chi
praticherà gli insegnamenti del vangelo avrà la sua porzione di beni celesti.
Osservando i precetti della legge e della carità entreremo nella vita eterna (cf.
Mt 19, 17); con l'avvento del regno dei cieli anche la penitenza dovrà
ispirarsi all'amore.
La terza differenza sta nel fatto che ogni legge
basata sul timore è gravosa. Durante il concilio di Gerusalemme, Pietro
scongiura la frangia giudaizzante di non voler imporre «sul collo dei fratelli
un giogo che né i nostri padri, né noi abbiamo potuto portare» (154), mentre
dal canto suo Paolo, scrivendo ai fedeli di Roma, ricorda loro come non abbiano
ricevuto uno spirito che rende schiavi, che li condurrebbe a un rapporto di
timore nei confronti del Padre (cf. Rm 8, 15).
Dunque, sono quattro le leggi sotto cui può
trovarsi l'uomo: della ragione naturale, della concupiscenza, dell'A. T. e
infine la legge della carità - o della grazia - predicata da Cristo.
È chiaro che non tutti possono dedicarsi agli
studi [lunghi e severi]; per questo la legge di Cristo è quanto mai breve;
chiunque può con facilità ritenerla a mente e nessuno ritenersi scusato, se
non l'osserva, adducendo il motivo che si tratta di una legge complessa.
Estremamente semplice, la legge divina dell'amore
costituisce la norma di qualunque atto umano. Nel campo dei manufatti,
giudichiamo ben riuscito quello che meglio corrisponde alle caratteristiche del
relativo progetto; in maniera analoga, un'azione umana è definita retta,
virtuosa, quando concorda con le regole dell'amore divino; al contrario, quella
stessa azione non è classificabile come buona, retta e ordinabile alla
perfezione nella misura in cui si discosta dalla suddetta norma. Le scelte
umane, per esser chiamate davvero buone, devono concordare con la regola della
carità.
Nell'uomo che la osserva, essa produce quattro
effetti, assai desiderabili.
I. La carità [che ispira la nuova legge di
Cristo] accende nell'uomo una vita spirituale. Infatti chiunque ama ha come in sé
la cosa o la persona amata; e quindi se amiamo Dio, abbiamo Dio in noi stessi:
«Chi sta nell'amore sta in Dio, e Dio sta in lui» (I Gv 4, 26).
L'amore ha poi la proprietà di assimilare colui
che ama all'oggetto di tale amore, sicché se amiamo realtà vili e caduche
finiamo col divenire noi stessi meschini e insicuri. Era quanto lamentava Osea:
«[I figli d'Israele, deportati in esilio] diventarono abominevoli come
l'oggetto delle loro brame» (Os 9, 10). Amando Dio invece siamo quasi
divinizzati poiché «chi s'unisce al Signore, diventa un solo Spirito con lui»
(I Cor 6, 17).
Sant' Agostino precisa che come l'anima dà vita
al corpo, così Dio è vita [soprannaturale] per l'anima stessa. Dicendo che un
corpo è vivo, intendiamo attribuire ogni suo movimento, ogni operazione,
all'influsso dell'anima, tant'è vero che non appena essa si distacca dal corpo,
quest'ultimo cessa qualunque attività.
Similmente, l'anima opera nel migliore dei modi
allorché attua le varie virtù in forza della carità, mediante la quale Dio
abita in lei. Mancando la carità, l'anima non compie nulla di [validamente]
virtuoso. Anzi, «chi non ama rimane nella morte» (I Gv 3, 14).
Uno potrebbe possedere anche tutti i doni dello
Spirito: ebbene, se non ha insieme la carità, costui non ha la vita divina.
Questa non può esserci trasmessa dal dono delle lingue (155) né da quello
della fede (156) o da qualsiasi altro carisma. Un cadavere rimane tale anche se
lo si riveste d'oro e di pietre pregiate. La vita soprannaturale, dunque, è il
primo risultato del rapporto affettivo tra noi e Dio.
2. Essa poi rende possibile l'osservanza dei
precetti divini. Secondo che scrive san Gregorio, «l'amore di Dio non è mai
ozioso»: chi lo possiede compie grandi cose, altrimenti è segno che la carità
in lui è estinta. Manifesto indizio che amiamo Dio è la sollecitudine che
poniamo nel fare la sua volontà. Ogni innamorato è felice di compiere cose
grandi e difficili per la persona amata. Quindi, se uno ama Gesù ne osserva la
dottrina (cf. Gv 14, 23). E si badi: chi adempie il precetto fondamentale della
legge divina che è la carità, costui ha onorato l'intera legge. I precetti di
Dio sono infatti di due specie: taluni positivi (157), ed è la carità che ce
ne ispira l'osservanza dal momento che solo l'amore verso Dio può render
possibile il rispetto della legge in cui si articola compiutamente il suo
volere. Altri invece sono proibenti, e ancora una volta è la carità a
sostenerci [nelle delicate e molteplici relazioni col nostro prossimo] (158).
3. La carità costituisce un valido presidio di
fronte alle avversità: chi la possiede non resterà danneggiato ma,
all'opposto, trarrà profitto dalle stesse sventure. Ce lo ricorda san Paolo: «Ogni
cosa concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28); anzi - a chi ama
davvero - perfino le cose avverse e difficili appaiono quasi soavi, ed è
un'esperienza che ognuno può far da sé (159).
4. Conduce alla felicità, essendo l'eterna
beatitudine una promessa serbata per chi avrà vissuto nella pratica della carità.
Tutto il resto non conta, se manca l'amore soprannaturale (160). Ormai prossimo
al martirio, l'apostolo Paolo confidava di poter ricevere la corona che il
Signore, giudice giusto, darà nell'ultimo giorno «a tutti quelli che avranno
vissuto con amore l'attesa della sua venuta» (2 Tm 4, 8).
La beatitudine sarà concessa in grado maggiore o
minore, in rapporto al grado di carità e non alla perfezione con cui poté
essere praticata un'altra virtù. Tanto è vero che si potrebbero citare non
poche persone che condussero una vita di maggior astinenza rispetto agli
apostoli, eppure questi sorpassano chiunque altro nel grado di beatitudine
avendo superato ciascuno di noi per l'ardore della carità, essi che - come
Paolo scrisse ai romani - godettero per primi dei doni dello Spirito (161).
Questi i principali vantaggi che derivano
dalla pratica della carità; ma ve ne sono anche altri, che è bene non
trascurare.
5. Chi ottiene la remissione dei peccati. Lo
sappiamo tutti che se uno ha offeso una persona ma poi comincia a volerle bene
di cuore, certamente sarà perdonato. E lo stesso fa Dio verso i peccatori,
appena cominciano ad amarlo. «La carità riesce a nascondere un gran numero di
peccati» (I Pt 4, 8; cf. Prv 10, 12), quasi che Dio non volendo punire chi
adesso lo ama, distolga lo sguardo dalle precedenti mancanze. E non ne nasconde
solo «un gran numero», ma la totalità delle colpe che una persona abbia
potuto commettere; e l'esempio più lampante lo vediamo nel caso della
Maddalena. Di lei disse il Signore: «I suoi tanti peccati sono stati rimessi,
poiché costei ha molto amato» (Lc 7, 47).
Qualcuno potrebbe pensare: «Allora, per ottenere
il perdono dei miei peccati basta la carità: non c'è bisogno di ricorrere alla
penitenza». E un fatto però che nessuno ama davvero, se davvero non si pente.
Cioè, quanto più amiamo qualcuno, tanto più ci rattrista l'idea di averlo
potuto offendere: e questo è segno di carità.
6. La carità illumina il nostro spirito. Tutti
noi, secondo l'espressione di Giobbe «siamo avvolti dalle tenebre» (Gb 37,
19): assai spesso non sappiamo se sia bene ciò che vorremmo fare od ottenere,
ed ecco la carità che ci insegna quanto è veramente necessario in ordine alla
salvezza. Questo è il senso delle parole di Giovanni: «L'unzione dello Spirito
vi farà lume, in ogni questione» (I Gv 2, 27). Dov'è lo Spirito Santo c'è
anche viva la carità; ed egli, l'Onnisciente, ci condurrà per la via maestra (cf.
Sal 138, 24; cf. Sal 142, 8). Raccomanda inoltre il libro del Siracide: «Voi
che temete il Signore amatelo, e la luce splenderà nei vostri cuori» (Sir 2,
10).
7. Conferisce pienezza alle gioie dell'uomo.
Nessuno può illudersi di conoscere la felicità se non vive nell'amore di Dio.
Chi infatti desidera una cosa, non si rallegra né si dà pace finché non
l'abbia acquistata, ma mentre nelle cose temporali accade che le bramiamo quando
non si posseggono e poi invece cominciamo ad averle in uggia, il contrario
succede coi beni dello spirito. Chi ama Dio, lo possiede: per questo l'animo di
colui che lo ama e desidera amarlo ancor più trova, in questo moto dell'anima,
il proprio riposo. «Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui» (I Gv 4,
16).
8. Produce, in altri termini, una pace perfetta.
Come si era detto, nelle cose terrene, così spesso bramate, l'animo non trova
requie per averle ottenute: avuta una cosa, subito ne vorrebbe un'altra. Il
nostro cuore somiglia spesso a quel mare in tempesta di cui parla l'agiografo:
«un mare che non può calmarsi, i cui Rutti rigettano schiuma e fango» (Is 57,
20). Non ci sarà pace per chi non ha Dio nel proprio cuore (cf. Is 57, 21).
Chi invece lo ama, gusta una profonda pace. «Gran
pace ha chi ama la tua legge, e non teme inciampi» (Sal 118, 165). Dio soltanto
basta a riempire ogni nostro desiderio, Dio che è ben più vasto del nostro
cuore (cf. I Gv 3, 20). «Ci hai fatti per te, Signore - esclama Agostino -, e
il nostro cuore sarà inquieto finché non si riposa in te». Egli che, leggiamo
nel salmo, «sazierà di bene le tue brame» (Sal 102, 5).
9. Infine, la carità comunica all'uomo una
superiore dignità. Tutte le creature, certo, rendono testimonianza alla maestà
del Creatore come le opere artificiali sono soggette al loro artefice. Con
questa differenza però, che la carità rende l'uomo, da servo che era, libero e
amico di Dio, sulla parola del Signore: «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv
15, 15).
Si dirà: «Ma come, Paolo non fu servo di
Cristo?». E anche gli altri apostoli si firmavano con questo appellativo.
Bisogna allora sapere che si danno due generi di servitù: una è basata sul
timore, penosa e non meritoria. Astenersi dal peccato soltanto per paura di
doverne pagare le conseguenze non dà certo diritto a un premio, ed è
comportamento servile. Diverso il caso di chi agisce bene non per timore della
giustizia ma per l'amore che si porta a Dio; questo è il comportamento della
persona interiormente libera. Se il Signore non ci vuol chiamare servi, ciò
deriva dal fatto che siamo stati oggetto di soprannaturale adozione (162). Il
timore dunque non può convivere con la carità filiale (cf. I Gv 4, 18), che ci
trasforma in figli di Dio (cf. I Gv 3, 1).
Un estraneo, infatti, viene assunto al rango di
figlio adottivo allorché gli venga concesso il diritto all'eredità; nel caso
nostro, amando acquistiamo il privilegio di aver parte alla stessa eredità di
Dio, che è l'eterna vita. Ne parla l'apostolo Paolo: «Siamo figli di Dio,
quindi ne siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi con Cristo, se però
soffriamo con lui, per essere con lui glorificati» (Rm 8, 16-17). E il libro
della Sapienza riferisce lo stupore degli empi nel vedere glorificato e a testa
alta il giusto, da essi tante volte deriso: eccolo annoverato tra i figli di Dio
(cf. Sap 5, 5).
Ormai dovrebbero essere evidenti i vantaggi
derivanti dalla carità, da indurci a far di tutto per acquistarla e tenercela
cara.
Non è tuttavia impresa che un uomo possa
condurre avanti con le sole sue forze: essa è dono esclusivo di Dio, che - come
scrive san Giovanni - «per primo ci ha amati» (I Gv 4, 10). Non possiamo certo
affermare che egli ci abbia amato dopo essere stato oggetto d'amore da parte
nostra, dal momento che questa medesima capacità di riamarlo ci proviene da
lui.
Inoltre, sebbene ogni dono di cui godiamo tragga
origine dal «Padre della luce» (Gc 1,17), questo in particolare si rivela
eccellente. Difatti altri doni potremmo averli pure disgiunti dalla carità e
dalla presenza in noi dello Spirito, ma chi vive nella carità ha
necessariamente in sé lo Spirito Santo. «L'amore di Dio – così l’Apostolo
- è stato diffuso con abbondanza nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è
stato dato» (Rm 5, 5). Invece [ripeto] il dono delle lingue o delle scienze o
delle profezie può aversi anche senza lo Spirito o la grazia [santificante].
Quantunque sia un dono divino, per ottenere la
carità occorrono da parte nostra le debite disposizioni: più precisamente, due
per acquisirla, altre due per custodirla.
I. L'ascolto diligente della divina parola, come
del resto accade nell'ordine naturale delle cose: sentendo parlare bene di
qualcuno, siamo portati a volergli bene anche noi. Alla stessa maniera,
ascoltando la Parola ci sentiremo presi dall'amore, tanto più che si tratta di
un linguaggio capace più d'ogni altro d'infiammare il cuore degli uomini (cf.
Sal 118, 140; cf. Sal 104, 19). Perciò i due discepoli [sulla strada di Emmaus]
si dicevano l'un l'altro: «Non sentivamo arderci il cuore, qua dentro, mentre
ci parlava per la via, spiegandoci le Scritture?» (Lc 24, 32). Lo stesso
effetto si rileva dagli Atti, che cioè Pietro ancora non aveva finito di
parlare «e lo Spirito Santo scese sopra quelli che lo ascoltavano» (At 10,
44). E qualcosa di simile può succedere tutt'oggi durante le prediche: la gente
che vi si era accostata col cuore indurito, poi si trova ad ardere d'amore verso
Dio, nel contatto con la sua Parola...
2. È poi necessaria una continua riflessione,
che aiuti il fuoco a divampare nell'intimo (cf. Sal 38, 4). Dunque, se desideri
bruciare di amore verso Dio, medita gli innumerevoli benefici che Dio ti ha
elargito (163). Mostrerebbe di possedere un animo del tutto insensibile una
persona che, ripensando ai doni avuti, ai pericoli da cui fu miracolosamente
scampata e, infine, alla beatitudine che Dio le promette, non si sentisse ardere
di carità... Durezza d'animo dell'uomo che, pur non mettendo ostacoli
all'iniziativa divina, neppure si sforza di ricambiare con la riconoscenza. Ma
in generale, come i sentimenti perversi distruggono la carità, così i buoni
pensieri ce la procurano, la nutrono e difendono. Dunque, «fate cessare le
vostre cattive azioni dai miei occhi» (Is I, 16), raccomanda il Signore, mentre
nel libro della Sapienza ci vien ricordato che «i pensieri malvagi allontanano
da Dio» (Sap I, 3).
3. Ad aumentare la carità che già si possiede
contribuisce il distacco del cuore dai beni terreni. Esso non può occuparsi
interamente di realtà tra loro contrapposte: nessuno cioè potrà mai amare
insieme e Dio e il mondo. Quindi, nella misura in cui l'anima si libera
dall'attaccamento per le cose di quaggiù, tanto più si consolida nella
predilezione per la vera carità. Scrive sant'Agostino che è veleno per la
carità ogni prospettiva d'entrare in possesso o di starsene attaccati ai beni
temporali, mentre tale virtù trae alimento dalla diminuzione della cupidigia;
essa trova la suprema perfezione nella totale rimozione di ogni bramosia, poiché
questa è la radice di tutti i mali.
Dunque, chi desidera nutrire la carità, si
ingegni di imbrigliare le proprie voglie mondane.
Cos'altro è la cupidigia, se non il desiderio
sfrenato di accumulare beni temporali? Questa tendenza comincia a esser
contenuta dal timor di Dio; ma non è che l'inizio, poiché Dio va amato quanto
merita. Funzione d'ogni forma di culto è di sottrarre l'animo umano alla
tirannia dei beni mondani, corruttibili, per elevarlo verso le realtà divine.
È un concetto, questo, ben simboleggiato nella storia dei Maccabei: «Il sole,
che prima era oscurato dalle nubi, fece brillare i suoi raggi» (2 Mac I, 22).
L'intelletto nostro è simile al sole nascosto dietro le nuvole, finché sta
immerso nelle cose transitorie; prende a rifulgere non appena lo si sottrae e
allontana dagli amori terreni. Allora splende, allora sfolgora compenetrato
dall'amore di Dio!
4. Infine, ad aumentare la carità contribuisce
la fortezza di fronte alle avversità. È noto a chiunque infatti che, quando
accettiamo di portare il peso della tribolazione per amore di qualcuno, quel
sentimento che ci ha sostenuti viene a esserne rinforzato. Le «grandi acque»
di cui parla il Cantico dei Cantici - ossia le più varie tribolazioni -
«non poterono spegnere l'amore, né i numi sommergerlo» (Ct 8, 7).
Per questo, i santi che sopportano le prove della
vita per amore di Dio, ne escono rinvigoriti, con una carità più accesa, un
po' come l'artista che predilige l'opera su cui maggiormente si è affaticato.
In modo analogo, quanto più han da soffrire per mantenersi fedeli a Dio nelle
angustie, di tanto i giusti si elevano nella scala della carità. Può
applicarsi loro l'espressione biblica: «Le acque crebbero e sollevarono l'arca,
la quale si alzò al di sopra della terra; ingrossarono e crebbero ancora... e
l'arca galleggiava alla superficie. Andarono ancor più aumentando... di modo
che tutte le montagne che sono sotto il cielo furono coperte... Non scampò che
Noè con quelli che erano insieme a lui nell'arca» (Gn 7, 17). Ebbene, «l'arca»
- si intenda la Chiesa o l'anima del giusto - rimarrà a galla sotto
l'imperversare delle prove, grazie proprio alla carità.
Cristo, poco prima di offrirsi in sacrificio,
interrogato dai dottori della legge su quale fosse il primo e principale
comandamento, rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con
tutta l'anima tua e con tutta la tua mente: è questo il più grande, il primo
dei comandamenti» (Mt 22, 37).
E davvero questo è il massimo, più nobile e
utile tra tutti, come facilmente si rileva da quanto premesso. Dalla sua
osservanza risulteranno adempiuti anche gli altri precetti.
Ma affinché l'adempimento della prima norma
possa dirsi perfetto, devono concorrere quattro elementi.
I. Innanzitutto vanno tenuti nella debita
considerazione i divini benefici, dato che ogni cosa - l'anima, il corpo, i beni
esteriori - l'abbiamo ricevuta da Dio. Quindi è giusto che usiamo di questi
doni per il suo servizio, riamandolo di cuore. Troppo ingrato sarebbe l'uomo
che, cosciente d'essere stato beneficato, non ama il benefattore. «Tutto da te
proviene, e noi altro non facciamo che restituire ciò che ricevemmo dalle tue
mani», così Davide ringrazia Dio, nel libro delle Cronache (I Cr 29, -14). Un
modello di riconoscenza lo trovi anche nelle parole del Siracide: «[Davide] di
tutto cuore lodò il Signore, e amò il Dio che l'aveva creato» (Sir 47, 8).
2. Altro requisito per una autentica osservanza
[del precetto d'amare Dio] è la considerazione della sua - assoluta superiorità:
egli è infinitamente più vasto del nostro spirito (cf. I Gv 3, 20); per cui
anche quando l'avremo servito con il massimo impegno, non avremo saldato ancora
il debito per intero. Ci raccomanda la Scrittura: «Esaltate il Signore quanto
più potete, perché sarà sempre al di sopra della vostra lode. Nell'esaltarlo
raddoppiate il vostro slancio, e non vi stancate, poiché mai giungerete a
dargli una lode che sia degna di lui» (Sir 43, 32-33).
3. Bisogna poi rinunziare [alla priorità data]
ai beni terreni, poiché reca non piccola ingiuria a Dio chiunque lo abbassi al
livello di una cosa creata. Preso dallo sgomento, chiedeva il profeta: «A chi
lo avete paragonato, Dio?» (Is 40, 18). Eppure è proprio quel che tentiamo di
fare ogni volta che vorremmo amare, a un tempo, e Dio e le cose temporali,
corruttibili; ma è pretesa assurda, a proposito della quale si può ripetere:
«Il letto è così angusto che uno dei due dovrà cadere, e la coperta corta
non può bastare a coprire l'uno e l'altro» (Is 28, 20). E il cuore umano che
qui è paragonato a quel giaciglio troppo stretto e a quella coltre
eccessivamente piccola; e lo è veramente. Quando nel tuo cuore alloggi
qualcos'altro al posto di Dio, è lui che ne scacci. Egli non tollera di trovare
nell'anima qualcosa o qualcuno a fargli concorrenza; somiglia in ciò a uno
sposo che non ammette altri amanti accanto alla propria donna. Dice in proposito
egli stesso: «Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 20, 5).
4. Infine, per un amore perfetto, è necessaria
la fuga totale dal peccato. Nessuno, infatti, che si trovi in colpa grave, può
amare Dio nel contempo. «Non riuscirete a servire a Dio e insieme le [inique]
ricchezze» (Mt 6, 24); e se siete caduti in peccato non potete affermare d'aver
amato Dio [col massimo impegno].
Isaia, che lo amava, poteva ripetere: «Ricordati,
Signore, te ne prego, che ho camminato fedelmente davanti a te, con cuore
sincero, compiendo ciò che è gradito ai tuoi occhi» (Is 38, 3). Elia [al
popolo sviato si dietro a Baal] poteva chiedere: «E fino a quando barcollerete
da entrambi i lati?» (I Re 18, 21). Simile allo sciancato, che oscilla ora da
una parte ora dall'altra, così il peccatore si abbandona al peccato e subito
appresso vorrebbe credere d'esser fedele a Dio. Dice bene il Signore, nel libro
di Gioele: «Ritornate a me con tutta l'anima» (Gl 2, 12).
Vanno contro il precetto [dell'amore verso Dio]
due categorie di uomini. Coloro che mentre evitano un genere di peccati -
mettiamo, la lussuria - ne compiono altri di diversa specie, come l'usura. Sono
riprovevoli, poiché «chi avrà mancato su un solo punto, contesta il valore
legale dei rimanenti» (Gc 2, 10) (164).
Poi vi sono quelli che manifestano i propri
peccati soltanto in parte, oppure un po' a un confessore e un po' a un altro.
Neanche questi sono da lodare, anzi peccano così facendo, dal momento che
vorrebbero ingannare Dio e mostrano poca riverenza nei confronti di cosa tanto
sacra. Qualcuno ha scritto in proposito: «E’ quasi un sacrilegio sperare da
Dio un perdono a metà», ed è sempre valido l'invito: «Davanti a lui effondi
il tuo cuore» (Sal 51, 9), ossia rivelati per intero nella confessione, senza
riserve.
Abbiamo mostrato finora come l'uomo debba darsi a
Dio integralmente. Vediamo adesso che. cosa donargli [in particolare]. Il cuore,
l'animo, la mente e le energie [fisiche]. Questo chiede il Signore: «Amerai il
Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente e
con tutte le tue forze» (Mt 12, 37).
Per cuore si intendono qui, le intenzioni. Il
loro influsso è tale da riguardare qualunque azione; sicché, ogni bene che
venga compiuto con intenti non retti, diventa cattivo: «Se il tuo occhio (e qui
sta per intenzione, sguardo interiore) sarà semplice, ne risulterà illuminato
tutto il corpo; se poi sarà perverso, tutta la persona risulterà ottenebrata»
(Lc 11, 34): l'insieme delle opere finiranno con l'essere intorbidite.
Perciò, qualunque cosa facciamo, la nostra
intenzione deve essere rivolta al Signore: «Sia che mangiate, sia che beviate,
fatelo per amore di Dio» (I Cor 10, 31).
Tuttavia la retta intenzione non è sufficiente,
dato che deve attuarsi con probità; è quello che qui indichiamo con il termine
di anima. Spesso, infatti, accade che uno faccia progetti [in se stessi]
rispettabili ma non per questo opportuni, mancando in essi l'onestà dei mezzi.
Metti il caso di uno che rubasse col proposito di sfamare i poveri: l'intento è
lodevole, mentre è immorale l'azione [con cui si vuole raggiungere lo scopo],
non potendosi giustificare alcun fine, per quanto buono, che debba realizzarsi
facendo ricorso a espedienti immorali. San Paolo ci invita a non imitare coloro
che pensano: «Facciamo [anche] il male, purché ne venga del bene» (Rom 3, 8).
E giusta, conclude l'Apostolo, una loro condanna.
Il buon volere è accompagnato dalla retta
intenzione quando concorda con la divina volontà, ed è ciò che chiediamo ogni
giorno: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (Mt 6, 10).
Così, in un salmo si legge: «Di me sta scritto nel rotolo [della Scrittura]
ch'io faccia la tua volontà. O mio Dio, è questo che io voglio, e la tua legge
l'ho come incisa nel cuore» (Sal 39, 19).
Ecco, dunque, il senso di quel «con tutta la tua
anima», giacché nella Scrittura l'anima è indicata col termine «volontà»;
vedi ad es.: «[Il giusto] vivrà di fede; se tornasse indietro, egli non
piacerebbe all'anima mia» (Eb 10, 8).
Talvolta, ancora, c'è la retta intenzione e il
buon volere, eppure nell'intelligenza può annidarsi qualcosa di peccaminoso.
L'intelletto quindi va sottomesso interamente a Dio, «facendo schiavo ogni
pensiero, riducendolo all'ubbidienza di Cristo», secondo che scrive san Paolo
(2 Cor 10, 5).
Molti, infatti, non peccano esteriormente, e
tuttavia si pascono di continuo d'oggetti malsani. Contro costoro ha parlato
Isaia: «Dalla vostra mente eliminate i pensieri perversi» (Is I, 16).
Vi sono altri che, confidando troppo in una
propria filosofia, ricusano d'assentire alla fede; la mente di tali persone non
accetta di assoggettarsi a Dio; quindi sono rivolte loro le parole dei Proverbi:
«Non basarti sulla tua saggezza» (Prv 3, 5).
E d'altronde neanche questa [ulteriore offerta
d'una parte del nostro essere] può bastare, poiché occorre dedicare al Signore
tutte le rimanenti energie. Dobbiamo dire: «Voglio riporre in te la mia forza»
(Sal 58, 10), diversamente da quelli che usano del proprio vigore per peccare, e
lo ritengono una manifestazione di potenza; li ammonisce il profeta: «Guai a
quelli che son bravi nel mescere il vino e valenti nel versare liquori che
inebriano» (Is 5, 22).
C'è pure chi ostenta bravura e forza nel far del
male al prossimo, mentre ciò dovrebbe servire per portare soccorso. «Libera
l'innocente che è condotto a morte; salvalo dal rischio d'essere ucciso» (Prv
24, 11).
È dunque evidente che la vera carità verso Dio
esige l'offerta delle intenzioni, della volontà, della mente e delle proprie
forze.
Alla domanda su quale dei precetti fosse il più
importante, Gesù diede due risposte: «Amerai il Signore, tuo Dio» (e di ciò
abbiamo parlato finora) e: «[Amerai] il prossimo tuo, come [ami] te stesso».
Chi li osserva entrambi, costui si dimostra osservante dell'intera legge, sulla
linea di san Paolo che afferma: «Tutti i comandamenti si compendiano in queste
parole: 'Amerai il prossimo tuo, come te stesso'. L'amore non fa del male al
prossimo. Il compimento della legge è dunque l'amore» (Rm 13, 9b-10).
Quattro cose possono condurci ad amare il
prossimo.
I. L'amore che portiamo a Dio, innanzitutto. Se uno
infatti dicesse di amare Dio mentre odia il proprio fratello, costui «è un
bugiardo» (I Gv 4, 20) alla stregua di chi, dopo aver affermato di voler bene a
una data persona, non avesse riguardo verso il figlio o il corpo di essa. E noi,
credenti nel medesimo Dio, siamo suoi figli [adottivi] e membra del corpo
[mistico] del Cristo. «Voi siete il corpo del Cristo insegna l'Apostolo -, e
sue membra, ciascuno con una sua funzione» (I Cor 12, 27). Ne segue che chi è
sdegnato col prossimo, non può dire di far cosa gradita a Dio.
2. L'espresso desiderio del Signore. Cristo,
infatti, in vista del suo ritorno al cielo, raccomandò ai discepoli, tra tutti
i precetti evangelici, quello dell'amore. Giovanni ne è testimone: «Questo è
il comandamento che più mi sta a cuore: che vi amiate scambievolmente, come io
ho amato voi» (Gv 15, 12). Chiunque odia un altro, non fa quanto Dio desidera,
mentre l'amore [nei confronti di chiunque] è la controprova d'una reale
osservanza della legge divina. Giovanni riferisce in proposito il pensiero di
Gesù: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore
gli uni verso gli altri» (Gv 13, 35). Non dice: «Vi crederanno miei imitatori
quando richiamerete in vita qualche morto, oppure quando compirete altri
grandiosi prodigi»; no, la dimostrazione più evidente sarà solo questa: «Se
cercherete di trattarvi con amore scambievole». Meditando su queste parole del
Signore, Giovanni scriveva nella sua prima lettera: «Sappiamo che siam passati
dalla morte alla vita». E il motivo? «Perché amiamo i nostri fratelli. Chi
non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello, è un omicida»
(1 Gv 3, 14).
3. Ci
sospinge ad amarci, inoltre, la comunanza nella stessa natura, in base alla
quale gli uomini, come del resto gli altri esseri viventi (cf. Sir 13, 19),
devono beneficarsi vicendevolmente. L'odio, di conseguenza, non soltanto va
contro la volontà di Dio ma anche contro la legge naturale.
4. E infine, l'utilità che ne deriva, poiché in
forza della carità i beni dell'uno diventano utili a un altro; ed è sempre la
carità che unisce i cristiani facendone una Chiesa, nella più ampia comunione
di tutto ciò che è buono. Più del salmista, noi possiamo ripetere: «Sono il
compagno di tutti quelli che ti temono, [Signore], e osservano i tuoi voleri» (Sal
118, 63).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso».
Questo, dell'amore del prossimo, è il secondo precetto della legge di Dio. Fin
qui si è visto quanto debba estendersi questo amore; resta adesso da vedere la
maniera in cui conviene esprimerlo: e già vi accenna quel «come te stesso».
Possiamo fare al riguardo ulteriori
considerazioni.
Ameremo davvero il prossimo come amiamo noi
stessi, allorché potremo dire di volere il suo bene, e non il nostro [a sue
spese]. Vi sono tre specie di amore, delle quali le prime due solo apparenti.
Una si ha quando amiamo in vista di un guadagno. «Vi è l'amico che ti è
compagno a mensa, ma non lo trovi più nei giorni della sventura» (Sir 6, 10).
Non c'è dubbio che in questo caso non possiamo parlare neppur lontanamente di
amore. Un semplice rapporto che [essendo basato sul tornaconto] cessa non appena
venga meno il proprio utile. Allora è evidente che non stavamo volendo bene al
prossimo, ma piuttosto a noi stessi.
Altra forma di amore apparente: quello che si
regge sul piacere, ed è falso quanto il precedente dato che cessa di esistere
appena l'amico non ci dà più gusto. Di nuovo, non era il bene la ragione
principale dei nostri rapporti, bensì la mia incontentabile avidità.
C'è però una terza forma di amore, fondata
sopra un nobile motivo, e solo quest'ultima merita il nome di amore. Amiamo in
tal caso il prossimo non in funzione nostra ma del suo stesso bene.
L'amore poi deve essere ben ordinato, sì da non
farci amare nessuna creatura al di sopra di Dio o alla pari con lui: il prossimo
va amato in conformità col divino volere, come del resto dobbiamo amare noi
medesimi. Di questa subordinazione il Signore fa cenno esplicito nel vangelo
secondo Matteo: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; e
chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10, 37).
Infine, il bene che vogliamo al nostro prossimo
deve essere concretamente efficace. Tu non ti ami soltanto a parole: ti dai da
fare per procurarti molte cose buone, e i fastidi li fuggi con altrettanta
sollecitudine. Bene, devi comportarti così anche verso il tuo prossimo. «Non
amiamo solo con la lingua, a parole, ma coi fatti e nella sincerità» (1 Gv 3,
18). Certo, ancora peggio fanno quelli che, cordiali all'apparenza, gli sono
nemici nell'intimo, simili a coloro di cui parla il salmista: «Parlano di pace
col prossimo, mentre covano malvagità in cuore» (Sal 27, 3). La vera carità
non ammette finzioni (cf. Rm 12, 9).
E bisogna essere perseveranti nell'amare gli
altri, come non ci stanchiamo [troppo facilmente] di noi stessi. Ci ricorda la
Scrittura che «l'amico ama in ogni tempo»: tanto nel momento delle avversità
quanto in quello della prosperità; anzi è proprio nel sopraggiungere delle
prime che egli si rivela: «nelle angustie potrai verificare la sua fraternità»
(Prv 17, 17).
Per serbare a lungo un'amicizia sarà bene tenere
a mente due utili norme. Pazienza prima di tutto; infatti «carbone sulla brace
e legna sul fuoco, tale è il litigante nell'eccitare la rissa» (Prv 26, 21).
Quindi umiltà, che fa essere pazienti. L'orgoglioso invece non fa che suscitare
litigi (cf. Prv 13, 10); col suo credersi al di sopra di tutti e guardare gli
altri dall'alto in basso, non può sopportare i difetti.
Il prossimo va amato conforme alle esigenze della
giustizia e della santità, ossia eliminando ogni secondo fine peccaminoso: tu
stesso non potresti amarti sino a perdere - offendendolo - l'amicizia con Dio.
Il Signore ci invita a restare suoi amici (cf. Gv 15, 9), nella più tenera
affettuosità (cf. Sir 24, 24).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso». Un
concetto, questo, che giudei e farisei non riuscivano a intendere rettamente,
pensando che Dio comandasse, con l'amore verso gli amici, l'odio del nemico.
Sicché per loro era «prossimo» soltanto l'amico. Appunto tale errata
interpretazione volle disapprovare Cristo, dicendo: «Amate [anche] i vostri
nemici, fate del bene [anche] a chi vi odia» (Mt 5, 44).
Bisogna sapere che chiunque nutre dell'odio verso
un suo fratello, non contribuisce in tal modo alla propria salvezza: «chi pensa
d'essere nella luce e odia il fratello, è ancora nelle tenebre» (I Gv 2, 11).
Può costituire difficoltà il fatto che talvolta
i santi dichiararono la loro avversione per qualcuno. Ma il salmista parla di «un
odio estremo» che egli nutre verso i nemici del suo Signore, violenti o
bestemmiatori (Sal 138, 22). E Gesù medesimo afferma di non considerare suo
discepolo chi non sia disposto a preferire lui a chiunque altro (cf. Lc 14, 26).
In questa, come in qualunque situazione umana, il
comportamento del Cristo assume per noi valore di esempio. Egli ama nell'uomo ciò
che è radicalmente buono, ossia la natura nostra, mentre detesta ciò che
moralmente è riprovevole, le scelte non bene ordinate. Quindi se ci augurassimo
che qualcuno finisca all'inferno, certo avremmo in odio la sua natura; al
contrario, se c'è una cosa da odiare, questa è il peccato, e nutrire simile
ripugnanza equivale ad amare il prossimo. Anche il Signore detesta la cattiva
condotta dei malfattori (cf. Sal 5, 7); non aborrisce nulla di quanto ha creato
(cf. Sap 11, 25), nulla tranne il peccato.
Può succedere che taluno possa far del male ad
altri senza che ciò costituisca una colpa: allorché compie qualcosa di non
gradito al prossimo ma per il bene del medesimo. Dio fa altrettanto. Si dà il
caso di persone sviate che, colpite dalla malattia, ritrovano il giusto
sentiero; oppure il caso del malvagio che cambia vita passando dalla prosperità
alla sventura. Non di rado infatti il dolore fa ritrovare il senno (cf. Is 28,
19).
Altro caso: non pecchi se, animato dall'amore per
la Chiesa, desideri la caduta del persecutore: prima ti deve stare a cuore il
bene della Chiesa che non la vita di un tiranno. «In ogni cosa sia benedetto il
nostro Dio - dissero i Maccabei -, che ha consegnato [alla morte] gli empi» (2
Mac I, 17).
Questa avversione al male ciascuno di noi deve
non solo auspicarla, ma alimentarla concretamente. Ne è peccato l'esecuzione
capitale di un malfattore, dopo un equo processo (165); i giudici, secondo
l'espressione di Paolo, sono in tal caso «esecutori del potere di Dio» (166),
e non agiscono contro la carità dato che la condanna ha valore di castigo,
oppure serve a qualche finalità superiore. Vale infatti di più il bene di
un'intera città [liberata dall'iniquo dominatore ], che l'esistenza fisica di
costui.
Non basta d'altra parte astenersi dall'odiare il
prossimo, avendo noi l'obbligo di desiderare il suo vero bene, cioè che si
converta e possa conseguire anch'egli la vita eterna.
Due sono i modi: possiamo amare qualcuno in senso
generico, in quanto è creatura di Dio e potenziale candidato alla vita eterna;
più in particolare, possiamo amarlo se è nostro amico e nostro compagno di
fede.
Da un amore di fondo non possiamo escludere
alcuna persona: bisogna pregare per tutti ed esser pronti a beneficiare chiunque
si trovasse in estrema necessità. Non esiste invece un obbligo di trattare
familiarmente anche chi ti avesse maltrattato, a meno che non abbia chiesto di
perdonargli, ché in tal caso egli rientra nella cerchia degli amici. Se tu ti
rifiutassi, saresti uno che respinge chi ti vuol essere [di nuovo] amico.
Nel Vangelo puoi leggere che «se perdonate agli
uomini i loro falli, il Vostro Padre celeste perdonerà anche a voi; ma se voi
non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà i vostri peccati»
(Mt 6, 14-15); e, nella preghiera dettata dal Signore: «Rimetti a noi i nostri
debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 9).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso».
Abbiamo detto che, non concedendo venia a chi te la chiede, sei tu che pecchi, e
sai pure che una carità alla ricerca della perfezione ti spingerà a trovar la
maniera di riavvicinare l'offensore, benché tu non ne abbia il dovere. Per
indurti a fare questo passo, considera quante ragioni ne indicano la
convenienza.
I. La tutela della propria dignità. A ciascun
grado di nobiltà corrisponde una particolare insegna, e nessuno deve
rinunciarvi. La maggiore di tutte le dignità umane è quella d'essere figli di
Dio. Il blasone che ci distingue è precisamente l'amore esteso anche
all'avversario. «Amate i vostri nemici... affinché siate figli del Padre
vostro che sta nei cieli» (Mt 5, 44-45). Restringere l'affetto unicamente
all'amico non può essere la prova decisiva a favore della filiazione divina,
tant'è vero che anche i pubblicani e i pagani sanno farlo (cf. Mt 5, 46).
2. Il desiderio di vincere, che è qualcosa di
connaturato in ciascuno di noi. O tu conquisti alla causa dell'amore, mediante
la bontà, la persona che ti ha offeso (e allora sei tu a superarlo); oppure è
l'altro che riesce a coinvolgerti sul sentiero dell'odio, e tu perdi la
battaglia [assieme a lui]. Tu dunque «non lasciarti vincere dal male, ma vinci
il male col bene» (Rm 12, 21).
3. I vantaggi che ne derivano, come il farsi
degli amici. Ricordandoci che la vendetta spetta al giudice divino, l'apostolo
Paolo raccomanda: «Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete
dagli da bere, poiché così facendo radunerai carboni ardenti sopra la sua
testa» (167). Sant'Agostino prosegue: «Nessun invito più efficace all'amore,
che cominciare noi per primi a mostrare benevolenza. Nessuno sarà così
insensibile, per quanto deciso a non prender l'iniziativa di far la pace, da
respingere il buon esempio». Un amico che resta fedele anche se messo a dura
prova, si mostrerà impareggiabile (cf. Sir 6, 15); e quando il Signore ha
gradito la condotta di un uomo, gli riconcilierà perfino i nemici (cf. Prv 16,
7).
4. Le tue preghiere troveranno più facilmente
ascolto. Perciò, commentando il passo di Geremia: «Se si presentassero a me
Mosè e Samuele, ecc.» (Ger 15, 1) san Gregorio fa notare che questi due
personaggi son ricordati in particolare perché essi intercedettero per i propri
nemici (168). Anche Cristo lo fece, dicendo: «Padre, perdona loro» (Lc 23,
34), e così pregando, Stefano procurò alla Chiesa un vantaggio straordinario:
la conversione di Paolo.
5. Più facile risulterà la fuga dal peccato, il
che deve starci parecchio a cuore. Talvolta infatti pecchiamo, e ci scordiamo di
Dio; allora egli ci attrae a sé daccapo servendosi di una infermità o di
espedienti consimili. Pur di sospingerci sul retto sentiero, egli chiuderà coi
rovi della sofferenza ogni altro varco di cui parla Osea (cf. Os 2, 6). Così
Saulo divenne prigioniero del Cristo, e l'autore di un salmo si fa portavoce del
peccatore pentito: «Sono andato errando qual pecora smarrita: vieni in cerca
del tuo servo, o Signore» (Sal 118, 176), o, la sposa nel Cantico: «Prendimi
con te: corriamo!» (Ct 1, 3).
Ebbene, otterremo [più agevolmente] questo
risultato allorché, facendo il primo passo verso la riconciliazione, apriamo le
braccia verso chi si era reso nostro nemico. «Sarà usata per voi la stessa
misura di cui vi sarete serviti» (Lc 6, 38), e poco avanti: «Perdonate e
sarete perdonati» (Lc 6, 37), mentre Matteo ci annunzia la beatitudine della
misericordia: «Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia» (Mt 5,
7).
Non vi è misericordia superiore a quella di
offrire il perdono a chi ci abbia offeso.
1. «Non avrai altri dèi
oltre a me» (Esodo 20, 3)
S'è veduto che tutta la legge di Cristo è
basata sulla carità, e questa a sua volta si esprime compiutamente nei due
precetti dell'amore, verso Dio e verso il prossimo.
Consegnando a Mosè il decalogo, Dio gli presentò
due tavole di pietra, sulla prima delle quali erano incisi i tre precetti
relativi all'amore verso Dio, sulla seconda i rimanenti sette, relativi
all'amore verso il prossimo. L'intera legge, dunque, veniva riassunta nei due
obblighi fondamentali [della carità].
«Non avrai altri dèi».
Per comprendere il perché di questo primo
comandamento bisogna sapere che gli antichi violavano in vari modi tale diritto
[esclusivo del vero Dio].
Vi era chi rendeva un culto ai demoni. «Gli dèi
pagani sono spiriti malvagi» (Sal 95, 5), perciò questo è il peggiore e più
orribile dei peccati.
Ancora oggi sono in molti a trasgredire il primo
comandamento, ossia tutti coloro che si dedicano alle opere della magia per
indovinare il futuro, e ai sortilegi. Entrambe presuppongono, come osserva
sant'Agostino, un patto d'intesa col demonio. Anche Paolo raccomandava: «Non
voglio che voi siate in comunione coi demoni» (I Cor 10, 20); e, ancora: «non
potete partecipare alla mensa del Signore e a quella degli spiriti maligni» (I
Cor 10, 21).
Altri adoravano i corpi celesti, considerando gli
astri quasi altrettanti dèi. Vedi, nel libro della Sapienza: «Credettero dèi,
governatori del mondo, il fuoco o il vento o l'aria veloce, o il firmamento
stellato, o le acque violente o i luminari del cielo» (Sap 13, 2). Fu per
questo motivo che Mosè raccomandò agli israeliti di non starsene troppo a
osservare il firmamento, nel timore che finissero con l'adorare il sole, la luna
e le stelle. Ecco il testo: «Quando tu alzerai gli occhi al cielo e vedrai lassù
il sole, la luna e le stelle e tutti gli astri del firmamento, non ti lasciar
sedurre al punto di prostrarti davanti a tali creature per adorarle» (Dt 4,
19). Ribadisce lo stesso concetto anche in altro passo del Deuteronomio (cf. Dt
5, 7-8).
Contro il primo comandamento peccano gli
astrologi, i quali sostengono che gli uomini siano guidati dai corpi celesti
(169), mentre in realtà si tratta semplicemente di creature destinate a
servire. Soltanto Dio è il nostro signore.
Non son mancati neppure adoratori degli elementi
terrestri, gente che credette il fuoco, il vento o l'aria manifestazioni degli
spiriti invisibili (cf. Sap 13, 2). E cadono in un errore consimile quanti usano
dei beni inferiori, nutrendo per i medesimi eccessivo attaccamento. L'avaro ad
esempio è un idolatra (cf. Ef 5, 5).
Altri hanno adorato gli uccelli, oppure gente
come loro o magari se stessi, mossi da diversi motivi: un affetto carnale,
l'adulazione, là vana ostentazione di sé.
Leggiamo, quanto ai primi, nella Scrittura, che
«un padre grandemente afflitto per l'immatura morte del figlio, ne fece
riprodurre l'immagine, poi l'onorò come Dio mentre non era che un morto,
istituendo per i suoi un culto con proprie cerimonie. L'empia abitudine si
diffuse in seguito e s'osservò come legge» (Sap 14, 15).
Servi adulatori han reso un culto ad altri
uomini, venerandoli più che Dio stesso e non solo in loro presenza ma dinanzi a
immagini che li riproducevano (cf. Sap 14, 17). Il Signore ha avvertito: «Colui
che ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10, 37), e il
salmo 145 ci ammonisce: «Non riponete fiducia nei potenti, uomini [come voi]
incapaci di provvedere alla vostra salvezza» (Sal 145, 2-3).
Infine, spinti dalla presunzione certuni si
fecero chiamare «dèi», come si può vedere nel caso di Nabucodonosor» (170).
E in Ezechiele leggiamo, d'uno di essi: «Il tuo cuore si è inorgoglito e tu
hai detto: 'Io sono un dio, e abito nella dimora di un dio, nel cuore del mare'»
(Ez 28, 2). E qualcosa del genere fanno quelli che si attengono più alle
proprie idee personali che ai divini precetti. Praticano verso se stessi
un'autentica religione: nella continua ricerca di piaceri carnali, mostrano di
adorare come un dio il proprio corpo. È di essi che l'Apostolo ha scritto: «Il
ventre, per loro, è la divinità» (Fil 3, 19).
Da tutto ciò e da costoro dobbiamo tenerci
lontani.
«Oltre a me». Dobbiamo adorare esclusivamente
l'unico vero Dio. Ed eccone le ragioni.
I. La dignità di Dio. Anche nei suoi confronti,
così come succede tra noi, negandogli l'ossequio dovuto gli si fa ingiuria.
Chiunque occupi un rango elevato ha diritto a un particolare rispetto, tanto che
verrebbe considerato traditore del re quell'uomo che gli rifiutasse un atto di
riverenza.
Ebbene, vi sono taluni che si comportano così di
fronte a Dio [negandogli l'adorazione]. «Hanno sostituito la gloria di Dio
incorruttibile, con immagini di uomini mortali» (Rm I, 23), il che spiace a
lui, sommamente, avendo proclamato per bocca di Isaia: «Io sono il Signore;
questo è il mio nome: non darò la mia gloria a nessun altro, né agli idoli
l'onore che è dovuto a me» (Is 42, 8).
Uno dei punti su cui si fonda la dignità divina
deriva dalla sua onniveggenza; lo stesso suo nome sembra trarre origine dal
verbo «vedere», dal vedere tutto e tutti, prerogativa della deità. Il profeta
poteva perciò sfidare i falsi dèi: «Annunziate ciò che accadrà in avvenire,
e noi riconosceremo che siete dèi» (Is 41, 23). «Nessuna cosa al mondo sfugge
allo sguardo di Dio, ma tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui al quale
dobbiamo rendere conto» (Eb 4, 13).
Attentano a simile capacità che loro non compete
gli indovini; contro i quali dice Isaia: «Vi pare serio che un popolo debba
consultare qualcun altro che non sia il proprio Dio, e per i vivi interpellare i
morti?» (Is 8, 19).
2. Un ulteriore motivo di ossequio ce lo offre la
generosità del Signore. Da Dio ci proviene ogni bene. Egli è il munifico
creatore. «Tu allarghi la mano, e tutti sono provvisti di beni» (Sal. 3, 28).
Anche questa dote [universale] pare sia contenuta nel nome «Dio»: il donatore
per eccellenza, colui che riempie di bontà il creato.
Daresti a vedere di esser parecchio ingrato, se
non ammetti che tutti i beni ti provengono da lui; anzi finiresti per inventarti
un altro dio, come quegli israeliti che, rientrati dall'Egitto, si costruirono
un idolo. Andiamo dietro all'oggetto del nostro cuore (cf. Os 2, 5), imitando i
figli di Israele, ogni volta che riponiamo la speranza non in Dio ma in qualcun
altro. Invece «beato è l’uomo che fa assegnamento su Dio» (Sal 39, 5), e
l'apostolo Paolo interrogava in proposito i cristiani della Galizia: «Ora che
avete conosciuto Dio anzi, che siete stati amati e conosciuti da lui -, come
mai vi rivolgete di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, dei quali volete
ancora essere schiavi?» (Gal 4, 9-10).
3. La fedeltà alle promesse fatte. Noi abbiamo
rinunziato al diavolo, promettendo d'impegnarci solo dalla parte di Dio, e non
dobbiamo mancare di parola. Assai grave è il rischio che si incorre, secondo
che ricorda l'Apostolo: «Se uno viola la legge di Mosè, in base alla
deposizione di due o tre testimoni morrà senza alcuno scampo; quanto più
acerbi supplizi pensate voi che si meriti chi avrà calpestato il Figliolo di
Dio, e avrà tenuto come profano il sangue del testamento grazie al quale fu
santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito?» (Eb 10, 28-29). E aggiunge
che «una donna sarà chiamata adultera se, vivendo ancora il marito, essa
diventa la donna d'un altro» (Rm 7, 3) e secondo la legge mosaica costei
avrebbe meritato d'essere mandata al rogo. Perciò, stia attento il peccatore
che crede di poter battere due strade, che zoppica da entrambi i lati (cf. I Re
18, 21).
4. L'inclemenza del dominio diabolico,
adombrata nelle parole di Geremia: «Servirete giorno e notte ad altri dèi, che
non vi daranno requie» (Ger 16, 13). Il tentatore infatti non si contenta di
far cadere una sola volta ma, piuttosto, si ingegna di moltiplicare le cadute.
«Chi fa il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34), e san Gregorio
commenta: «L'errore che non vien cancellato dalla penitenza, presto ne trascina
altri con sé».
La sottomissione al Signore è ben diversa. I
suoi precetti non risultano opprimenti: «Il mio giogo è soave, [dice il
Signore] e leggero il mio peso» (Mt 11, 30). Può considerarsi abbastanza
soddisfatto l'uomo che prende a dedicarsi al servizio di Dio con l'assiduità
che poneva nel peccare.
Ai cristiani, Paolo rivolge questo appello: «Come
un tempo avete messo le vostre membra a servizio dell'impurità e dell'iniquità
per soddisfare le concupiscenze, così ora mettete le vostre membra a servizio
della giustizia, per raggiungere la santità» (Rm 6, 19.).
I servi del diavolo diranno invece: «Ci siamo
allontanati dalla via della verità... Ci stancammo, percorrendo le vie
dell'iniquità e della rovina, e attraversammo deserti impraticabili» (Sap 5,
7). Davvero, conclude Geremia, «si consumarono in una vita iniqua» (Ger 9, 5).
5. L'immensità del premio. Da nessun altro
vengono promesse ricompense sublimi come quelle derivanti dalla osservanza della
legge di Cristo. Ai musulmani si dice sian riservati fiumi di latte e di miele,
ai giudei una terra promessa, ma ai cristiani la stessa gloria degli angeli. «[Gli
eletti] saranno in cielo simili agli angeli di Dio» (Mt 22, 30). Tenendo
presente questa prospettiva, Pietro poté esclamare; «Signore, da chi potremmo
andare? Tu hai parole di vita eterna!» (Gv 6, 69).
2. «Non nominare il nome
del Signore tuo Dio invano» (Esodo 20,7)
Come non esiste che un unico Dio da adorare, così
ve n'è uno soltanto al quale dobbiamo il massimo rispetto. Il suo nome va
pronunziato con deferenza, mai vanamente. Ora, il termine vano può avere tre
significati.
Equivale in certi casi a falso; vedi ad es. il
salmo 11: «Ciascuno ha detto al suo prossimo cose che nascondevano inganni» (Sal
11, 3). Stai usando sconsideratamente il nome del Signore allorché vorresti
servirtene per rendere credibile un discorso fatto di bugie. «Non giurare il
falso, poiché io odio tutto questo, dice il Signore» (Zc 8, 17). E, ancora nel
medesimo profeta: «Tu morrai perché hai preferito menzogne nel nome del
Signore» (Zc 13, 3).
L'uomo insincero offende Dio, fa danno a sé
medesimo e agli altri.
Se infatti il giurare per Iddio è un chiamarlo a
testimone, quando tu giuri a giustificazione della falsità, o credi che egli
non conosca come stiano effettivamente le cose (e allora tu non lo consideri
onnisciente mentre tutto è aperto e chiaro dinanzi al suo sguardo (cf. Eb 4,
13); oppure supponi che egli possa sopportare la menzogna, proprio lui che l'ha
in abominio e punisce i bugiardi (cf. Sal 5, 7); o infine ti ritieni al sicuro
dalla sua collera, quasi che non ti possa punire come meriti.
Usando invano il nome di Dio l'uomo si fa del
male, condannandosi a subire il giudizio divino. Dire: «Ti assicuro, per Iddio,
che è come sostengo io!» altro non equivale che a: «Se sto mentendo, Dio farà
bene a punirmi»!
E arreca danno agli altri. Non è possibile
infatti che sussista tra le persone un rapporto durevole, se non su una base di
reciproca fiducia. Ma è appunto in caso di sospetto che si ricorre al
giuramento (cf. Eb 6, 16), sicché ne deriva in sostanza un'offesa a Dio, un
castigo di più per noi stessi e scapito per una serena convivenza.
Vano, in altro senso, sta per inutile. «Il
Signore conosce i pensieri degli uomini, e sa che sono inconcludenti» (Sal 93,
11). Quindi, se adoperiamo il suo nome a conferma di cose frivole, lo nominiamo
invano.
né per il cielo, perché è
trono di Dio; né per la terra, ché è sgabello dei suoi piedi» (Mt 5, 33-34).
E la ragione è semplice: nell'uomo non c'è parte che sia corriva a malfare
quanto la lingua: nessuno, come ha scritto Giacomo, potrà domarla perfettamente
(cf. Gc 3, 8); e potremmo esser portati con facilità a giurare solennemente
[senza motivo proporzionato]. «Il vostro parlare sia: sì, sì; no, no» (Mt 5,
37).
Rettamente inteso, il giuramento va usato come le
medicine: farvi ricorso quale rimedio davvero inevitabile. «Quel che v'è di più
[nei vostri discorsi), è ispirato dal Maligno» (Mt 5, 37). «Non avvezzare la
tua bocca al giuramento, né prender l'abitudine di pronunziare il nome santo...
Chi giura e nomina continuamente Dio, non rimarrà immune da colpa» (Sir 23,
9).
Il peccato [in genere] o l'ingiustizia vengono
talvolta indicati col nome vano. «Figli degli uomini, perché avete duro
il cuore e amate la vanità?» (Sal 4, 3). Così, una persona che giurasse per
compiere più agevolmente qualcosa di illecito, usa invano quel nome sacro.
Due sono le parti della giustizia: fare il bene,
astenersi dal male. Così, se tu hai giurato di compiere un furto o qualcosa del
genere, hai già violato la giustizia, e sebbene un simile giuramento non sia
vincolante, tu sei spergiuro. Fu il caso di Erode nei confronti di Giovanni
Battista (cf. Mc 6, 23, 26).
Ugualmente va contro la virtù della giustizia
chi con giuramento si impegnasse di non fare un determinato bene, come l'entrare
a far parte della Chiesa o di un Ordine religioso. Anche qui, pur non dovendosi
tener fede alla parola data, chi lo avesse giurato diverrà spergiuro.
In conclusione, non si deve giurare in assenza di
una causa proporzionata, né circa una materia illecita. Dice bene la Scrittura:
«Giurerai per la vita del Signore con sincerità, ponderatezza e giustizia» (Ger
4, 2).
Un ultimo possibile significato della parola vano
potrebbe aversi usandolo nel senso di sciocco. «Stolti per principio sono tutti
quegli uomini che vogliono ignorare Dio» (Sap 13, 1). Del pari, chi adopera il
nome di Dio stoltamente, come fanno i bestemmiatori, lo pronuncia invano. «E
chi avrà bestemmiato il nome del Signore, sia messo a morte» (Lv 24, 16).
«Non nominare il nome del tuo Dio invano». Del
nome divino, non si può fare un vario uso.
I. Come si è veduto, per dare maggior forza al
discorso, ossia nel giuramento. E un'implicita ammissione che Dio è la verità
per essenza, ed è allora una maniera di riconoscerne le prerogative: la legge
perciò prescriveva che, dovendosi giurare, lo si facesse chiamando Dio a
testimone (171). Non sbaglia quindi chi, avendo a impegnarsi solennemente, si
appella ad altri. «Non giurate pronunziando il nome degli idoli» (Es 23, 13).
Ad ogni modo, anche nel caso che si giurasse su
una qualunque creatura, in fondo è sempre Dio a essere coinvolto. Giuri sopra
la tua vita, sulla tua testa? Bene: tu metti l'una o l'altra a rischio di subire
il castigo da parte di Dio. Ma [con tranquillità] l'Apostolo poteva scrivere:
«Io chiamo Dio in testimone contro la mia vita [se non ho detto la verità]»
(2 Cor 1, 23).
Altrettanto si dica quando giuri sopra il
Vangelo: giuri su colui che ne è l'ispiratore. Chiunque abbia l'abitudine di
giurare su Dio o su suo Vangelo con leggerezza, pecca.
2. Il nome santo può essere invocato per
santificare le cose. Lo facciamo nel conferire il battesimo, del quale san Paolo
dice: «[Eravate esclusi dalla eredità del regno di Dio, ma] siete stati
mondati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore
nostro Gesù Cristo» (I Cor 6, 11). Il sacramento riceve la propria efficacia
esattamente in forza dell'invocazione della Trinità. E Geremia invocava sul
popolo il nome del Signore (cf. Ger 14, 9).
3. Lo adoperiamo per scacciare l'Avversario.
Prima di somministrare il battesimo si procede alla rinunzia d'ogni rapporto con
il diavolo. Un tuo ritorno al peccato equivarrebbe al vano uso del nome
salvifico.
4. Usarlo [correttamente] è lo stesso che
enunciare la propria fede in Dio. «Come [i pagani] invocheranno uno in cui non
credono [per non averne sentito parlare]?» (Rm 10, 14). Invece «chiunque
invocherà il nome del Signore [con fede] sarà salvo» (Rm 10, 13).
La nostra dichiarazione di fede può essere
verbale, quando parliamo della gloria di Dio: «Sono creature che mi glorificano
tutti coloro che invocano il mio nome» (Is 43, 7). Usi male del suo nome se
denigri la gloria che spetta al Signore.
La fede può esprimersi concretamente, nel
compimento di quelle opere che tornano a gloria di Dio. «La vostra luce
risplenda davanti agli uomini, affinché essi vedano le vostre buone opere e
glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 16). Fanno il contrario
coloro di cui parla l'Apostolo: «Per colpa vostra il nome di Dio è oggetto di
derisione tra i pagani» (Rm 2, 24).
5. È un valido rifugio. «Solida torre è il
nome del Signore: il giusto vi cerca riparo e si sente al sicuro» (Prv 8, 10).
Gesù promette la vittoria sui demoni a chi invocherà con fede il proprio nome
(cf. Mc 16, 17), l'unico nome di cui gli uomini possano disporre per conseguire
la salvezza (cf. At 4, 12).
6. Infine, nel nome di Dio si concludono
egregiamente le imprese umane. Ce lo raccomanda l'Apostolo: «Qualunque cosa si
compia da parte vostra, in parole o in opere, tutto fate nel nome del Signore
Gesù Cristo, rendendo per mezzo suo, grazie a Dio Padre» (Col 3, 17). «Nostro
aiuto è il nome del Signore, che ha creato i cieli e la terra» (Sal 123, 8).
Quindi, se uno comincia a fare qualcosa nel nome
di Dio e poi non la porta a compimento, come nel caso di un voto inadempiuto,
anche costui ha fatto un uso indebito del nome santo. «Quando hai fatto un voto
a Dio, non indugiare a soddisfarlo poiché egli non ama gli stolti: quello che
hai promesso, adempilo. E meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli...
Perché dar motivo a Dio di sdegnarsi per le tue parole?» (Sir 5, 3; cf. 75,
12).
3. «Ricordati del giorno
di riposo, per santificarlo» (Esodo 20, 8)
Occupa convenientemente il terzo posto, dato che
prima dobbiamo venerare Dio col cuore, indi con le parole, e prestargli infine
il dovuto ossequio nell'agire. Per questo egli ha stabilito che gli uomini
avessero un giorno determinato, in cui dedicarsi [più interamente] al suo
servizio.
Tale opportunità è ben motivata.
I. Il comandamento del giorno sabatico (172)
doveva confutare l'errore - previsto dallo Spirito Santo - di quei filosofi che
avrebbero sostenuto l'esistenza ab aeterno del creato. «Negli ultimi
giorni verranno degli uomini beffardi, schernitori, che vivono secondo le loro
passioni. E diranno: dov'è la promessa della sua venuta? Poiché, da quando i
padri sono morti, tutto è rimasto come era fin dal principio della creazione.
Ma essi a bella posta vogliono ignorare come in principio vi erano i cieli e una
terra, che la Parola di Dio aveva fatto emergere dalle acque» (2 Pt 3, 3-5).
Dio ha voluto che, a ricordo della creazione
operata in sei tempi - nonché del settimo, in cui egli cessò dal chiamare
altre creature all'esistenza -, osservassimo anche noi un giorno di riposo. È
appunto il «ricordati di santificare la festa».
I giudei celebravano di sabato la memoria della
prima creazione. Cristo operò la seconda proprio il giorno in cui si concludeva
la settimana [giudaica]. Da questa seconda creazione non ebbe origine l'uomo
terrestre, bensì l'uomo spirituale: la nuova creatura, quella che ha valore
agli occhi del Padre (cf. Gal 6, 15). Essa prese a vivere in forza della
risurrezione di Gesù (cf. Rm 6, 4-5). Ora, la risurrezione del Signore avvenne
nel giorno che i cristiani hanno a lui dedicato. Per questo noi celebriamo la
domenica [giorno della risurrezione, o della nuova creazione], come i giudei
avevano il sabato in venerazione.
2. Esso ha valore di insegnamento religioso
intorno al redentore, il cui corpo nel sepolcro fu esente dal processo di
decomposizione. La sua carne, secondo il salmista, riposò nella speranza (cf.
Sal 15, 9), ossia nella certezza che «il Santo» non sarebbe stato abbandonato
alla corruzione della morte (cf. Sal 15, 10). Con la quiete del giorno festivo
è simboleggiata la sua deposizione dalla croce, come i sacrifici ne
prefigurarono la morte. Noi non pratichiamo più i riti sacrificali dell'antica
alleanza per il motivo che, sopraggiunta la realtà messianica, i simboli hanno
perso il loro significato. Col sorgere del sole svaniscono le ombre notturne.
Tuttavia veneriamo il sabato in onore della gloriosa Vergine che pure in tal
giorno serbò la fede nel Cristo, sebbene [come uomo] lo sapesse morto.
3. Poi [tale precetto] ha il compito di dar
maggiore efficacia alla promessa quiete [eterna], allorché si avvererà
qualcosa di assai più grande e durevole di quanto profetava Isaia ai deportati
in Babilonia: «Il Signore ti darà riposo dalla tua pena, dai tuoi affanni e
dalla dura servitù in cui eri tenuto» (Is 14, 3) e abiteremo in un soggiorno
di pace, in dimora sicura, in luoghi di perfetta quiete (cf. Is 23, 18).
L'uomo attende di potersi riposare sia dal peso
della vita terrena, sia dagli assalti delle tentazioni, sia dalla dipendenza da
satana. Cristo ha promesso tutto ciò a coloro che seguiranno lui: «Venite a me
voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò completo riposo.
Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché sono mite e umile di
cuore; e troverete pace per le anime vostre; poiché il giogo è soave, e
leggero il mio peso» (Mt 11, 28-30).
Dobbiamo riflettere sul fatto che se il Creatore
operò in sei fasi (173), riposandosi in quella successiva, lo fece per
mostrarci che ogni cosa dev'essere compiuta nel miglior modo possibile. Anche se
avremo faticato poco, troveremo un abbondante riposo (cf. Sir 51, 35), poiché
l'eternità eccede senza paragone il tempo presente: assai più che mille anni
di fronte alla durata di un giorno (cf. Sal 89, 4).
4. Esso si rivela quale mezzo adattissimo ad
alimentare l'amore verso Dio. Da un lato è vero che «il nostro corpo
corruttibile è di peso all'anima, e questa abitazione di argilla grava la mente
nei suoi pensieri» (Sap 9, 15), ossia l'uomo tende sempre a cose che sono
inferiori a lui per natura, se non cerca di sottrarsi al loro fascino. Opportuno
quindi un giorno che faciliti questa elevazione.
Vi sono uomini che stabilmente si dedicano alla
quiete [della contemplazione], che sembrano ripetere in continuazione: «Benedirò
il Signore in ogni tempo» (Sal 33, 2) e fan proprio l'invito dell'Apostolo di
pregare senza intermissione (cf. I Ts 5,17): vivono quasi un lungo giorno
consacrato a Dio.
Altri ve ne sono, che fanno questa offerta del
loro tempo a intervalli regolari. Ad esempio, lodano il Signore sette volte al dì
[nella recita del divino ufficio]. Affinché i rimanenti uomini non si
scordassero di Dio completamente, è stato necessario assegnar loro un giorno
stabilito: l'unico modo per evitare che il loro amore verso di lui si raffreddi
troppo. Anch'essi potranno gustare le delizie dell'incontrarsi con Dio,
venerandolo almeno nel giorno del riposo (cf. Is 58, 13-14), e con Giobbe
troveranno gioia nell'Onnipotente, nel sollevare il volto e il cuore verso di
lui (cf. Gb 22, 26).
Il giorno della festa non è stato istituito
perché l'uomo lo trascorra per intero nei divertimenti, bensì per rendere più
intensa la lode e la preghiera (174). Sant'Agostino sosteneva che arare in
giorno di festa sarebbe stato un male minore che immergersi senza freno nei
passatempi.
5. Con esso ci viene fornita la possibilità
di esercitare le opere di misericordia. È sempre esistita infatti gente che,
disumana verso sé e verso gli altri, non smetterebbe mai d'affaticarsi pur di
accumulare nuovi guadagni. Ordina perciò il Signore: «Osserva il giorno del
riposo santificandolo, come il Signore, Iddio tuo, ti ha comandato. Lavora sei
giorni... ma al settimo c'è riposo, è sacro al Signore, Iddio tuo; non fare
nessun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né
la tua schiava... affinché anch'essi possano prender fiato al pari di te» (Dt
5, 12-14).
«Ricordati di santificare il giorno del riposo».
Abbiamo detto che, mentre i giudei celebravano il sabato, noi cristiani
dedichiamo al Signore la domenica e altre feste tra le principali. Vediamo
adesso come convenga vivere tali giornate.
Cominciamo intanto col far notare che la
Scrittura non dice semplicemente «osserva», bensì «ricordati di santificare»
il giorno di festa.
Santo si può intendere in due sensi. Indica ciò
che è puro («Voi siete stati lavati, siete stati santificati» (I Cor 6, 11)),
o una cosa consacrata al culto di Dio (e può dirsi santo un luogo, un
determinato tempo, le vesti e i vasi sacri). Ebbene, la festa dobbiamo
celebrarla tenendo presenti entrambi i significati del termine. Dobbiamo cioè
dedicarci al giorno del riposo con animo puro, attendendo in prevalenza al
divino servizio. Bisognerà astenersi da alcune cose, e farne invece alcune
altre.
Evitare cioè tre generi di occupazioni,
cominciando dai lavori servili. «Abbiate cura... di non portare un peso in
giorno di sabato... In tale giorno non fate alcun lavoro» (Ger 17, 22);
altrettanto prescriveva il Levitico: «Non farete in quel giorno alcuna opera
servile» (Lv 23, 25). Per opera servile deve intendersi quella che affatica il
corpo: infatti l'attività liberale è propria dell'anima, come il pensare e
simili occupazioni più spirituali, riguardo alle quali l'uomo non può subire
costrizioni.
Tuttavia, quattro scusanti possono giustificare
il lavoro fisico nel giorno festivo.
La necessità: il Signore stesso difese i
discepoli che [per sfamarsi] coglievano spighe di sabato (cf. Mt 12, 1-2). Per
l'utilità della Chiesa: così il Vangelo narra che i sacerdoti in quel giorno
compivano tutto ciò che era richiesto dai sacrifici cultuali (cf. Mt 12, 1-5).
Per aiutare il prossimo: Gesù curò di sabato l'uomo dalla mano inaridita, e
ridusse al silenzio quei giudei che lo avevano contestato, portando loro
l'esempio della pecora tratta in salvo (cf. Mt 12, 10-13). Per ordine della
superiore autorità: ad esempio, il Signore ordinò che gli israeliti
praticassero la circoncisione anche di sabato (cf. Gv 7, 22-23).
Poi dovremo astenerci [più che mai nel giorno
sacro] dalle colpe. Si può qui applicare l'avvertenza di Geremia: «Se volete
salva la vita, non portate pesi di sabato» (Ger 17, 21), poiché il peccato è
un tremendo fardello per l'anima, che faceva sospirare Davide: «Le mie iniquità...
come un grave peso mi opprimono» (Sal 37, 5).
Orbene, anche il lavoro servile può costituire
peccato, una specie di schiavitù interiore (cf. Gv 8, 34). Cosicché l'invito a
non compiere lavori servili nel tempo della festa, può intendersi come un
ulteriore invito a non cadere in peccato. Viola quindi questo precetto chi pecca
nel giorno di festa. Potrebbe ripeterci il profeta, a nome del Signore: «I
vostri sabati e le adunanze rituali non le posso soffrire» (Is I, 13-14). E
sapete perché? Per il fatto che «il vostro è un ritrovarsi che sa d'iniquo»
(Is I, 13-14). Per questo Jahvè dichiarava di odiarle, d'essere stanco di
sopportarle.
Va evitata l'inerzia totale. «L'ozio è il
maestro di tutti i vizi» (Sir 33, 29), per cui Girolamo raccomandava a Rustico:
«Abbi sempre qualcosa da fare, in modo che il demonio ti trovi continuamente
occupato». Non sarebbe nel giusto chi si contentasse di osservare le feste
principali, per poi restarsene in ozio nei rimanenti giorni. «Fa onore al re
osservare la giustizia» (Sal 98, 4), nel nostro caso il discernimento. Nella
storia dei Maccabei si racconta che alcuni israeliti si erano nascosti e,
(convinti che. non fosse lecito neppur difendersi di sabato, quando i nemici
irruppero su di loro li massacrarono (cf. I Mac 2, 29-38). Accade qualcosa di
simile a molti che trascorrono inerti i giorni della festa. «La videro i suoi
nemici, e risero dello stato di abbandono [in cui giaceva Gerusalemme]» (Lam I,
7). Era assai meglio imitare quegli altri giudei che stabilirono, prudentemente:
«Chiunque venga a battaglia contro di noi in giorno di sabato, combatteremo
contro di lui, per non morire» (I Mac 2, 41).
«Ricordati di santificare la festa». Sin qui si
è veduto che santo può avere il senso di cosa monda o consacrata a Dio. E
abbiamo esaminato pure da quali pratiche ci si debba astenere per la durata del
giorno festivo.
Vediamo adesso quali siano le specifiche
occupazioni dei giorni santi.
È conveniente innanzitutto attendere all'offerta
del sacrificio. Jahvè prescrisse che ogni giorno gli fossero immolati due
agnelli, uno al mattino, l'altro all'ora del véspro. Ma di sabato l'offerta
doveva essere raddoppiata (cf. Nm 28, 9). E questo indica che nel giorno festivo
dobbiamo offrire a Dio in sacrificio, per intero, il nostro essere. «Tutto
proviene da te, e noi non facciamo che restituirti quello che la tua mano ci ha
dato» (I Cr 29, 14).
Rimettiamo
nelle sue mani la nostra anima, dolendoci dei peccati commessi («Sacrificio a
Dio è uno spirito contrito» (Sal 50, 19) e ringraziandolo dei benefici («S'innalzi
la mia preghiera come un incenso al tuo cospetto» (Sal 140, 2)). Il giorno
festivo infatti è particolarmente idoneo a procurarci quella letizia spirituale
che promana dalla preghiera, per cui in tal giorno dovremo moltiplicare il
nostro dialogo col Signore.
È giusto affliggere il corpo, [tra l'altro]
mediante il digiuno («Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad
offrire i vostri corpi quale ostia viva» (175) oltre che mediante la lode («L'offerta
della lode mi onorerà» (Sal 49, 23); perciò nel giorno festivo vengono
moltiplicati i canti.
Farai bene a sacrificare qualcosa dei tuoi
averi, distribuendo il superfluo. «Non vogliate dimenticarvi della beneficenza
e della comunione [nella carità], poiché con tali vittime si guadagna la
benevolenza di Dio» (Eb 13, 16). Una carità operosa e più abbondante che
negli altri giorni della settimana, facendo sì che la letizia divenga generale.
«Mandate una parte [dei vostri cibi e delle vostre bevande] a quelli che non
han potuto preparare nulla, perché questo giorno è sacro al Signore» (Ne 8,
10).
Dobbiamo inoltre dedicarci alla meditazione delle
divine verità, come fanno tuttora gli ebrei. «Gli oracoli dei profeti si
leggono tutti i sabati» (At 13, 27). Dunque, i cristiani, che devono mostrarsi
più perfetti di loro, devono frequentare la chiesa per ascoltarvi la parola di
Dio e i canti della liturgia. «Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio» (Gv 8,
47).
Il nostro parlare dev'essere [più che mai] teso
alla edificazione del prossimo: «Non esca dalla vostra bocca alcun cattivo
discorso, ma tale che sia atto a insegnare le verità della fede e risulti utile
a coloro che ascoltano» (Ef 4, 29). Ciò, assieme alla riflessione sulla divina
parola, fa del bene a chi vive nel peccato, poiché mutano in meglio le sue
disposizioni interiori. «La mia parola non è forse come il fuoco, dice il
Signore, come il martello che frantuma le pietre?» (Ger 23, 29).
Non ne ricavano frutto invece quei buoni che non
si preoccupano di comunicare ad altri la Parola che hanno ascoltato, oppure non
l'ascoltano essi stessi. «I cattivi discorsi corrompono i costumi virtuosi.
State all'erta, voi giusti, e non peccate» (I Cor 15, 33-34); e un salmo ci
esorta alla continua meditazione della legge di Dio, quale mezzo validissimo per
evitare di offenderlo (cf. Sal 118, 11). La dottrina [del Signore] infatti
istruisce chi non sa («La tua parola è una lampada dinanzi ai miei piedi, una
luce sui miei sentieri» (Sal 118, 105), e infervora il tiepido: «La parola del
Signore lo infiammò» (176).
Infine, sarà utile dedicarci alle pratiche che
alimentano la pietà, come fanno i più progrediti [nella vita spirituale]. «Fate
esperienza di quanto sia soave il Signore» (Sal 33, 9). Ne trarrà vantaggio
l'anima, innanzi tutto: l'anima che desidera quei momenti di quiete, non meno
che il corpo affaticato. E non c'è luogo in cui lo spirito si senta rinascere,
meglio che accanto al Signore. «Sii per me un Dio protettore e un luogo in cui
sentirmi al riparo» (Sal 30, 3). Resta in vigore [anche per noi cristiani] un
giorno in cui poter riposare: chi partecipa del riposo di Dio, trova ristoro
dalle proprie fatiche (cf. Eb 4, 9-10). Rientrati nella quiete dello spirito, ci
riposeremo in compagnia della Sapienza (cf. Sap 8, 16).
Prima però di poter giungere a questa pace,
l'anima deve purificarsi da tre motivi d'inquietudine. Dal travaglio che è
frutto del peccato («Il cuore dell'empio è simile a un mare in tempesta, che
non riesce a calmarsi») (Is 57, 20); dalle passioni della carne, giacché «la
carne ha desideri opposti a quelli dello spirito e lo spirito desideri contrari
a quelli della carne» (Gal 5, 17); dalle occupazioni profane. «Marta, Marta tu
t'inquieti e ti affanni per troppe cose» (Lc 10, 41).
Dopo, sì, l'anima può, senza impacci, riposare
in Dio, stare nell'intimità del suo Signore (cf. Is 58, 13-14).
Ecco perché i santi hanno preferito sempre
staccarsi da tutto: questa [pace dell'anima] è simile alla perla di gran
valore, di cui parla Matteo: il mercante che ne ha scoperto l'esistenza si dà
da fare, e investe in essa il suo capitale pur di entrarne in possesso (cf. Mt
13, 46).
È [un anticipo del]la vita eterna, [del] gaudio
interminabile. È il luogo del nostro riposo, dove abbiamo scelto di abitare per
sempre (cf. Sal 131, 14). E che Dio ci accompagni!
4. «Onora tuo padre e tua madre, affinché
siano prolungati i tuoi giorni sopra la terra che il Signore, tuo Dio, ti dà»
(Esodo 20, 12)
La perfezione dell'uomo, dunque, consiste
nell'amare Dio e il prossimo. I primi tre comandamenti riguardanti la carità
verso Dio erano incisi sulla prima delle tavole di pietra; sulla seconda, i
rimanenti sette, relativi alla carità verso se stessi e gli altri uomini.
Non possiamo limitarci a esprimere solo
verbalmente questo nostro amore: come raccomanda l'apostolo Giovanni, dobbiamo
manifestarglielo in concreto e con sincerità (cf. I Gv 3,18), evitando di
nuocergli e, al contrario, facendo gli tutto il bene possibile. Ecco perché tra
i comandamenti ne troveremo alcuni che invitano a ben fare, altri invece che
vietano di recar danno al prossimo.
Si noti però che mentre rientra nei limiti delle
nostre capacità il cercar di non ledere il prossimo, mai riusciremmo a
beneficiare tutti quanti i bisognosi. Dice in proposito sant'Agostino che tutti
devono esser oggetto del nostro amore, ma non siamo tenuti ad aiutare ciascuna
persona in particolare.
La precedenza spetta ai congiunti, poiché «se
uno non ha cura dei suoi, e massimamente di quelli della propria famiglia, ha
rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele» (I Tm 5, 8). Primi fra tutti,
nostro padre e nostra madre. Scrive Ambrogio che «Dio va amato per il primo, ma
subito appresso vengono i genitori». E Aristotele ce ne fornisce la ragione:
mai potremo ricambiare interamente la somma di benefici che, in quanto figli,
abbiamo ricevuto dai nostri genitori. Offeso gravemente, un padre potrebbe
giungere a scacciare suo figlio, mentre costui non potrà fare altrettanto, in
nessun caso.
I genitori danno ai figli tre sorta di beni.
L'inizio della terrena esistenza. «Onora tuo padre con tutto il cuore e non
dimenticare le pene sofferte da tua madre. Ricordati che senza di loro mai
saresti venuto al mondo» (Sir 7, 27-28). Il nutrimento e tutto il resto che è
necessario per vivere; un figlio nasce nudo, e riceve dai genitori riparo e
vesti. Essi, infine, provvedono alla sua educazione. «Per precettori abbiamo
avuto i nostri parenti carnali» (Eb 12, 9). «Hai dei figli? Allevali bene»
(Sir 7, 23).
Due sono gli insegnamenti di base che occorre
dare ai figli il più presto che si può, considerando che «abituato il
fanciullo a una buona condotta, egli non l'abbandonerà nemmeno quando comincerà
a invecchiare» (Prv 22, 6). È un bene che l'uomo si avvezzi al giogo [della
disciplina] fin da piccolo (cf. Lam 3, 27).
Queste due raccomandazioni fondamentali son le
medesime che Tobia dava al proprio figliolo: il timor di Dio e la fuga da ogni
specie di ingiustizia (cf. Tb 4, 6). Una simile impostazione esemplare condanna
quei genitori che, all'opposto, godono delle malefatte dei propri figli. [Dal
canto loro] «i figli nati da unioni illegittime, nel giorno del giudizio
attesteranno l'immoralità dei genitori» (Sap 4, 6), e talvolta Dio punisce il
peccato dei genitori nella loro prole (177).
E allora evidente che, ricevendo la vita, il
nutrimento e l'educazione, noi dobbiamo avere nei loro riguardi un rispetto
maggiore di quello che si ha verso gli altri superiori da cui otteniamo
determinati beni temporali. Dopo Dio, che ci ha dato l'anima, vengono i
genitori. «Chi teme il Signore, onora suo padre, e serve i propri genitori come
suoi signori: essi lo hanno generato, ed egli [li ricambia] coi fatti e le
parole, con grande condiscendenza. Figlio mio, onora tuo padre... affinché
riposi su di te la sua benedizione» (Sir 3, 8-10).
Così facendo, tu onori te stesso. Difatti, come
afferma la Scrittura, «la gloria di un uomo sta nell'onore di suo padre, mentre
fa vergogna a un figlio un padre disonorato» (Sir 3, 13).
Essi provvidero alle nostre necessità per tutto
il tempo della fanciullezza; quindi dobbiamo pensare a essi, al sopraggiungere
della tarda età. «Figlio, soccorri tuo padre nella sua vecchiaia e non lo
contristare durante la sua vita. Anche se gli vien meno la mente, abbine
compassione: non disprezzarlo vantandoti del tuo vigore» (Sir 3, 14-15). «Quanto
spregevole è chi trascura suo padre! e chi disgusta sua madre è maledetto da
Dio» (Sir 3, 18).
Cassiodoro, per umiliare certi figli snaturati,
narra che le giovani cicogne usano ricoprire con le proprie penne i genitori
che, a causa dell'età, le hanno perdute, e li nutrono dividendo con loro il
cibo, non essendo quelli più in grado di procurarselo. Una commovente
delicatezza, questo restituire quanto si ricevette in dono nei primi anni della
vita!
Essi ci hanno dato un'educazione, e dobbiamo
ubbidire. «Figlioli, siate ubbidienti in tutto ai genitori» (Col 3, 20): in
tutto, tranne ovviamente in ciò che fosse peccato. In tal caso la sola, vera
pietà [filiale] sarà il mostrarsi irremovibili, come san Girolamo consiglia a
Eliodoro. Del resto, conosciamo tutti le parole di Gesù: «Se uno non ama meno
di me il padre e la madre, non è degno di me» (Lc 14, 26). Dio infatti è il
nostro padre più vero: forse non è lui «che t'ha procreato, colui che t'ha
fatto e per cui tu sussisti?» (Dt 32, 6).
«Onora tuo padre e tua madre». Solo a questo
comandamento fa seguito una postilla: «affinché ti siano prolungati i giorni
sopra la terra», onde cioè rassicurarci che sebbene si tratti di precetto
conforme a natura, gli è stato annesso un premio da parte di Dio.
Ben cinque [anzi] sono i beni destinati a quanti
tengono nel dovuto ossequio i propri genitori.
I. La grazia, attualmente, e in futuro l'eterna
gloria: due cose desiderate in sommo grado. La benedizione paterna accompagnerà
il figlio rispettoso sino alla fine (cf. Sir 3, 9-10), mentre assai diversa è
la sorte di chi oserà insultare i genitori: sono maledetti, tali figli, perfino
della legge, come si può vedere nelle pagine del Deuteronomio (cf. Dt 27, 16).
L'evangelista Luca ci ricorda che «chi è
ingiusto nelle piccole cose, è ingiusto anche nelle grandi» (Lc 16, 10);
orbene, la vita fisica è quasi un nulla a paragone della vita di grazia. Perciò,
se ti mostri ingrato riguardo al beneficio primario che ricevesti dai tuoi
genitori, ti rendi indegno di esser ammesso alla vita soprannaturale della
grazia (maggiore della precedente), e assai più indegno della vita eterna di
gloria, massimamente desiderabile.
2. Altra cosa che gli uomini bramano è la
longevità. La Scrittura promette una vita più lunga a chi onora i genitori
(cf. Sir 3, 7). Fa attenzione però che una vita è veramente lunga quando è
piena di [autentici] beni. Essa non si misura, infatti, in base alla durata
temporale bensì all'attività, come insegna il filosofo (Aristotele).
Un'esistenza ricca di opere virtuose. Quindi può dirsi con verità che l'uomo
onesto, e [tanto più] il santo, ha vissuto a lungo anche se morisse giovane. È
per lui l'elogio della Sapienza: «Divenuto perfetto in breve tempo, compì
le opere di una lunga vita. La sua anima era gradita a Dio» (Sap 4, 13-14).
Fa degli ottimi affari quel tale che in una
giornata riesca a combinare quanto ad altri riesce di concludere nell'arco di un
anno intero. E non dimentichiamo neppure che, alle volte, un protrarsi
dell'esistenza terrena può condurre a una [triste] morte e fisica e spirituale,
vedi il caso di Giuda.
Chi tribola i genitori raccoglie frutti
mortiferi. Dai nostri genitori ricevemmo la vita, come gli uomini d'arme hanno
in custodia dal re un feudo. E se è giusto che, in pena del loro tradimento, i
feudatari perdano la signoria di cui godevano, così non sono degni di vivere
quei figli che sono ingiusti verso chi li mise al mondo. «L'occhio che
schernisce il padre e disprezza l'età della madre, sia cavato dai corvi della
valle e lo divorino i figli dell'aquila» (Prv 30, 17). (Le giovani aquile
possono raffigurare i re e i principi, i corvi gli ufficiali subalterni).
Se non sempre la morte precoce viene a punire i
figli ingrati, non per questo potranno sperare d'essere sfuggiti alla morte
spirituale.
Dal canto suo, un padre non deve eccedere nel
lasciare ai figli troppa libertà; non dovrà mai rinunziare interamente
all'autorità paterna (cf. Sir 33, 21; 20).
3. Chi ha saputo onorare i propri genitori, avrà
in sorte a sua volta figli riconoscenti e amabili. E nell'ordine delle cose che
un padre accumuli beni per i figli. Non altrettanto sicura è la gratitudine da
parte di questi ultimi. Però «chi avrà rispettato suo padre, sarà allietato
dai figli» (Sir 3, 6). Anche qui può ripetersi: «Nella misura in cui avrete
misurato, sarà misurato a voi» (Mt 7, 2).
4. Ne deriva una buona fama. «La gloria di un
uomo sta nell'onore di suo padre» (Sir 3, 13) e, al contrario, «quanto è
spregevole colui che non si cura [delle necessità] di suo padre» (Sir 3, 18)!
5. Forse verranno anche le ricchezze. «La
benedizione del padre consolida le famiglie nate dalla sua prole; la maledizione
della madre ne sradica le fondamenta» (Sir 3, 11).
«Onora tuo padre e tua madre», dunque. Si noti
però che il rispetto è dovuto non solo a coloro che ci hanno fisicamente
generato, bensì a chiunque possa dirsi nostro padre o nostra madre per altri
titoli. Anch'essi meritano l'ossequio da parte nostra.
Chiamiamo infatti padri gli apostoli
e altri santi che hanno alimentato la nostra fede con la dottrina e l'esempio.
«Quand'anche aveste migliaia di maestri in Cristo, non avreste tuttavia molti
padri. Difatti io vi ho generati in Cristo Gesù per mezzo del vangelo» (1 Cor
4, 15). Anche altrove la Scrittura ci invita a tessere l'elogio degli uomini
pii, che hanno contribuito ad alimentare in noi l'amore per la vita integra (cf.
Sir 44, 1). Ma che sia una lode fatta non semplicemente di belle parole.
Imitiamoli, con la maggiore fedeltà possibile. «Ricordatevi dei vostri capi
spirituali, che vi predicarono la parola di Dio: e considerando quale fu il
termine della loro vita, imitatene la fede» (178).
Chiamiamo giustamente padri anche i
nostri superiori. Dobbiamo venerarli in quanto ministri di Dio. Ha detto Gesù,
rivolto a essi: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi vi disprezza, è me che
disprezza» (Lc 10, 16). Venerarli mediante l'ubbidienza. «Ubbidite a coloro
che vi guidano e siate disciplinati, perché essi vegliano sulle vostre anime e
dovranno renderne conto» (Eb 13, 17). È giusto, inoltre, contribuire al loro
sostentamento.
Sotto un analogo profilo vanno considerati
anche i nostri governanti. Ad esempio, i servi si rivolsero a Naam, capo
dell'esercito del re dell'Aram, con l'appellativo di «Padre» (2 Re 5, 13), e
ciò in quanto [i sovrani e i loro ministri] hanno il compito di promuovere il
bene dei sudditi. Comportiamoci, a nostra volta, da sudditi leali. Insegna
l'apostolo Paolo: «Ognuno sia soggetto alle autorità superiori poiché non c'è
autorità che non venga da Dio. Chi si oppone all'autorità, resiste all'ordine
stabilito da Dio» (Rm 13, 2). E non già in quanto mossi dal timore, non per la
sola paura del castigo, ma spinti dall'amore [almeno del bene comune], secondo
una retta coscienza. Il motivo lo si è visto, poiché come ha detto l'Apostolo,
il potere trova in Dio la sua origine; quindi è un debito da soddisfare, in
diversi modi: «A chi è dovuta l'imposta [sia versata] l'imposta; a chi la
gabella, la gabella. A chi [spetta] la riverenza, la riverenza; a chi l'onore,
l'onore» (179). «Figlio mio, temi il Signore e il re» (Prv 24, 21).
Hanno diritto a una particolare benevolenza, i
benefattori. Essi ascoltarono l'invito del Signore (cf. Sir 4, 10), aiutando ci
come fa un padre, perciò noi siamo tenuti a ricambiare. «Non dimenticare - ad
esempio - la bontà di chi ti è stato garante: egli ha esposto la sua vita per
te» (Sir 29, 20). Agli ingrati potranno applicarsi le parole della Sapienza: «La
speranza dell'ingrato svanirà [quando egli tornerà a trovarsi nel bisogno]
come brina invernale e si disperderà come inutile acqua che passa» (Sap 16,
29).
C'è infine una paternità che deriva dalla
canizie. Gli anziani contribuiscono al tuo sapere, insieme ai genitori (cf. Dt
32, 7). «Alzati in piedi davanti a chi ha già i capelli bianchi; onora i
vecchi» (Lv 19, 32). «In mezzo ai grandi non ritenerti pari e quando uno [di
essi] parla non prender tu la parola» (180); e ancora: «Ascolta in silenzio:
in cambio del rispetto che dimostri, sarai ben voluto» (Sir 32, 9).
Tutti costoro, dunque, devono esser trattati con
particolare onore: hanno in sé un qualche riflesso del Padre che sta nei cieli.
Avendo in mente anche loro, Gesù ha detto: «Chi disprezza voi, disprezza me»
(Lc 10, 16).
5. «Non uccidere» (Esodo
20, 13)
Tra i diversi mali da cui la legge divina intende
tenerci lontani, il massimo che possiamo recare al prossimo è quello di
privarlo della vita. Ciò è espressamente proibito dal quinto comandamento.
Vi sono state in proposito tre erronee
interpretazioni.
Taluni sostennero che non sia lecito uccidere
neppure le bestie. Ma è falso, dato che non vi può essere alcun male nel
[retto] uso delle creature che sono soggette al dominio dell'uomo. Rientra nel
disegno naturale che le piante siano alimento per gli animali, come taluni di
questi serviranno a nutrire gli altri, e tutto ciò che è commestibile è
ordinato al sostentamento del genere umano. «Tutto ciò che si muove e che ha
vita vi servirà da cibo: io vi do tutto questo, come vi detti l'erba verde»
(Gn 9, 3). Anche Aristotele insegna, nel suo trattato di Politica, che la
caccia va considerata alla stregua d'una giusta guerra.
Anche san Paolo ci rassicura: «Mangiate di tutto
quello che si vende al mercato, senza preoccuparvi di niente per scrupolo di
coscienza, perché 'del Signore è la terra con tutto quello che essa contiene'»
(I Cor 10, 25; cf. Sal 23, 1). Quindi il «non uccidere» equivale a non
uccidere l'uomo.
Altri hanno creduto di vedere nel precetto
in questione il divieto assoluto di qualsiasi condanna a morte. Sarebbero degli
omicidi, secondo costoro, gli stessi giudici secolari che comminassero, a norma
di legge, la pena capitale. Li contraddice però Agostino, facendo notare come
Dio non può perdere, a motivo del quinto comandamento, i suoi diritti sopra la
vita umana. «Son io che posso far morire, e sempre io l'unico capace di ridar
la vita» (Dt 32, 39). Di conseguenza è lecito anche a coloro che, per mandato
divino, esercitano la giustizia. Agiscono in rappresentanza di Dio, dato che
ogni [giusta] legge promana da lui: «È nel mio nome che regnano i re, e i
magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15). Così ragiona l'Apostolo: «Vuoi
non aver paura dell'autorità? Comportati bene e riceverai la sua approvazione.
Se invece agisci male, temi; non per nulla porta la spada; essendo ministra di
Dio, deve punire chi opera il male» (Rm 13, 3-4.). Anche a Mosè fu
raccomandato [per il bene del popolo eletto]: «Non permettere che viva chi si
è rivelato nocivo» (181). Facoltà analoga appartiene ai rappresentanti di
Dio, che ne ricevano da lui il mandato. In altri termini, se Dio, autore della
legge, non infrange la medesima infliggendo la pena di morte prevista per
determinati peccati (182), non pecca chi ne esegue il volere. Senso autentico
del precetto è dunque: «Non uccidere (di tua iniziativa)».
Nel comandamento «non uccidere» altri
vollero vederci la proibizione di attentare alla vita altrui: il suicidio così
risulterebbe lecito. Citavano il caso di Sansone (cf. Gdc, 16, 28-30), di Catone
(183), e di un certo numero di vergini [cristiane] che, come racconta Agostino
nel De civitate Dei, si gettarono tra le fiamme [per sfuggire agli
aggressori]. Ma è lo stesso dottore della Chiesa che formula un giudizio
negativo: «Chi si uccide, uccide una persona umana». Ora, se non è lecito
privare alcuno della vita, tranne che per comando divino, neppure può esser
consentita l'uccisione di se stessi; a meno che non sia ancora Dio a ordinarlo o
[lo consenta] mediante un impulso dello Spirito, come si crede avvenisse a
Sansone. Diversamente: non uccidere e non ucciderti.
Un uomo può divenire omicida in diversi
modi. Fisicamente, macchiandosi le mani di sangue (cf. Is I, 15), il che non
solo va contro il dovere di amare il prossimo come amiamo noi stessi (e un
omicida si priva della grazia che è seme di vita eterna (cf. I Gv 3, 15), ma va
contro l'istinto naturale. Difatti «ogni essere vivente è attratto da quelli
della sua specie» (Sir 13, 19). Per questo, Dio prescrisse a Mosè di mettere a
morte chi avesse percosso un altro, da farlo morire (cf. Es 21,12). L'assassino
è più crudele del lupo, del quale si legge che rifiuta di cibarsi della carne
di un suo simile (184).
Anche con la bocca si può dare la morte,
ad es. istigando qualcun altro a commettere omicidio, oppure ricorrendo alla
provocazione, accusando [ingiustamente] o calunniando. È proprio vero che
[spesso] «gli uomini hanno lance e saette al posto di denti, e per lingua una
spada acuta» (Sal 56, 5).
Dando manforte a chi non esita a versare il
sangue. Ed equivale a condividere la responsabilità nel crimine (cf. Prv 1, 15)
il frequentare uomini malvagi.
Lo stesso si dica di chi approva l'operato di un
[ingiusto] uccisore. «Chi fa cose inique - e fra le altre iniquità c'è
l'omicidio - è degno di morte; e non solo chi le fa, ma anche chi le approva»
(Rm 1, 32). E bada che tu dai il consenso quando, potendo intervenire, non fai
nulla per sventare un delitto. «Libera chi [innocente] è condotto a morte»
(Prv 24, 11). Casi analoghi: se ne hai i mezzi ma, per negligenza o avarizia,
neghi il tuo soccorso a chi sta nel bisogno. «Dai da mangiare, scrive
sant'Ambrogio, a chi muore di fame: se ti rifiuti, hai finito d'ucciderlo ».
Abbiamo parlato di chi uccide una persona
fisicamente. C'è anche chi spegne nell'anima la vita della grazia, col
trascinarla nel peccato mortale. Satana «fu omicida dal primo momento» (Gv 8,
44), sospingendo l'uomo appunto verso la colpa grave. C'è pure chi nel medesimo
tempo, uccidendo una donna incinta, danneggia il bimbo quanto alla vita fisica,
e quanto ai diritti della sua anima (185). Uguale danno fa a se stesso il
suicida.
«Non uccidere». Nel vangelo secondo Matteo,
Cristo ci ha lasciato questo ammaestramento: che la nostra giustizia dev'essere
superiore a quella ispirata dall'antica legge (cf. Mt 5, 21-22). I cristiani cioè
devono osservare con impegno maggiore i precetti evangelici, di quanto i giudei
non praticassero le prescrizioni legali. Una fatica più grande meriterà
migliore ricompensa, poiché «chi semina poco mieterà poco, mentre chi semina
molto, mieterà anche molto» (2 Cor 9, 6). Nella legge [mosaica] erano promesse
ricompense temporali e terrene: «Se sarete docili e ubbidirete, avrete in
premio i beni del paese» (Is 1, 19); invece nella legge evangelica vengono
assicurati beni celesti ed eterni. Quindi la giustizia di un uomo, consistente
nell'osservanza della divina volontà, dev'essere più perfetta, in proporzione
dei beni superiori [che vi sono connessi].
Un precetto del vangelo qui viene esaminato a
parte. «Voi avete udito che fu detto agli antichi: 'Non uccidere; e chiunque
avrà ucciso sarà condannato in giudizio'; ma io vi dico che sarà condannato
in giudizio chiunque va in collera con suo fratello» (Mt 5, 21-22), ossia dovrà
subire la pena stabilita dalla legge. «Se - ad esempio - uno trama contro il
suo prossimo per ucciderlo con inganno, anche dal mio altare lo strapperai a
forza, per farlo morire» (186).
Ognuno di noi deve guardarsi dall'ira, con molta
attenzione.
1. Non lasciamoci, innanzi tutto, trasportare
troppo facilmente dalla collera. «Ognuno sia pronto ad ascoltare, ma lento a
parlare e cauto nell'abbandonarsi all'ira, poiché l'uomo adirato non compie ciò
che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 19). È un peccato, l'ira, e Dio la
punisce.
A questo punto si impone un problema: qualunque
specie d'ira è contraria alla virtù? Gli stoici sostennero che nessuna
passione può giungere a dominare il savio, e affermavano anzi che la vera virtù
consiste nella imperturbabilità dello spirito. I seguaci di Aristotele (187)
invece ritenevano che il sapiente potesse adirarsi, purché in misura contenuta.
Tra le due, quest'ultima è l'opinione più prossima al vero.
Il vangelo infatti ci documenta la presenza di
codesto e altri simili moti nell'animo del Cristo (188), in cui allo stato
sorgivo si trovava la perfetta sapienza.
Del resto la stessa ragione ci dice che se tutte
le passioni (189) fossero di per sé incompatibili con la virtù, alcune facoltà
dell'anima risulterebbero inutili; la loro presenza nell'uomo sarebbe
addirittura nociva, non potendosi esprimere sempre in maniera opportuna. Gli
appetiti (190) irascibile e concupiscibile avrebbero solo l'apparenza
dell'utile.
Dobbiamo concluderne piuttosto che vi è una
sorta d'ira che si può e si deve condannare, e una virtuosa indignazione.
Vi può essere ira semplicemente a livello del
giudizio, senza ripercussioni sensitive: e questa, più che ira vera e propria,
è riprovazione critica. Così, diciamo che il Signore si adira nel castigare i
cattivi. «Sopporterò le conseguenze dell'ira del Signore, poiché l'ho offeso»
(Mic 7, 9).
Una forma d'ira più strettamente effetto di
passione scaturisce dall'appetito sensitivo (191). Essa è, a volte, controllata
dalla riflessione come nel caso di uno che si adira nel momento opportuno, in
una misura adeguata alle concrete circostanze e per un ragionevole motivo. Si
tratta allora di un atto virtuoso, ed equivale allo zelo (192). Il filosofo
(Aristotele) scrive infatti che la mansuetudine non è [tanto] l'astensione
dall'ira [quanto piuttosto la capacità di temperare i propri interventi] (193).
Infine c'è una irascibilità che sfugge al
dominio della ragione ed è sempre peccato, veniale o mortale, secondo i casi,
in rapporto con il movente.
Può essere peccato grave sia in se stessa, sia
per gli elementi che l'accompagnano. L'omicidio è grave di sua natura, in
quanto vìola direttamente (194) un comandamento di Dio. Può darsi che
talvolta, a un moto che di per sé costituirebbe trasgressione grave della
legge, non segua il consenso (metti il caso di un impulso sensuale inducente
alla fornicazione, cui però non si aderisca): non vi è gravità di peccato.
Un ragionamento del genere vale per l'ira che,
dovendola definire, è un moto dell'animo teso a vendicare un'offesa subìta.
Questa è, sostanzialmente, l'ira. Orbene, se tale impulso è tanto violento da
travolgere al tutto la ragione, si avrà peccato mortale; mancando invece il
deliberato consenso, la mancanza è leggera. Tanto più se poi la reazione non
è neppure esagerata: il consenso non ne aggraverebbe la valutazione morale.
Le parole: «Chiunque va in collera col suo
fratello sarà condannato in giudizio» (Mt 5, 22) vanno intese come
riprovazione del proposito di danneggiare qualcuno in grave misura. Potrebbe
essere, se c'è consenso, colpa grave. Dio saprà giudicare ogni nostra azione,
egli che «chiamerà in giudizio a rispondere su tutto ciò che è occulto, bene
o male che sia» (Qo, 12, 14).
Oltre a ciò, non dobbiamo adirarci con
leggerezza considerando il desiderio che ciascuno di noi nutre per la libertà e
quindi la ripugnanza a divenire schiavi. Ebbene, un uomo in preda all'ira non è
certo padrone di sé. «Il furore è capace di crudeltà e la collera è
impetuosa» (Prv 27, 4); o, ancora: «Son pesanti le pietre e la sabbia, ma la
furia dello stolto è più insopportabile dell'una e dell'altre» (Prv 27, 3).
2. L'ira va controllata anche per evitare di
subire troppo a lungo la sua influenza. «Se vi adirate, non lasciate che l'ira
stessa vi trasporti al peccato» (Sal 4, 5). Perciò «non tramonti il sole sul
vostro risentimento» (Ef 4, 26). Nel Vangelo, Gesù medesimo ci spiega il perché
ci convenga tentare la riconciliazione con il nostro avversario, finché siamo a
tempo (cf. Mt 5, 25).
3. Tutt'altro che trascurabile il rischio di
scendere a vie di fatto. L'ira comincia con invadere il cuore, fino a mutarsi in
odio. Da reazione istintiva, essa si trasforma in uno stato di persistente
malanimo. L'apostolo Giovanni ci avverte: «Colui che odia il proprio fratello
è un [potenziale] omicida» (I Gv 3, 15); anzi equivale in qualche modo a un
dare la morte anche a se stesso, privando l'anima della vita di grazia.
Sant'Agostino, nella sua regola cenobitica, ha scritto in proposito: «Fate in
modo di non aver mai liti tra voi, o almeno finitele al più presto, perché
l'ira non abbia a crescere sino a trasformarsi in odio e, facendo una trave da
un semplice fuscello, renda l'anima omicida» (195). E Giacobbe, chiamati i
figlioli attorno al giaciglio, maledisse la violenza di Simeone e di Levi, la
loro vendetta crudele (cf. Gn 49, 7).
4. Da un risentimento covato nell'intimo possono
venire le offese verbali. «Lo stolto manifesta subito la sua collera» (Prv 12,
16), mediante parole ingiuriose o un contegno altezzoso.
Riguardo a chi insulta il suo prossimo, Gesù ha
emesso una severa sentenza: «Chi avrà detto al suo fratello 'racha', sarà
condannato nel sinedrio; e chi gli avrà detto 'pazzo', sarà condannato al
fuoco della Geenna» (196). Invece «una risposta dolce placa l'ira, proprio
come una parola pungente eccita la collera» (Prv 15, 1).
5. Più che mai l'ira va tenuta sotto controllo
affinché non ci spinga a forme di rappresaglia fisica. Sempre bisogna stare
attenti che nel nostro agire sia salva la giustizia e la misericordia. La
collera tende a impedire l'esercizio di entrambe le virtù. Infatti, come
insegna san Giacomo, «l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a
Dio» (Gc 1, 20); se anche volessimo, non potremmo giudicare equamente. Rispose
bene perciò un certo filosofo al suo offensore: «Ti punirei, se non mi
trovassi in preda all'ira». E anche la misericordia è inattuabile finché si
è in collera (cf. Prv 27, 4). Non pochi uomini giunsero a divenire omicidi,
spinti dal furore (cf. Gn 49, 6).
Ecco le ragioni per cui Cristo ci insegna ad
astenerci non soltanto dall'omicidio, ma dalla stessa ira [che può provocarlo].
Il bravo medico non si limita a estirpare quei mali che vede a fior di pelle,
bensì li rimuove dalla radice, onde evitare una ricaduta. In altri termini, il
Signore vuole che ci asteniamo da ciò che è incentivo di [sempre più grave]
peccato. Dall'ira, quindi, che è il fomite dell'omicidio.
6. «Non commettere
adulterio» (Esodo 20, 14)
Dopo quella di uccidere, segue la proibizione di
adulterare l'unione matrimoniale; ed è logico, dal momento che con le nozze
l'uomo e la donna diventano quasi un'unica persona: «Saranno, dice il Signore,
una sola carne» (Gn 2, 24). Perciò, dopo l'ingiuria [omicida, o comunque
lesiva] contro un individuo non ve n'è altra più atroce di quella che offende
la persona che maggiormente gli è congiunta.
L'adulterio è vietato tanto alla donna, quanto
all'uomo. Vediamo prima però la trasgressione da parte della donna, dato che in
lei sembra assumere una particolare gravità.
I. Con una relazione extraconiugale, la donna
commette tre gravi peccati, come si può rilevare da una pagina del Siracide:
«La donna che lascia il marito... prima ha disubbidito alla legge
dell'Altissimo, poi ha mancato contro il suo sposo, infine s'è macchiata
d'adulterio e [forse] ha avuto prole da un uomo non suo» (Sir 23, 32-34).
Essa pecca quindi da incredula, nel senso che non
ha voluto adeguarsi alla legge di Dio emanata espressamente contro l'adulterio.
«Non divida, la creatura, quello che Dio ha congiunto» (Mt 19, 6).
Trasgredisce all'impegno solenne, da lei concluso
di fronte alla Chiesa e per il quale venne invocato Dio quale testimone e
garante del vincolo di fedeltà. Facile applicare al caso ciò che segue: «Il
Signore è testimone tra te e la donna della tua giovinezza, verso la quale ora
ti mostri infedele; eppure ella era la tua compagna e la donna nei confronti
della quale ti sei impegnato» (Mt 2, 14).
Pecca di tradimento, voltando le spalle all'uomo
[cui è legata da un sacro rapporto d'amicizia]. Se la donna maritata non si
appartiene più ma è del marito (e similmente l'uomo ammogliato divide con la
sposa la potestà su se stesso) tanto che san Paolo fa notare come la pratica
della astinenza coniugale da parte di uno di essi richieda il consenso
dell'altro (cf. 1 Cor 7, 4), per questo la donna adultera non è leale: si
consegna illecitamente a un altro, simile a chi muta proprietario di sua
iniziativa. «Essa ha abbandonato il marito avuto nella giovinezza, dimenticando
il patto giurato al proprio Dio» (Prv 2, 17).
Pecca infine commettendo un furto, nel caso
avesse figli dall'unione illegittima: un furto non certo lieve perché sottrae
l'asse ereditario alla legittima prole. In un caso del genere, la donna dovrebbe
cercare di affidare a un convento o a un monastero i figli naturali (o
sistemarli in qualche altra maniera adatta) (197) sì da escludere una loro
compartecipazione alla successione nei beni ereditari.
Macchiandosi d'adulterio perciò una donna agisce
da sacrilega, ed è rea di tradimento e ladra.
2. Quantunque spesso ci si illuda del contrario,
i mariti adulteri peccano non meno che le precedenti.
Infatti, sulla base della Scrittura sopra citata
(«Neppure lo sposo è padrone assoluto del proprio corpo» (1 Cor 7, 4)) i
coniugi si trovano su un piano di parità giuridica: né l'uno, né l'altra può
gestire l'uso del matrimonio prescindendo dal consenso della controparte. Per
farcelo meglio comprendere, Dio non trasse la donna da un piede o, che so io,
dalla testa di Adamo, bensì dal suo fianco (198). Ma solo con l'avvento del
Cristo il matrimonio acquistò la pienezza dei valori; fino a quel momento un
giudeo poteva prendersi diverse mogli, mentre la donna non godeva di analogo
privilegio. Era tollerata perciò una disparità di trattamento.
L'uomo dovrebbe riuscire più agevolmente a
controllarsi, se si considera la tipica passionalità femminile. San Pietro
ricorda ai mariti il dovere di trattare con comprensione la sposa, «sapendo che
la donna è un essere più debole» (1 Pt 3, 7).
Quindi, se pretendi dalla tua sposa una fedeltà
che tu però non intendi osservare, vai contro l'impegno [che pure ti sei
assunto].
Eppoi, godendo di una maggiore autorità (lui che
è una guida per sua moglie, che da lui prenderà chiarimenti in materia di
fede) (cf. 1 Cor 14, 34-35), l'uomo deve proporsi a modello. Anche per questo,
Dio affidò a un uomo - Mosè - il precetto di cui parliamo.
Un sacerdote che venga meno al dovere specifico
di istruire pecca più che un semplice laico, e il vescovo più del sacerdote.
Analogamente, nel compiere l’adulterio pecca [più gravemente] l'uomo, in
quanto egli viene a mancare alla parola data e al dovere del buon esempio.
Dal canto loro le mogli tengano a mente la
raccomandazione di Cristo: «Osservate e fate tutto ciò che [di bene] essi vi
dicono: ma non agite secondo le opere loro» (Mt 23, 3).
«Non commettere adulterio». La proibizione, si
è detto, riguarda tanto l'uomo, quanto la donna. Ora bisogna aggiungere
l'opinione di certuni che, pur dicendo si convinti che l'adulterio costituisca
un [grave] peccato, non credono che lo sia anche la fornicazione. Ma li confuta
apertamente san Paolo: «Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri» (Eb 13,
4). «Non sapete che gli ingiusti non possiederanno il regno di Dio? Attenti a
non illudervi: né fornicatori, né adulteri... saranno eredi del regno di Dio»
(1 Cor 6, 9). Dato che nessuno viene escluso dal regno dei cieli, tranne che a
causa di gravi violazioni della legge divina, evidentemente anche la
fornicazione è da considerarsi tale.
Magari però tu vuoi dire che di gravità non può
parlarsi, come nel caso dell'adulterio, poiché fornicando non si svilisce
[necessariamente] il corpo di una donna coniugata. Allora ti rispondo che
l'oltraggio riguarda, qui, un corpo ancora più nobile: il corpo [mistico] di
Cristo, del quale fai parte tu e il tuo prossimo, o i vostri stessi corpi che
furono consacrati dal battesimo. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di
Cristo? - ci domanda l'apostolo Paolo; e prosegue: «E io potrei prendere le
membra di Cristo per farne membra d'una meretrice? Non sia mai!» (I Cor 6, 15).
Quindi sbaglia chi dice che la fornicazione non è peccato mortale.
Ne concludiamo [anzi] che il sesto comandamento
intende proibire non solo l'adulterio [e la fornicazione], ma qualunque
dissolutezza carnale, fuori dell'unione matrimoniale.
Altro errore è quello di quanti affermano che i
rapporti coniugali non siano mai esenti da colpa. Diversamente Paolo non
direbbe: «Il matrimonio sia da tutti tenuto in onore» (Eb 13, 4). L'unione tra
gli sposi dunque non soltanto non costituisce in se stessa alcuna violazione
morale, ma è altresì meritoria ogni volta che gli sposi si trovino in stato di
grazia. Talvolta le loro dimostrazioni d'affetto potranno comportare delle
venialità, e qualche altra volta raggiungere la colpa grave (199).
Se il reciproco effondersi nell'amore si
accompagna all'intento di procreare, i coniugi agiscono virtuosamente, ed è
atto di giustizia rendere il debito coniugale; allorché, invece, pur non
eccedendo i limiti propri del matrimonio, si abbia di mira unicamente la
soddisfazione della sensualità, avremo anche un peccato veniale. Superati
invece i suddetti limiti (magari sul piano della semplice fantasia), la colpa è
grave.
È bene inoltre conoscere i vari motivi in base
ai quali sono vietati l'adulterio e la fornicazione.
1. La vita spirituale ne riceve una ferita
profonda. «L'adultero - infatti - è corto di senno: solo chi vuole rovinarsi
agisce come lui» (Prv 6, 32). L'espressione della Volgata propter cordis
inopiam sottolinea bene l'inaridimento della sensibilità di spirito,
nell'uomo carnale.
2. Mette a rischio la stessa vita fisica, poiché
stando alla legislazione mosaica, gli adulteri erano passibili della pena
capitale (cf. Lv 20,10-12; cf. Dt 22, 22). E anche se attualmente un tale
rischio non esiste, la cosa si risolve sempre a danno del colpevole: se infatti
il massimo castigo veniva accettato con rassegnazione, otteneva al reo il
perdono della colpa; invece, restando qui impunita, essa dovrà essere espiata
nella vita ultraterrena.
3. Questo genere di peccati, conduce allo
sperpero delle proprie sostanze: l'esempio più convincente l'abbiamo nel
figliol prodigo, il quale «scialacquò tutto il suo patrimonio con una vita
dissoluta» (Lc 15, 11-13). Anche il Siracide avverte: «Non abbandonarti
nelle mani di una cortigiana, se non vuoi rovinare te stesso e le tue fortune»
(Sir 9, 6).
4. Umilia i figli nati da una illecita unione. «I
figli degli adulteri non giungeranno a maturità e sparirà il seme di un letto
illegittimo; eppoi, anche se vivessero a lungo, non godranno di nessuna stima, e
la loro vecchiaia sarà senza onore» (Sap 3, 16-17). Anche tra le fila del
clero questi sfortunati non troveranno posto, finché sia possibile reclutare
chierici privi di demerito (200).
5. La persona coinvolta nell'adulterio, e
specialmente la donna, ne esce degradata. «La donna adultera sarà considerata
come un rifiuto che si calpesta per la strada» (Sir 9, 10), mentre di un uomo
che sia incorso nel medesimo fallo leggiamo nella Scrittura: «[L'adultero] non
raccoglierà che battiture e infamia; la sua vergogna non sarà dimenticata»
(Prv 6, 33). E san Gregorio [Magno] pone infine in rilievo come, pur costituendo
un crimine minore rispetto ai peccati in cui prevale la perversione
dell'intelligenza, tuttavia i peccati della carne rivestono un aspetto di
particolare ignominia; e la ragione è semplice: essi avviliscono l'uomo al
livello della bestia. L'uomo cioè, non avendo compreso a quale onore Dio
l'abbia innalzato, si è abbrutito, simile nel modo di vivere agli animali
inferiori (cf. Sal 48, 21).
7. «Non rubare» (Esodo 20,
15)
Con la sua legge, Dio proibisce ripetutamente il
danneggiamento del prossimo: nella persona («non uccidere»), nel congiunto cui
è legato da un sacro vincolo («non commettere adulterio») e, come stiamo
vedendo, nei beni esteriori («non rubare»).
Il divieto si estende a qualunque sottrazione
indebita, sotto qualsiasi forma.
I. Costante del furto è che lo si effettua
[generalmente] di nascosto; nessuno si lascerebbe vuotare la casa, se potesse
indovinare in quale momento il ladro passerà all'azione (cf. Mt 24, 43). Un
modo d'agire esecrabile, il suo, che lo accomuna al tradimento; e [quando egli
viene scoperto] sarà additato al pubblico disprezzo (cf. Sir 5, 17).
2. C'è però chi ruba con aperta violenza (201),
e ovviamente accresce la gravità del fatto. Principi e re sono [spesso]
classificabili entro questa categoria, e il profeta Sofonia adopera parole
sferzanti: «Le autorità [di Gerusalemme] sono in mezzo a lei come leoni
ruggenti; i suoi giudici son come lupi della sera, che non lascian niente per il
mattino» (Sof 3, 3).
Essi agiscono contro i disegni del Signore, che
vuol trovare rettitudine negli uomini investiti di pubblica autorità, onde
poter ripetere: «E in mio nome che regnano i re e i magistrati applicano il
diritto» (Prv 8, 15).
Anche costoro s'impadroniscono dei beni altrui, o
nascostamente o col sopruso, facendo concorrenza ai ladri e correndo dietro ai
donativi (cf. Is I, 23); oppure raggiungono i propri intenti emanando leggi
[inique] e) e stabilendo tasse già destinate in partenza ad alimentare il
reddito personale. Tanto che Agostino si chiede che altro siano i regni, se non
latrocini su vasta scala. Di sicuro lo sono, perlomeno, le inique pubbliche
amministrazioni.
3. Si ruba col trattenere il salario dovuto
all'operaio. Perciò il Levitico raccomanda che la paga giornaliera del
bracciante non rimanga a lungo tra le mani dell'amministratore (cf. Lv 19, 13).
È sottinteso, una volta di più, l'obbligo di
dare a ciascuno il suo, si tratti [del servo o] del padrone, del chierico o del
suo prelato. E l'invito alla giustizia che san Paolo rivolge a tutti: «Rendete
a ognuno quanto gli è dovuto: a chi l'imposta, l'imposta; a chi la gabella, la
gabella; a chi la riverenza, la riverenza; a chi l'onore, l'onore» (Rm 13, 7).
Siamo tenuti infatti a versare il nostro contributo a quanti amministrano il
bene comune (202).
4. A riprovazione delle [frequenti] frodi
commerciali, dice il Signore: «Nella tua sacca non nascondere due pesi, uno
esatto e l'altro più grande. Non avere in casa due misure, quella giusta e
quella che hai manipolato» (203); «Non commettere ingiustizie... nelle misure
di lunghezza, di peso e di capacità. Usate bilance giuste, fate pesi giusti,
siano esatti l'efa e l'hin» (204); o ancora, tra i Proverbi:
«Doppio peso è in abominio presso Dio; bilancia falsa non è cosa buona» (Prv
20, 23).
Un discorso del genere vale ovviamente per quegli
osti che mescolano l'acqua al vino. E viene condannato anche l'interesse
eccessivo richiesto nelle usure. L'usuraio [assieme agli altri operatori di
frode] rischia d'essere escluso dal regno dei cieli (cf. Sal 14, 1).
L'avvertimento riguarda banchieri e cambiavalute, che combinano imbrogli d'ogni
sorta, e i venditori di panni e l'intera classe dei negozianti...
Prevedo un'obiezione: «Ma perché non dovrei
esser libero di dare [a interesse] il denaro che mi è stato chiesto in
prestito, come faccio quando consegno a nolo un cavallo oppure in affitto una
casa?».
Ti rispondo che, se in tale genere di affari c'è
peccato, esso deriva dal volersi far pagare due volte una stessa e identica
cosa. Nei beni immobili infatti, o comunque alienabili, vanno distinti il bene
preso in se stesso, dal suo uso. Posso perciò far pagare una quota d'affitto a
chi si serve della mia abitazione, restandone io proprietario. E altrettanto
dicasi in casi consimili.
Ove però esistano beni che si risolvono nell'uso
dei medesimi - cioè come mezzo per effettuare gli scambi -, non ce ne possiamo
servire per ricavarne un usufrutto (205). Mentre infatti usiamo il frumento
impiegandolo [per la semina o l'alimentazione], il denaro esaurisce il suo ruolo
nel mediare lo scambio di altri beni. Così se vendi il tuo denaro, vendi [la
medesima cosa, di cui hai già ricevuto l'equivalente] due volte.
5. Nello stesso peccato [di appropriazione
indebita] cadono quanti si comprano qualche carica onorifica, temporale o
[peggio] di natura spirituale. Del primo caso leggiamo nella Scrittura: «Ingoiò
ricchezza e la vomiterà, gliela ricaccerà dal ventre Iddio» (Gb 20, 15). I
tiranni e tutta la genìa di signorotti che servendosi della violenza si sono
posti a capo di un regno, di una provincia o di un feudo, sono dei ladri e in
quanto tali hanno l'obbligo di restituire il maltolto.
A chi si è procacciato benefizi ecclesiastici a
suon di quattrini, Gesù ha detto: «Chi non entra nell'ovile per la porta ma vi
sale da un'altra parte, è ladro e brigante» (Gv 10, 1). Simoniaci, dunque,
uguale a ladri.
«Non rubare». Molte le ragioni che ci devono
indurre a evitare qualunque tipo di violazione del settimo comandamento.
Spesso è un autentico crimine, paragonabile
all'omicidio. Dichiara Ben Sirac (206): «Uccide il prossimo chi gli sottrae il
cibo, e sparge sangue chi priva l'operaio della sua mercede» (Sir 34, 25); e
qualche versetto più avanti: «Un assassino e uno che campa defraudando
l'operaio sono fratelli [degni l'uno dell'altro]» (Sir 34, 27).
Il furto poi comporta non pochi rischi. Forse
nessun altro peccato è così pericoloso. Perché una colpa venga perdonata si
richiede il pentimento e una corrispondente soddisfazione. Nella maggior parte
dei casi, il pentimento sopraggiunge presto: prendi, che so, un delitto compiuto
per impulso dell'ira; oppure la fornicazione, al placarsi della concupiscenza, e
via dicendo.
Ora, anche ammesso che il ladro si penta, non è
detto che egli sia egualmente pronto a rendere la refurtiva; e in più si
aggiunga il dovere di risarcire gli eventuali danni causati al legittimo
proprietario, oltre alla penitenza che gli verrà imposta per il peccato
stesso... Per questo esclamava un profeta: «Guai a colui che accumula roba non
sua! Quando la smetterà di affondare nella melma?» (Ab 2, 6). Dal fango denso
di un pantano è difficile tirarsi fuori.
Il frutto dei latrocini si rivela sterile. Non
giova certo allo spirito: «Non tornano utili i tesori di mal acquisto» (Prv
10, 2). Le ricchezze infatti producono un guadagno spirituale solo nella misura
in cui vengono date in elemosina o per offrire sacrifici di culto (cf. Prv 13,
8); ma di ciò che si possiede ingiustamente sta scritto: «Io, il Signore, amo
il [rispetto del] diritto, e odio la rapina che vorrebbe alimentare gli
olocausti» (Is 61, 8). Analoga riprovazione la trovi in una pagina del Siracide:
«Chi offre un sacrificio pagandolo col denaro dei poveri, somiglia a chi sgozza
il figlio sotto gli occhi di suo padre» (Sir 34, 24).
Né ci si può illudere che giovino a lungo: «Guai
a chi compie illecite rapine nella speranza di mettere in alto il suo riparo e
sfuggire ai colpi della sventura!... Certo, grideranno [contro di lui] le pietre
dei muri, e faranno loro eco le travi dei bastioni» (207).
«Chi accresce le sue ricchezze con usura e
interessi, le accumula [non per sé ma] per chi sente pietà verso i poveri»
(Prv 28, 8). In altri termini; «La ricchezza del peccatore passa nelle mani del
giusto» (Prv 13, 22).
Infine, il furto cagiona un danno ai beni già
posseduti [magari onestamente]: li manda in rovina, un po' come il fuoco che
cade sopra la paglia. «Il fuoco divorerà la tenda dell'uomo venale» (Gb 15,
34).
E tieni presente che un ladro non danneggia solo
la propria anima, ma l'esistenza dei suoi figli, obbligati spesso a rimetterci
di tasca [nell'indennizzo delle vittime].
8. «Non dir falsa
testimonianza contro il tuo prossimo» (Esodo 10, 16)
Dopo il divieto di nuocere al prossimo mediante
azioni ingiuste, il Signore ci comanda di non fargli del male nemmeno con le
parole, deponendo il falso contro di lui, sia di fronte a un giudice, sia nei
rapporti abituali.
Nel corso di un processo, possono violare il
precetto tre categorie di persone.
Innanzitutto, colui che accusa falsamente un
altro. «Non andar seminando la diffamazione tra il tuo popolo - si legge nel
Levitico - e non portare accuse infondate contro il prossimo, per attentare alla
sua vita» (Lv 19, 16). Erra anche chi ha l'obbligo di parlare, e non lo fa:
manca al dovere della correzione fraterna (208).
Il falso testimone non rimarrà impunito (cf. Prv
19, 5). E possono aver connessione con [la non-osservanza del]l'ottavo
comandamento tutti gli altri precetti fin qui esaminati: si deforma la verità,
spesso, per coprire un omicidio, un furto e via dicendo.
La pena cui essi [anticamente] andavano incontro
è descritta nel Deuteronomio: «I giudici faranno una diligente
inchiesta, e se troveranno che quel testimone mentisce e ha deposto il falso
contro un suo fratello, trattate lui come aveva pensato di fare al fratello...
Il tuo occhio non si muova a compassione: gli farai pagare vita per vita, occhio
per occhio, dente per dente, mano per mano e piede per piede» (Dt 19, 18.19;
21).
Ed è giusto il principio, dal momento che «una
mazza, una spada, un'acuta saetta è il delatore del prossimo con le sue false
accuse» (Prv 25, 18).
Incorre nella medesima riprovazione la persona
del giudice che si pone al servizio dell'iniquità. «Non commettere ingiustizia
nel giudicare; non guardare se uno è povero e non aver preferenze per chi è
grande, ma giudica con imparzialità il tuo prossimo» (Lv 19. 15).
Nel parlare quotidiano, facilmente vanno contro
l'ottavo comandamento le seguenti persone.
I maldicenti. Chi sparla del prossimo non è
gradito a Dio (cf. Rm I, 30), anzi gli dà disgusto poiché nulla l'uomo ha di
più caro, che la propria [buona] fama. Il buon nome è meglio di un unguento
prezioso o di grandi ricchezze (cf. Qo 7, 2; cf. Prv 22, 1), e i detrattori
cercano di toglierceli. «Se il serpente morde prima d'essere incantato, non c'è
nulla da fare per l'incantatore» (Qo 10, 11). Non provvedendo a riparare dopo
aver leso in maniera grave l'altrui fama, costoro non si salvano.
Poi viene chi dà facile credito al maldicente.
Raccomanda la Scrittura: «Fa siepe di spine alle tue orecchie, non ascoltare
una lingua facile a dir male degli altri; e alla tua bocca metti un chiavistello»
(Sir 28, 28). L'uomo [assennato] non deve ascoltare volentieri questi tali: deve
anzi mostrarsi accigliato, severo. Può darsi che si ottenga quanto,
figuratamente, dicono i Proverbi: come il vento di tramontana dissipa la
pioggia, così un ascoltatore dallo sguardo carico di rimprovero può costituire
un freno per la lingua del maldicente (cf. Prv 25, 23).
Seguono le persone pettegole, pronte a riportare
tutto ciò che han raccolto in giro. Eppure «vi sono sei cose che il Signore
detesta, anzi sette che il suo spirito abomina; [e quest'ultima è rappresentata
da] chi semina discordie tra i fratelli» (Prv 6, 16). «Maledetto il
delatore... che manda in rovina quanti vivono in pace... Un colpo di sferza
produce una piaga ma un colpo di lingua guasta più a fondo» (Sir 28, 15).
Dei cortigiani [nel senso peggiorativo], ossia
degli adulatori un salmo riferisce la mentalità: «Il peccatore vien lodato per
i suoi progetti [infami], e l'iniquo è applaudito» (Sal 10, 3). «Bada, popolo
mio, che chi ti chiama 'beato' ti sta illudendo» (Is 3, 12). Perciò il savio
si augura di essere rimproverato, nei suoi errori, con misericordia; preferisce
essere sgridato piuttosto che lasciarsi ungere il capo con l'olio profumato dei
malvagi (cf. Sal 140, 5).
La mormorazione, per concludere, così frequente
nei sudditi. La Sapienza ci esorta: «Guardatevi dalle vane mormorazioni e
trattenete la lingua dalla critica facile» (Sap I, 11), tanto più che [alle
volte] «un superiore si lascia piegare dalla pazienza, e una parola moderata può
vincere la durezza» (Prv 25, 15).
«Non dir falsa testimonianza contro il tuo
prossimo», in sintesi, proibisce ogni sorta di deformazione della verità. «Guardati
dalle menzogne, perché l'avvezzarsi a questo errore non è affatto un bene»
(Sir 7, 14). E ciò per quattro motivi.
I. Il mentire ci rassomiglia al diavolo. Come un
uomo lo si riconosce dal suo modo di parlare, dalla particolare cadenza, tipica
di una regione o di un paese (cf. Mt 26, 73), vi sono uomini che potremmo
chiamare diabolici, figli del demonio, per l'enormità o la sottigliezza dei
loro raggiri. Il diavolo è menzognero, padre dell'inganno, egli che per primo
osò alterare la verità: «No, voi non morrete; [anzi] diventereste come Dio,
acquistando la conoscenza del bene e del male» (Gn 3, 4).
Chi invece è veritiero si comporta da figlio di
Dio, verità per essenza.
2. Si guastano i rapporti sociali. Sarà
impossibile una pacifica convivenza qualora venga a mancare la fiducia
reciproca. L'apostolo Paolo perciò fa appello alla sincerità: «Ognuno parli
col prossimo senza doppiezza, giacché siamo tutti membra [del corpo mistico di
Cristo]» (Ef 4, 25).
3. Ne va di mezzo oltre tutto la propria fama.
Difatti non si concede facilmente credito a un uomo che racconta frottole come
se niente fosse. Non gli credi neppure quando dice la verità. «Da ciò che è
sporco si può ricavare qualcosa di pulito? E come ottenere, da un bugiardo, la
verità?» (Sir 34, 4).
4. L'anima ne subisce detrimento. Il bugiardo,
ossia una bocca menzognera, «uccide l'anima» (Sap I, 11). Tu [Signore] detesti
[e ti proponi di annientare] chi trama insidie ai danni del prossimo (cf. Sal 5,
7). Non di rado, quindi, la menzogna è peccato mortale.
Si impone una valutazione morale dei diversi tipi
di bugie: ve ne sono di assai gravi, ma anche di leggere.
E colpa mortale sostenere l'errore circa le verità
di fede. Devono guardarsene [in particolare] i teologi, specie se in vista, e i
predicatori. E la più grave, tra le alterazioni della verità, denunciata fin
dal tempo dell'apostolo Pietro, che scrive: «Come ci furono in mezzo al popolo
[israelitico] dei falsi profeti, ci saranno pure in mezzo a voi [cristiani] dei
falsi dottori, che introdurranno con astuzia delle sette rovinose» (2 Pt 2, 1).
C'è chi sostiene il falso, per desiderio di
apparire sapiente [sempre in materia di fede]. Se costoro arrivassero a burlarsi
dei credenti e a mettere in ridicolo la loro osservanza (cf. Is 57, 4),
potrebbero peccare anche mortalmente, assieme a chi danneggia in modo grave il
prossimo, con le sue menzogne.
Altri, invece, se non dicono il vero, lo fanno
senza danneggiare gli altri: ad esempio, per un senso di male intesa umiltà,
nel confessarsi. Li disapprova sant'Agostino: «Come bisogna ammettere quello
che uno ha compiuto, così non bisogna inventare ciò che non si è fatto». Una
bugia non fa mai piacere a Dio, che non ha bisogno delle nostre favole (cf. Gb
13, 7). Egli sa bene infatti che «c'è il perverso che si umilia a bella posta,
mentre ha l'animo pieno di intenzioni malvage» (Sir 19, 23). E c'è anche il
giusto che eccede nell'avvilire se stesso.
Si dicono pure le bugie nel timore d'essere
umiliati, come accade a chi inavvertitamente abbia affermato qualcosa di erroneo
e, resosene conto, si vergogna di rettificare. Tu però «non arrossire
nell'ammettere che hai sbagliato» (Sir 4, 30).
Non manca chi ricorre al raggiro onde ottenere ciò
che vuole, oppure per evitarsi un castigo. Si rifugiano nella menzogna, «si
sono trincerati nella frode», secondo una espressione di Isaia (Is 28, 15).
Efficace una sentenza dei Proverbi: «Chi cerca di costruire sopra la menzogna,
si pasce di vento» (Prv 10, 4).
Qualcuno giura il falso nel tentativo di rendersi
utile verso qualche amico, per scamparlo da morte o da altra incresciosa
situazione. Bisogna anche qui andar molto cauti: «Non aver riguardo di
qualsiasi persona con tuo danno, [ma] neppure devi mentire a spese dell'anima
tua» (Sir 4,26).
C'è chi racconta bugie solo per gioco; però
bisogna starci ugualmente attenti, ché l'abitudine non conduca pian piano a
violazioni gravi del comandamento. Infatti «il fascino della frivolezza oscura
il bene, e nell'impeto della passione resterà travolto l'animo semplice» (Sap
4, 12).
9.
La differenza fondamentale tra legge divina e
legge umana è questa: che mentre la seconda decide su parole e fatti esteriori,
la prima giudica perfino i moti dell'animo. Il legislatore umano potrà valutare
sempre e soltanto l'aspetto esterno d'una vicenda, invece Dio vede ogni cosa di
fuori e di dentro. Non sbaglia Davide nel chiamarlo: «Dio del mio cuore» (Sal
72, 26). L'uomo si ferma alle apparenze, ma Dio scruta in fondo all'animo (cf. 1
Sam 16, 7).
Vedremo adesso perciò un comandamento che
riguarda i pensieri, gli affetti e i desideri del cuore umano. Agli occhi di
Dio, acquista valore morale anche una semplice intenzione. Quindi egli ci
proibisce non solo di sottrarre al prossimo la roba che gli appartiene, ma anche
di considerarla nostra bramandola ardentemente. E i motivi [che ispirano un tale
precetto] sono tanti.
1. La concupiscenza è insaziabile. Una sorta di
appetito senza fine. L'uomo saggio però deve prefiggersi un limite in tutto,
essendo inoltre un'assurdità avviarsi per una strada che non ha termine. «Chi
ama il danaro, mai di danaro è sazio» (Qo 5, 9), e avuta una casa se ne sognerà
una seconda, ci si vorrà impadronire con ogni mezzo di un terreno da aggiungere
agli altri possedimenti, divenendo da soli i proprietari di un mezzo paese (cf.
Is 5, 8).
L'unica spiegazione che dia un perché a tanta
insaziabilità sta nel fatto che l'animo umano è stato adeguato a ricevere Dio.
«Ci hai fatti per te, Signore - esclama sant'Agostino -, e il nostro cuore sarà
irrequieto fin quando non si abbandonerà in te». Tutto ciò che non è Dio,
non può essere sufficiente a colmare questo vuoto interiore. «Soltanto lui
sazia di beni ogni tuo anelito» (Sal 102, 5).
2. Questa brama continua, ci priva della quiete,
di cui abbiamo tanto bisogno. Chi già possiede qualcosa, nutre in sé la
cupidigia di acquistare dell'altro, e sta continuamente all'erta per custodire i
suoi beni. «La sazietà del ricco non lo lascia dormire» (Qo 5, 11), poiché
il suo cuore veglia accanto ad essi (cf. Mt 6, 21). Non per nulla, Cristo ha
paragonato le ricchezze alle spine [delle preoccupazioni] di cui ha scritto
l'evangelista (cf. Lc 8, 14), come osserva san Gregorio.
3. La cupidigia svilisce le ricchezze, dal
momento che l'avaro, nel timore di perderle non le utilizza: né per sé, né
[tanto meno] a favore del prossimo. Tutto consiste nel tenerle sottochiave. A
che altro infatti gli servono i tesori? (cf. Sir 14, 3).
4. Rende difficile l'esercizio dell'equità e
della giustizia (209). La raccomandazione che possiamo leggere nell'Esodo vale
sempre e per chiunque: «Non accettare regali; poiché il regalo acceca anche
coloro che hanno la vista chiara e perverte le parole dei giusti» (Es 23, 8).
Infatti chi è condizionato dai doni che riceve, non resterà imparziale (cf.
Sir 31, 5).
5. Soffoca la carità verso i bisogni
altrui. Sant'Agostino ha sottolineato il rapporto che esiste tra amore del
prossimo e amor del denaro: più è forte quest'ultimo, più si attenua il
precedente; e viceversa. «Non cambiate un amico per un po' di denaro, e un
fratello [nemmeno] per l'oro di Ofir» (210). Altrettanto vale a proposito della
carità verso Dio: come non si può servire nel medesimo tempo a due padroni,
così neppure e al Signore e alle ricchezze (cf. Mt 6, 24).
6. In conclusione [l'avidità] è fonte di
svariati errori, radice di tutti i mali, fino a condurre al furto, all'omicidio
e a crimini anche peggiori (cf. I Tm 6, 10). Scrive san Paolo: «Contentiamoci
di poco; poiché quelli che vogliono arricchire, cadono nella tentazione [di
agire senza scrupoli], nel laccio del diavolo, [ossia] in molti desideri inutili
e nocivi, che travolgono gli uomini nella rovina e nella perdizione» (I Tm
8-9).
Nota che la cupidigia si configura quale colpa
grave se l'invidiare l'altrui benessere non ha attenuanti di sorta, che lo
renderebbero meno grave.
10. «Non desiderare la
donna del tuo prossimo» (Esodo 20, 17)
Nella sua prima lettera, san Giovanni ha scritto
che «tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, licenziosità
degli occhi e superbia di vita» (I Gv 2, 16). L'oggetto dei nostri desideri
rientra sempre in questa sfera; e già due di tali fomiti [ossia l'insaziabilità
degli sguardi e il desiderio smodato di primeggiare] risultano proibiti dal nono
comandamento: «Non desiderare la casa [o altre proprietà] del tuo prossimo».
Infatti una residenza [sontuosa o, almeno, vasta] viene considerata dagli uomini
quale espressione di grandezza, cioè di quell'appetito di denaro e di gloria di
cui parla il salmo 111 (cf. Sal 111, 3). Non si desidera una bella casa senza
vagheggiare insieme una posizione privilegiata.
Quindi, dopo il divieto di porre gli occhi
sugli splendidi palazzi altrui e di invidiarne gli onori, segue quest'altro, che
intende raffrenare i desideri carnali. «Non desiderare la donna del tuo
prossimo».
In seguito al peccato originale, nessuno,
oltre al Cristo e alla Vergine Maria, sfugge ai richiami della concupiscenza.
L'acconsentirvi non è mai una scelta morale indifferente: come minimo comporta
qualche venialità e, se arriva a dominarci, allora la colpa è grave. «Non
regni il peccato nel vostro corpo destinato alla morte, divenendo schiavi delle
sue concupiscenze» (Rm 6, 12). L'apostolo Paolo non si fa illusioni, conosce
bene e ammette la presenza della sensualità nelle proprie membra (211).
Il peccato si impossessa dell'uomo quando
la concupiscenza gli occupa il cuore, mediante il consenso. Allora diveniamo
schiavi dei piaceri (cf. Rm 6, 12). In concreto, «chiunque avrà guardato una
donna, per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei, nel suo cuore» (Mt
5, 28), poiché Dio, in una intenzione volontaria, vede il germe dell'azione.
Poi traduce in parole i pensieri che ha
coltivato nell'animo. La bocca infatti «parla per la sovrabbondanza del cuore»
(212); di qui il richiamo di Paolo: «Dalle vostre labbra non esca alcun cattivo
discorso...; qualunque amarezza e animosità, e arroganza, maldicenza e ogni
sorta di malizia sia rimossa da voi» (Ef 4, 29).
Non è senza responsabilità morale il comporre
canzoni vane, perfino secondo antichi saggi pagani, tanto che si giunse a
mettere al bando dalle città gli autori di poesie erotiche.
Passa infine all'azione, asservendo le membra ai
propositi della concupiscenza, ossia alla schiavitù della carne (cf. Rm 6, 19).
Per non cadere in questo genere di peccato
bisognerà impegnarsi seriamente, trattandosi di un'insidia latente; ed è
sempre un'ardua impresa spuntarla su un nemico che ti si nasconde in casa.
Vi sono tuttavia diversi sistemi per riuscirvi.
I. Fuggire le occasioni che puoi avere attorno,
le amicizie pericolose e tutto ciò che fortuitamente potrebbe facilitare la
resa. Quindi «non fissare una vergine, per non restare affascinato dalla sua
avvenenza... Non guardare a destra e a sinistra per le vie della città [sempre
per la suddetta ragione], girellando per le piazze. Distogli i tuoi occhi da una
donna formosa e non fissare una bellezza che non ti appartiene. Molti si sono
traviati per una donna piacente: il desiderio divamperebbe, come un incendio»
(Sir 9, 5-9). «E’ mai possibile - si legge nei Proverbi - mettersi il
fuoco in grembo e non bruciarsi le vesti?... Tale è colui che vuol godere la
donna del prossimo: chiunque la tocca non resterà senza danno» (Prv 6, 27-29).
Perciò fu giusto l'ordine impartito a Lot, di allontanarsi dai dintorni della
regione [maledetta] (213).
2. Non dar adito ai pensieri che forniscono
incentivo al risveglio della concupiscenza. Ci si riesce mortificando i sensi.
In base alla propria esperienza, l'apostolo Paolo poteva scrivere: «Castigo il
mio corpo. e lo tratto come uno schiavo» (I Cor 9, 27).
3. Insistere nella preghiera, dal momento che «se
non è il Signore a custodire la città, faticano inutilmente quelli che
vogliono custodirla» (Sal 126, 1). «Ho capito che non potrei serbarmi casto,
se Dio non mi dà grazia» (Sap 8, 21). E insomma quel genere di «demoni» che
«non si può scacciare altro che con la preghiera e col digiuno» (Mt 17, 20).
Se ti trovassi di fronte a due che si stanno affrontando e tu vuoi aiutare uno
di loro, mentre dai una mano a quest'ultimo, devi negare al primo qualunque
appoggio. Ora, tra la carne e lo spirito c'è una guerra incessante; perciò, se
vuoi la vittoria dello spirito, bisogna che tu gli dia il soccorso necessario: e
lo fai mediante la preghiera. Bisogna anche fiaccare la ribellione dei sensi: e
a ciò provvede il digiuno, che frena [gli eccessi del] la carne.
4. Farsi trovare sempre impegnato in qualche
buona faccenda, poiché «l'ozio è il maestro d'ogni sorta di mali» (Sir 33,
29) e, come spiega Ezechiele, «questa fu la colpa di Sodoma: superbia,
sovrabbondanza di cibo e lo star senza far nulla» (Ez 16, 49). San Girolamo
raccomanda [in una lettera a Paolino] (214): «Fa' sempre qualcosa di buono,
affinché il diavolo ti trovi già occupato». Tra tutte, la migliore
occupazione consiste nello studio della Bibbia; e prosegue, il santo: «Ama lo
studio della Scrittura; non troverai allora tanto incantevoli le depravazioni
della carne».
Possiamo ormai concludere. Abbiamo preso in
esame il decalogo, di cui il Signore [rispondendo a un giovane che lo aveva
interrogato] disse: «Se vuoi entrare nella vita [eterna], osserva i
comandamenti» (Mt 19, 17).
Alla radice dei singoli precetti troverai sempre
l'amore verso Dio e quello verso il prossimo.
All'uomo che vuole amare Dio si impongono tre
doveri: non avere altre deità (perciò sta scritto: «Non adorerai gli dèi
stranieri»). Al vero Dio va reso il dovuto onore, quindi «non nominare invano
il suo nome». Trova in lui, di buon grado, il tuo ristoro: «Ricordati del
giorno di riposo, per santificarlo».
Per mostrare poi al prossimo un amore autentico,
l'uomo deve esercitare la riconoscenza [specie nei confronti dei principali
benefattori]: «Onora tuo padre e tua madre»; non danneggiarne la persona
fisica: «Non uccidere»; né fare oltraggio alle persone che a lui sono care:
«Non commettere adulterio»; o portargli via i beni di fortuna: «Non rubare».
Non deve fargli del male con le parole - [soprattutto] «non dire falsa
testimonianza» -, e neppure con desideri illeciti. Perciò «non desiderare né
la roba né la donna del tuo prossimo».
Nella preghiera dell'Ave si distinguono tre
parti: la prima venne pronunziata dall'angelo, cioè: «Ave, piena di grazia, il
Signore è con te; tu sei benedetta tra le donne» (Lc 1, 28). L'altra da
Elisabetta, madre di Giovanni Battista, quando disse: «Benedetto il frutto del
seno tuo» (Lc 1, 42). La terza fu aggiunta dalla Chiesa: il vocativo «Maria»
(215). Difatti l'angelo non disse: «Ave, Maria», bensì: «Ave, piena di
grazia»; ma vedremo come il nome «Maria», nei suoi vari significati, si
addica al saluto dell'angelo.
In antico era considerato un grande onore il
fatto che gli angeli si mostrassero agli occhi umani, e sommo titolo di lode
l'essersi potuti prostrare dinanzi a quei messaggeri di Dio. Tant'è vero che a
lode di Abramo vien detto che egli ospitò gli angeli nella propria tenda,
rendendo loro la debita venerazione (216).
Ma del tutto insolito risulta che sia stato un
angelo a inchinarsi davanti a creatura umana, fino al momento in cui Gabriele
salutò la beata Vergine, devotamente: «Ave» (217).
La ragione per cui mai prima d'allora un
angelo si era abbassato di fronte a persona umana è questa: che egli la
sopravanza per tre motivi: quanto a dignità, a familiarità con Dio e al pieno
splendore della grazia divina [che rifulge nelle sostanze angeliche].
L'angelo è infatti di natura spirituale, come
attesta il salmo 103: «Tu hai creato i tuoi messaggeri come spirito» (Sal 103,
4), mentre l'uomo è corruttibile per natura. Disse in tal senso Abramo: «Io,
che sono polvere e cenere, parlerò al mio Signore?» (Gn 18, 27). Non era
quindi opportuno che una creatura spirituale e incorruttibile si umiliasse
dinanzi ad altra creatura, caduca, qual'è l'uomo.
L'angelo è familiare con Dio; un suo assistente:
«Mille migliaia [d'angeli] lo servivano, e miriadi di miriadi stavano in piedi
di fronte a lui» (Dn 7, 10). Al contrario, l'uomo è come uno straniero, dopo
essersi allontanato dal trono dell'Altissimo con la colpa d'origine. Ognuno di
noi può ripetere: «Ecco, me ne son fuggito lontano» (Sal 54, 8). Perciò è
assai più naturale che sia l'uomo a mostrarsi deferente nei confronti
dell'angelo, intimo familiare del celeste sovrano.
E infine, gli angeli partecipano largamente del
lume divino. [Bildad lo Shukhita] si domandava: «E’ possibile far un
censimento delle sue milizie? e c'è qualcuno tra loro che non è investito dal
divino fulgore?» (218). Per questa ragione, l'angelo si manifesta sempre come
un essere luminoso; gli uomini, invece, anche quando siano in qualche modo
toccati da quel lume di grazia, restano in una sorta di semioscurità. Non era
conveniente che l'angelo prestasse un atto d'ossequio o riverenza all'uomo finché
non si fosse trovato nelle umane generazioni qualcuno che lo superasse - per
spiritualità, familiarità con Dio e nel pieno splendore della grazia. Così fu
l'angelo che rese omaggio a Maria, salutandola: «Piena di grazia».
La beata Vergine, dunque, superò gli angeli per
tre motivi, a cominciare dalla pienezza di grazia che, in lei, è superiore che
non in qualunque spirito beato; e per sottolineare ciò, Gabriele le rese
omaggio chiamandola: «Piena di grazia», quasi volesse dire: «Ti ossequio
poiché mi vinci per sovrabbondanza di grazia».
I. La beata Vergine è detta «piena di grazia»
innanzi tutto riguardo alla propria anima, satura di grazia divina. Tale dono
viene concesso per due finalità: onde farci ben operare ed evitare il male.
Maria ebbe il duplice ausilio in misura perfetta. Ella evitò il peccato meglio
che qualunque altro santo, seconda soltanto rispetto al Cristo.
Esiste il peccato, che è di due specie. Da
quello originale Maria venne mondata fin dal grembo materno; e fu esente da
qualsiasi peccato personale, anche il più lieve. Si legge nel Cantico dei
Cantici: «Tu sei tutta bella, amica mia, e in te non è possibile trovare
alcuna macchia!» (Ct 4, 7). E sant'Agostino, nel trattato su La natura e la
grazia, aggiunge: «Esclusa la santa Vergine Maria, se la totalità dei
santi e delle sante fosse stata interrogata durante la loro vita terrena, se si
stimassero immuni da colpa, avrebbero esclamato concordi: 'Quando dicessimo di
non avere in noi l'esperienza del peccato, inganneremmo noi stessi: non ci
sarebbe la verità nelle nostre parole!' (I Gv I, 8). Tutti. Eccetto questa
santa Vergine che, come dico, non dev'esser neppure nominata in tale questione,
per l'onore dovuto a Dio. Sappiamo infatti che le venne concessa tanta grazia da
poter vincere la minima tentazione, quanto ne richiedeva il suo merito di
concepire e dare alla luce colui che di certo non conobbe ombra di peccato».
Cristo, d'altronde, superò la beata Vergine:
egli fu concepito senza la colpa d'origine mentre la Vergine santa, pur nascendo
senza peccato, ne fu sfiorata appena, all'atto del concepimento [nel grembo di
sua madre, Anna] (219).
Ella esercitò inoltre tutte le virtù, invece i
santi rifulsero solo in tal une di esse: chi fu particolarmente umile, chi
casto, chi misericordioso; singolarmente considerati, essi ci son d'esempio per
qualche virtù specifica (come san Nicola che vien citato a modello di
misericordia, ecc.). La vergine Maria è esemplare in ogni singola virtù:
difatti trovi in lei esempio d'umiltà, quando dice: «Eccomi, sono l'ancella
del Signore... Egli ha guardato alla pochezza della sua serva» (Lc 1, 38; 48).
Fu modello di castità («Non ho [né intendo avere] esperienze matrimoniali»)
(220); e così di seguito, per le rimanenti virtù. Sicché la beata Vergine fu
piena di grazia sia in ordine al bene da compiere, sia quanto al male da
evitare.
2. Di più, ricevette la pienezza della grazia
anche allo scopo di far ridondare l'eccesso [della medesima], dall'anima, nel
proprio corpo.
È già mirabile cosa che i santi abbiano quel
tanto di grazia sufficiente a santificarli nell'anima; ma lo spirito della
Vergine ne fu così ricolmo da traboccare nel suo fisico, da cui doveva prender
inizio il concepimento del Figlio di Dio. Dice al riguardo Ugo da san Vittore:
«Dato che l'amore dello Spirito Santo ardeva nell'animo suo in misura
singolare, produsse meraviglie nella sua carne, facendo germinare da lei
l'Uomo-Dio». È un appropriato commento a quanto aveva scritto san Luca: «Il
bambino che da te nascerà sarà santo, e verrà chiamato 'figlio
dell'Altissimo'» (Lc l, 35).
3. Maria fu piena di grazia anche in ordine alla
compartecipazione del dono a tutti gli uomini. Se è un fatto ammirabile che un
santo abbia posseduto la grazia in misura tale da procurar la salvezza di molti
altri, il possederne in quantità sufficiente da provvedere alla salvezza
spirituale del mondo intero, questo equivarrebbe ad aver la grazia in grado
massimo: ed è quel che si verifica in Cristo e nella Vergine beata.
In qualunque frangente ti trovassi, tu potrai
scamparne grazie alla gloriosa Vergine. Per simboleggiarne la potenza, può
applicarsi a lei ciò che si può leggere nel Cantico. «Innumerevoli corazze -
ossia ripari contro ogni pericolo - la circondano» (Ct 4, 4). E puoi averla al
tuo fianco, ad aiutarti nel compimento di ogni opera virtuosa; in questo secondo
senso è applicabile alla santa Vergine un'altra citazione biblica: «In me si
trova ogni speranza [necessaria] alla vita e alla virtù» (Sir 24, 25).
Dunque, Maria è piena di grazia, da eccedere per
abbondanza gli angeli stessi. Perciò è chiamata convenientemente «Maria»,
che significa: «Colei che ha in sé la luce». La sua anima, infatti, per
riportare alcune parole del profeta, «risplende nelle tenebre» (Is 58, 11):
luce che si irradia sopra l'intera umanità. Ecco perché Maria vien
rassomigliata al sole e alla luna.
Ella supera gli angeli anche quanto a familiarità
con Dio. Volle metterlo in risalto l'angelo: «Il Signore è con te»; quasi
dica: «Ti rendo ossequio giacché tu sei più intima con Dio, di quanto non lo
sia io stesso. Il Signore infatti è 'con te': Dio Padre e il suo Verbo!»
Nessun angelo né alcun' altra creatura potrà ripetere altrettanto. «Colui che
nascerà da te, sarà detto 'Figlio di Dio'» (Lc 1, 35). Nel tuo grembo, il
Figlio unigenito del Padre. Perciò, Maria, «esulta e giubila... che abiterà
in te, possente, il Santo d'Israele» (Is 12, 6).
Il Signore sta con la beata Vergine anche in
altro senso, rispetto al suo stare assieme agli angeli. [Diverso il rapporto:]
Dio, che si rende figlio di Maria, resta Signore delle schiere angeliche.
Lo Spirito Santo dimora in lei come in un tempio,
sicché essa riceve giustamente l'appellativo di «tempio del Signore, sacrario
dello Spirito Santo». Maria concepì [il Cristo] in virtù dello Spirito Santo,
che scese su di lei con la potenza dell'Altissimo (cf. Lc 1, 35). Un'intimità
col creatore più profonda di qualunque altra, cui possa aspirare una creatura:
sono in lei Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, l'indivisa Trinità; per
questo si canta della Vergine: «O nobile triclinio della Trinità» (221); e
l'espressione: «Il Signore è con te» è la più nobile che si possa
proferire. Giustamente l'angelo s'inchina davanti a Maria: è la madre del suo
Signore, e dunque Signora lei medesima. Le si addice [anche] perciò il nome «Maria»
che, in siriaco, viene interpretato «signora».
Infine, la beata Vergine supera gli angeli nella
purezza, dal momento che fu pura non soltanto in se stessa, ma dispensatrice di
purezza per tanti altri. Fu purissima sia quanto alla minima colpa - giacché
non contrasse il peccato d'origine, né commise alcun peccato, mortale o veniale
-, sia quanto alla pena (222).
A causa del peccato [d'origine] erano stati
comminati tre generi di castigo. La donna avrebbe concepito d'allora in poi con
pregiudizio della verginità, portato avanti nel disagio la gravidanza, e
partorito tra le doglie.
Ma la beata Vergine fu esente da tutto ciò:
concepì senza danno della propria integrità, tutta consolata portò in grembo
il Figlio e tra gaudi inenarrabili diede alla luce colui che è il Salvatore. Le
si possono adattare le parole d'Isaia: «Si coprirà di fiori..., fiorirà
simile al narciso; esulterà piena di contentezza e cantando laudi» (Is 35, 2).
Altra pena, data all'uomo: avrebbe dovuto
guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Ne fu esclusa la Vergine beata,
secondo la sentenza dell'Apostolo: «Le vergini si danno pensiero [unicamente]
delle cose che riguardano il Signore» (1 Cor 7, 34).
La terza è comune agli uomini e alle donne, il
cui corpo deve tornare [a risolversi] in polvere. La beata Vergine ne fu
risparmiata, essendo stata assunta in cielo, anima e corpo, quasi aderendo
all'invito: «Lèvati, Signore, verso la tua dimora: tu, e l'arca tua santa»
(Sal 131, 8).
Insomma, ella fu libera da ogni genere di
maledizioni; «benedetta tra le donne », lei che - tolta di mezzo la
maledizione - ci donò la benedizione [nel Cristo] e aprì l'accesso al
paradiso. Le si addice così il nome di «Maria» nel significato di «stella
del mare». Come infatti, grazie alla stella [polare], i naviganti si orientano
ritrovando la rotta verso il porto, similmente i cristiani son guidati da Maria
alla patria celeste.
Benedetto
il frutto del tuo seno (Lc I, 42)
Talvolta il peccatore cerca nei beni un godimento
che non gli riesce d'ottenere, mentre il medesimo viene concesso al giusto. E
detto nel libro dei Proverbi: «Le sostanze dell'empio sono serbate per
l'uomo retto» (Prv 13, 22). Eva, ad esempio, mangiò del frutto [proibito]
senza tuttavia trovarci quanto aveva sperato. La beata Vergine invece trovò nel
frutto del proprio grembo ciò che Eva aveva cercato invano.
I. Il diavolo le aveva ingannevolmente promesso
che [lei e Adamo] si sarebbero tramutati in dèi, capaci di 'conoscere il bene e
il male': «Sarete - promise quel bugiardo - simili alla deità» (Gn 3, 5).
Naturalmente mentiva, poiché è menzognero, ispiratore d'ogni falsità.
L'aver mangiato del frutto vietato non rese Eva
simile a Dio, bensì dissimile, giacché peccando s'allontanò dall'unico che
poteva salvarla. Venne cacciata dal paradiso.
Il contrario accadde alla beata Vergine ed a
ciascun cristiano: in forza della nostra unione al Cristo (223) siamo congiunti
e resi simili a Dio: « Quando in noi sarà attuale [lo splendore della vita
divina], saremo simili a lui, e lo vedremo quale egli è» (I Gv 3, 2).
2. Ancora. La donna aveva sperato di appagare il
proprio desiderio mangiando di quel frutto che le sembrava così appetibile. Ma
non ne trasse piacere, perché all'istante si ritrovò spogliata [di tanti doni]
e in preda all'angoscia. Nel frutto della Vergine [madre] troviamo invece soavità
e salute. L'ha detto la Verità incarnata: «Chi mangia la mia carne, partecipa
della vita eterna» (Gv 6, 55).
3. Il frutto bramato da Eva, infine, era
bello all'apparenza, ma assai più bello è il frutto della Vergine Maria, tanto
che gli angeli bramano di poterlo contemplare. Di lui canta il salmista: «Tu
splendi per bellezza tra i figli dell'uomo; soffuse di grazia sono le tue labbra»
(224), ed è un effetto della gloria del Padre.
Eva, al pari d'ogni altro peccatore, non
poté conseguire ciò che sperava dal peccato. E allora, quel che desideriamo
cerchiamolo nel Figlio della Vergine. È un frutto benedetto da Dio, che lo
arricchì d'ogni grazia, tanto da farla traboccare sino a noi appena gli
porgiamo il nostro ossequio. «Egli ci ha benedetti in Cristo, dall'alto dei
cieli, con ogni genere di benedizioni spirituali» (Ef I, 3). E benedetto dagli
angeli: «Lode, gloria; sapienza, rendimento di grazie, onore, potenza e forza
al nostro Dio, nei secoli dei secoli!» (Ap 7, 12). Benedetto dagli uomini, che
ripetono: «Ogni lingua riconosca che Cristo Gesù è il Signore, a gloria di
Dio Padre» (Fil 2, 11), e: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»
(Gv 12,13; cf. Sal 117, 26).
Benedetta di sicuro la Vergine santa, ma ancor più benedetto il frutto del suo grembo.
***
(1) Vedi commento ai due precetti della carità e ai dieci comandamenti più avanti.
(2) La collactio era una breve istruzione che aveva luogo nel tardopomeriggio (un'ora circa prima del tramonto) poco avanti la cena frugale a cui, nei tempi di digiuno, sarebbe seguita la recita di «compieta». A proposito della collactio super Symbolum, il manoscritto 31 dell'Oriel College di Oxford annota: Hoc non scripsit sanctus Thomas, sed aliquis post eum predicantem collegit. E il manoscritto vaticano n. 808 conferma che i testi da noi presentati «vennero raccolti mentre fra Tommaso li andava predicando in volgare». Successivamente furono tradotti in latino.
(3) Il computo di questi giorni tra i più singolari dell'anno liturgico veniva come ritmato da un tramonto all'altro: mercoledì-giovedì, giovedì-venerdì, venerdì-sabato. E il crepuscolo vespertino del sabato santo pareva presagire l'alba di risurrezione.
(4) «Sic ergo immunis fuit ab omni maledictione».
(5) MANDONNET, Le Carème de Saint Thomas d'Aquin, cf. pp. 10-13, Tip. A. Manuzio, Roma 1924.
(6) Una vasta zona dell'Italia centromeridionale, bagnata dal Volturno, che corrisponde in gran parte al territorio della provincia di Caserta. È da identificarsi con i Campi Laborini o Campi Laboriae citati da Plinio. Tra i suoi centri principali, Caserta e Capua.
(7) Che storicamente apparteneva alla Campania.
(8) Collezione novantiqua, Testi napoletani dei secoli XIII e XIV, a cura di A. ALTAMURA, pp. 151-157, Perrella, Napoli 1949.
(9) Ludovico, re di Francia.
(10) Lauda in nativitate de sancto Joanni Baptista, in Studi e testi n. 4, pp. 36-49, Roma 1901.
(11) Si desta; si spande.
(12) Archivio storico, III, pp. 322-23, Napoli 1957.
(13) Più d'uno dei nostri lettori conoscerà l'episodio accaduto a Bologna, allorché Tommaso, di già magister in sacra pagina, seguì docilmente a lungo un altro frate in giro per le compere, che lo aveva scambiato per un oscuro e sfaccendato ospite (cf. GUILLELMUS DE Tocco, Vita S. Thomae Aquinatis, cap. 25).
(14) Mt 27,
44.
(15) cf. Lc
23, 39-41.
(16)
MANDONNET, Le Careme de Saint Thomas d'Aquin, p. 11, Tip. A. Manuzio,
Roma 1924.
(17) Vedi, tra l'altro, pp. 55-62; 263-271.
(18) Del tutto infondato è il timore che possa trattarsi
di un'intrusione apocrifa, e la sua autenticità è consacrata da tempo nel
catalogo ufficiale (MANDONNET, Bibliographie thomiste, Le Saulchoir, Hain
1921; MICHELITSCH, Thomas Sehriften, vol. I, p. 187, Graz. 1913; GRABMANN, Die echten Sehriften des hl. Thomas von
Aquin, 3 ed., pp. 319-321, Munster 1949).
Circa il progressivo sviluppo della pietà mariana nel secolo di
Tommaso, lo Jungmann sottolinea come «nel 1226, il Capitolo generale dei domenicani a Trèves imponesse la regola seguente: 'ogni volta che, secondo la consuetudine, i fratelli laici recitano il Pater noster, vi devono aggiungere il saluto a Maria' [ ... ] . Così, un po' per volta, dopo dieci Ave, fu inserito un Padre nostro» (Histoire de la prière chrétienne, pp. 109-110, Fayard, Paris 1972). Ma vi è di più: un documento del 1198, per la diocesi di Parigi ma certo divulgato presto dovunque, prescriveva di associare l'Ave alle formule da sapersi a memoria e da recitarsi lungo la giornata (Pater e Credo).
(19) Formulazione compendiosa e autorevole delle fondamentali verità di fede.
(20) cf.
Sum. theol. II-II, q. I, a. 6.
(21) Sono le verità religiose che la ragione può accettare ancor prima che la fede infusa e la grazia santificante le avvalorino mediante l'autorità del Dio che le conferma nella rivelazione; tra esse: l'esistenza di Dio partendo dalla considerazione del creato e i motivi di credibilità come miracoli, profezie realizzate, santità eccezionale di Gesù, stabilità della Chiesa nonostante le persecuzioni.
(22) cf. Comment. in Joann., c. 5; Comment. in Math., c. 5. Cf. J. D, FOLGHERA, Saint Thomas et la prédication, Xenia thomistica, vol. II. pp. 583-95, Roma 1925.
(23) Vedi per quest'ultimo, Divus Thomas, pp. 445-479, Piacenza 1939.
(24) I
Tm 4, 10.
(25) cf. Sum. theol. III, q. 27, a. 2.
(26) ib. Ma non si può sostenere, come fa il Roschini (mariologo peraltro di tutto rispetto) che si tratti dell'ultima posizione di san Tommaso. Vedi Mariologia vol. I, p. 328, Milano 1941.
(27) IV Sent. lib. I, dist. 44, q. I, a. 3, ad 3um.
(28) Quodl. VI, a. 7. Ricordiamo incidentalmente che lo scritto potrebbe risalire al 1269-70.
29) «La Chiesa romana, sebbene non celebri la concezione [immacolata] della beata Vergine, tollera tuttavia la consuetudine di alcune Chiese di celebrare tale festa» (Sum. theol. III, q. 27, a. 2, ad 3um).
(30) Opuscula omnia t. II, cap. 27, pp. 168-169, Parigi 1927.
(31) Quodl. VI, a. 7.
(32) IV Sent. lib. I, dist. 44, q. I, a. 3.
(33) In Christo et in virgine Maria nulla omnino macula fuit. Opera omnia, t. 18, pag. 224, ed. Fretté.
(34) Ibidem. Corpus suum [Christus] 'posuit in sole', idest in beata Virgine, quae nullam habuit obscuritatem peccati. Di proposito non abbiamo addotto il testo: «Sic ergo [Maria] immunis fuit ab omni maledictione» nel novero degli argomenti in favore d'un orientamento immacolatista in san Tommaso. Esso si presterebbe infatti alla critica, legittima, che qui egli si riferisce di certo ai castighi connessi col peccato originale. Affermando invece che in Virgine Maria nulla omnino macula fuit e che nullam habuit obscuritatem peccati, l'accento ci sembra spostato senza possibilità di equivoco sull'immunità dalla macchia d'origine e dal conseguente fornite.
Rimandiamo il lettore che volesse prender visione degli originali latini (da noi tradotti in uno stile divulgativo ma insieme aderente al testo e al pensiero dell'Angelico) agli Opuscula theologica, vol. II «De re spirituali», Marietti, Torino 1954.
A traduzione compiuta ci si è presentata provvidenzialmente l'opportunità di poter consultare il testo critico, in preparazione, degli opuscoli In orationem dominicam e In salutationem angelicam. Di ciò siamo grati, con il lettore, agli esperti che lavorano al completamento della «Edizione Leonina».
(35) Celebre l'espressione assiomatica di san Paolo: «Chi si accosta a Dio deve credere nella sua esistenza, e che egli premia quelli che lo cercano» (Eb 11, 6). Estranee al contesto del brano citato, ma ugualmente fondamentali, sono altre verità rivelate, quali la fede nella Trinità e nella incarnazione del Verbo.
(36) Ossia, il complesso delle realtà di «questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole» (Paolo VI, Professione di fede) - beni temporali, appetiti e sregolatezze - che costituisce un mondo in frequente opposizione col retto vivere. Da queste tre radici hanno origine tutte le infrazioni al codice divino.
(37) cf. Sir 3, 25. «Questi due nomi 'Essere' e 'Amore' esprimono ineffabilmente la stessa realtà di Colui che ha voluto darsi a conoscere a noi e che 'abitando in una luce inaccessibile' (1 Tm 6, 16) è in sé stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di sé stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo» (dalla Professione di fede, di Paolo VI).
(38) cf. 2 Tm l, 12; cf. Sir 2, 8. L'«Ecclesiastico», uno dei sapienziali dell'A.T. ha come autore uno scriba di Gerusalemme vissuto intorno all'anno 200 a.c. e chiamato Ben Sirac. Si è preferito perciò indicare la sua opera come «Libro del Siracide» o semplicemente Siracide, meno equivoco, per la mentalità moderna, del titolo latino, che; italianizzato, era divenuto il «Libro dell'Ecclesiastico».
(39) Con il termine sancti, preso nella sua accezione maggiormente estensiva, san Tommaso intende prima di tutto gli scrittori divinamente ispirati dell'A. T., sino agli evangelisti, al collegio apostolico, a Paolo e agli altri autori delle «lettere cattoliche», senza escludere i successivi dottori della Chiesa, i quali rifulsero per santità di vita oltre che per ortodossia.
(40) Sap 14, 21. Per gli orientali il nome definiva l'essenza del portatore, quasi parte integrante della persona. Identità, dunque, tra il nome e la persona divina. Nome, il suo, non imponibile ad alcuna creatura, unico come è unico Dio. Cf. Is 42, 8: «Io sono il Signore: questo è il mio nome; non darò ad altri la mia gloria, né ai simulacri l'onore che mi è dovuto».
(41) Antichi strumenti portatili, quasi sempre di rame o d'ottone, coi quali gli astronomi e gli astrologi seguivano i moti delle stelle. Qui evidentemente sono oggetto di condanna in quanto potevano essere usati per scopi cultuali o magici.
(42) Da vero sapiente, Tommaso alterna alle subtiles rationes della teologia speculativa qualche esempio elementare (quodam rudi exemplo), come nel caso del paragone di cui si serve per rendere accessibile ai fedeli raccolti intorno al pulpito la famosa quanto ardua quarta via, sui gradi di perfezione dell'ente.
(43) cf. Gn I, 1; cf. Gv I, 3. Sui manichei, vedi nota n. 51.
(44) Vescovo eretico, di Sirmio; fu condannato dal concilio di Antiochia (345), ed esiliato.
(45) Eretico del III sec., sostenitore di una dottrina antitrinitaria. I suoi seguaci erano detti anche patripassiani, sostenendo che, data la identità tra il Padre e il Verbo, nella persona di Gesù avrebbe patito il Padre.
(46) Teologo africano nato alla fine del secolo III; sostenitore di Origene, finì per ridurre il cristianesimo a un sistema di elementi razionali, svuotandolo di ogni contenuto religioso
(47) Unione ipostatica è quella delle due nature, umana e divina, nella persona del Cristo.
(48) Il concilio che nel 325 venne indetto per difendere l'ortodossia dagli attacchi dell'arianesimo - che tra l'altro negava la consostanzialità del Figlio al Padre -, mediante un simbolo conclusivo, o «fede di Nicea».
(49) Origene (185 circa - 254 circa) è tra i maggiori eruditi e tra i primi e più geniali apologeti del cristianesimo antico. Tuttavia alcuni punti del suo sistema teologico si sono prestati a sviluppi inesatti, tra cui ricorderemo una certa subordinazione del Logos (o Verbo) al Padre, la creazione ab aeterno, la preesistenza delle anime.
(50) Vescovo eretico, di Sirmio; fu condannato dal concilio di Antiochia (345), ed esiliato.
(51) Si riallacciavano a Mani, e professavano una visione dualistica del mondo, predicando la coesistenza e il conflitto dei due opposti principi, il bene e il male. Il più celebre convertito da questa suggestiva teoria resta sant'Agostino.
(52) Forse il nome di Ebione deve essere considerato nome comune (quindi dovremmo leggere: «un ebreo, della setta ebionita»). Oltre però al movimento ereticale, vi erano degli ebioniti giudeo-cristiani nei limiti dell'ortodossia.
(53) Per Valentino, filosofo gnostico del II secolo, dall'accentuata concezione mistico-visionaria della realtà, lo stesso Cristo sarebbe stato uno - e certo il più alto - degli «eoni» (ossia delle emanazioni divine, intermedie tra Dio e l'uomo), cui fu riservato il compito di presentare la rivelazione.
(54) Teologo africano nato alla fine del secolo III; sostenitore di Origene, finì per ridurre il cristianesimo a un sistema di elementi razionali, svuotandolo di ogni contenuto religioso.
(55) Apollinare il Giovane, vescovo di Laodicea, vissuto al tempo di Agostino neo-convertito. Fu condannato ripetutamente per la sua errata dottrina sull'incarnazione.
(56) Archimandrita di un monastero greco (348-454 circa), avversario delle tesi nestoriane, cadde nell'errore opposto, negando l'esistenza di una vera natura umana nel Cristo.
(57) Patriarca di Costantinopoli, morto intorno al 451, è famoso tra l'altro per la controversia sul termine di theotòkos (madre di Dio), che egli negava alla Vergine Maria.
(58) Nel concludere il racconto delle visioni dell'Apocalisse (22, 8-9), Giovanni cade in ginocchio con l'intento di prostrarsi ai piedi dello spirito celeste che gli ha mostrato la nuova Gerusalemme. Ma l'angelo gliel'impedisce.
(59) «Tutto quanto il popolo rispose [a Pilato]: 'Il sangue di costui [ricada] su di noi e sui nostri figli'» (Mt 27, 25). Ai commentatori che fanno notare come neppure quarant'anni dopo la splendida capitale sarà distrutta e i pochi scampati alla morte verranno dispersi - quasi come indubitabile castigo per l'indubitabile tentato deicidio -, altri fanno notare che la folla, osannante il «giorno delle palme», poté mutare il proprio atteggiamento nei confronti di Gesù in maniera radicale solo a seguito della infuocata campagna denigratoria svolta dai sommi sacerdoti e dagli anziani. Nelle ultime ore infatti essi hanno diffuso tra quella gente fanaticamente religiosa la frase di Gesù contro il tempio e l'accusa di bestemmia (Mc 15, 29). «La folla, gelosa dell'onore di Dio e del suo santuario, ne è profondamente colpita e reagisce contro il Maestro, reclamando la sua crocifissione» (F. URICCHIO - G. STANO in: Vangelo sec. s. Marco, Marietti 1966, pp. 618-619).
Assai di recente l'episcopato francese ha precisato, in un testo di orientamento pastorale, che «è errore teologico, storico e giuridico ritenere il popolo ebraico indistintamente colpevole della passione e morte di Cristo, e definitivamente spogliato della sua elezione». (cf. Concilio Vaticano II, NA, n. 4).
(60) Commentando questo passo di Mt 26, 54 san Tommaso ci
insegna che Dio conosce le cose in se stesse sia prevedendo eventi futuri, sia
stabilendoli egli stesso (salva sempre la libertà umana). Si dice che le
profezie «dicono che una cosa dovrà accadere» nel senso che i profeti,
vedendo l'evento futuro sul libro della prescienza divina, hanno percepito un
riflesso, un barlume della prescienza medesima. E Gesù, perfettamente conscio
dei disegni provvidenziali attraverso cui si realizza la salvezza dell'uomo, ne
accetta ogni dettaglio, confermando così l'onniscienza di Dio e la credibilità
dei profeti. (cf. Comm. in
Matthaeum 26, 54; cf. Sum. theol. II-II q. 173, a. I; ib. q. 174,
a.I).
(61) cf. Sal 87, 4. Solo con la rivelazione del N.T. si è fatta sufficiente luce circa la retribuzione ultraterrena, potendosi ormai discernere nell'oltretomba (sheol) il limbo, il purgatorio e l'inferno, di contro al regno dei cieli (seno di Abramo).
(62) La circoncisione indicava a un tempo separazione dagli idolatri, appartenenza al popolo eletto discendente da Abramo, e costituiva il simbolo profetico del battesimo purificatore.
Riconsiderando i problemi connessi con la tradizionale dottrina sul limbo dei bambini, alcuni teologi si orientano oggi verso nuove soluzioni. Il cristianesimo - religione che estende al massimo le possibilità di conseguire la salvezza e la fruizione della visione beatifica -, come fa notare J. GALOT non è unicamente «una religione di adulti». Egli pone in rilievo che «il battesimo è principalmente un atto della comunità, e il voto del battesimo [come, analogamente, quello della circoncisione, Ndt] è sempre comunitario prima d'essere individuale: la Chiesa è sempre la prima a desiderare il battesimo e questo desiderio concerne tutti gli esseri umani. Nel caso dei bambini è la comunità ecclesiale che supplisce all'assenza di volontà personale». L'estensione della salvezza concessa ai piccoli, morti senza battesimo, [o senza circoncisione, Ndt] si accorderebbe meglio con la paterna bontà di Dio (cf. Civiltà Cattolica 1971, II, pp. 345-346).
(63) Per san Tommaso quel grido vorrebbe mettere in risalto le energie latenti, rimaste intatte anche dopo il supplizio della croce in quello straordinario soggetto dell'unione ipostatica.
(64) Is 14, 13. «Il versetto contiene la somma espressione dell'orgoglio anti divino. E per 'monte dell'assemblea o dell'adunanza' Isaia si rifà a una concezione mitologica fenicia, secondo la quale un'altissima montagna del settentrione era la dimora degli dèi» (Nuovissima versione della Bibbia, Isaia, Roma 1968).
(65) Col 3, I. «La vita soprannaturale a cui siete risuscitati è nascosta in Dio, perché è una partecipazione della vita gloriosa del Cristo, la quale è sottratta agli occhi del mondo. Mentre voi infatti siete figli di Dio, il mondo non vede in voi che figli di Adamo afflitti, deboli, perseguitati, ecc. Ma non sarà sempre così, poiché quando Cristo comparirà alla fine dei tempi in tutto lo splendore della sua gloria, allora anche in voi la vita soprannaturale si manifesterà pienamente nella gloria non solo dell'anima, ma ancora del corpo» (M. SALES, Nuovo Testamento, vol. II, Torino 1914).
(66) cf. Qo II, 9; cf. Sir 12, 6. Il nome ebraico Qohélet è ormai subentrato all'uso antico, per indicare uno dei libri sapienziali più discussi e suggestivi dell'A.T. l'Ecclesiaste.
(67) Forse per la loro collocazione nella cavità addominale e su una linea mediana che idealmente attraversi il corpo umano, i reni venivano considerati simbolo dell'intimo da cui procedono desideri e passioni e in cui si ripercuotono i sentimenti di gioia, odio e tristezza.
(68) cf. Prv 6, 34. «Andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'amore e alla misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto» (Paolo VI, Professione di fede).
(69) Le espressioni «collera di Jahvè» (2 Sam 24, I), l'«ira che deve venire» predicata dal Battista (Mt 3, 7), il «calice dell'ira» che dovrà spandersi sui peccatori (Ap 14, 10), lo sdegno di Dio che si scatenerà nel giorno del giudizio universale hanno ispirato la sequenza del Dies irae, allorché sarà operata una equa discriminazione retributiva tra giusti e peccatori.
(70) Concetto infatti dice idea concepita dalla mente, così come verbo è, innanzitutto, la parola - espressa o inespressa - dell'intelligenza.
(71) 2 Pt I, 21. Alla citazione di Pietro, san Tommaso ne fa seguire una seconda. Il testo masoretico ha: «Il Signore Dio e il suo Spirito mi hanno mandato», il che esprime una verità indubitabile e ampiamente dimostrabile nel caso di ciascun profeta; ma nel contesto di Isaia (48, 16) non essendo chiaro se sia ancora Jahvè che paria oppure il profeta o, cosa inverosimile, Ciro quale esecutore del volere di Dio, si è preferito far ricorso a una annotazione in calce.
(72) Montàno, dopo la sua conversione al cristianesimo, sostenne di esser la voce del Paraclito (Spirito Santo) e di aver avuto visioni preannunzianti il non lontano ritorno di Cristo. Predicava fantasie pseudoreligiose accompagnato da due profetesse, Priscilla e Massimilla (e secondo taluni da una certa Quintilla).
(73) 1 Pt 4, 8. Sopraggiungendo come un valido intercessore che, interpostosi figuratamente tra le nostre colpe e Dio, lo induce al perdono.
(74) Ez 36, 26. Il cuore che s'indurisce, nella letteratura ebraica, denota la volontà ribelle dell'uomo; perciò con la metafora del cuore di pietra che torna a essere sensibile e vibrante si vuole esprimere, ed è il caso della citazione di Ezechiele, il ritorno a Dio, la conversione.
(75) cf. 1 Cor 3, 17. « Essa - secondo la meditata formula di Paolo VI - 'è santa pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini che impediscono l'irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il sangue di Cristo e il dono dello Spirito Santo'. Questo inestricabile intreccio di grazia e di peccato, questa orditura di fedeltà e di tradimenti, dalla trama della vita secolare affiora sul tessuto della stessa Chiesa; la quale, santa in se stessa e per l'apporto dei figli migliori, si deve pur riconoscere peccatrice in tanti di noi che la realizziamo» (R. SORGIA, Ma lo conosci davvero il Papa?, Cantagalli, Siena, 1971, p. 213).
(76) Sinonimo di Messia, Perciò il servo di Jahvè, come ogni uomo consacrato al servizio di Dio, è sacro e inviolabile.
(77) Seguaci dello scismatico vescovo africano Donato, contemporaneo di sant' Agostino.
(78) «Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell'Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i patriarchi e i profeti; fondata sugli apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di pastori nel successore di Pietro e nei vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità che Dio ha manifestata in una maniera ancora velata per mezzo dei profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù» (Paolo VI, Professione di fede).
(79) L'interiore religiosità, la sua morte - tipo del sacrificio di Cristo innocente - e primizia dei martiri per la causa della giustizia lo accomunano idealmente al popolo di Dio che è la Chiesa santa.
(80) Scrive san Leone il Grande, commentando la ricorrenza liturgica della cattedra di Pietro: «Il diritto di questo potere passò senza dubbio anche agli altri apostoli e la costituzione di questo decreto pervenne a tutti i principi della Chiesa; ma non senza un motivo viene affidato a uno solo, quello che a tutti viene imposto. Perciò il potere è concesso in modo particolare a Pietro perché la figura di Pietro viene preposta a tutti i reggitori della Chiesa».
(81) Rm 6, 3. La forma battesimale cui fa cenno subito dopo prevalse fino al secolo XII.
(82) I Cor II, 29. «Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo corpo [mistico] che è la Chiesa. Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma cercano sinceramente Dio e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch'essi, in un numero che solo Dio conosce, possono conseguire la salvezza» (Paolo VI, Professione di fede).
(83) L'infusione della carità in un'anima è paragonabile al sole nell'atto di illuminare l'aria. Perciò come cessa la luce nell'aria non appena si frapponga un ostacolo all'azione illuminante dei raggi solari, così la carità cessa di pervenire nell'anima non appena [come nel caso della colpa grave] qualcosa ne impedisca l'afflusso. Il fatto che un uomo preferisca finalizzarsi su un bene contingente piuttosto che restare fedele al proprio Dio, ha come conseguenza la perdita dell'abito della carità. Anche per un solo peccato mortale. (cf. Sum. theol. II-II q. 24, a. 12).
(84) Oggi è indicata più opportunamente col nome di unzione degli infermi.
(85) L'Aquinate non ha affatto una visione manichea del matrimonio cui, anche se qui si limita a un breve cenno, nella Somma teologica dedica le questioni 41-68 del «Supplemento».
Per san Tommaso, il matrimonio in quanto è ordinato alla procreazione della prole, fu istituito prima del peccato originale; in quanto invece è un rimedio alle ferite del peccato stesso (rendendo onesta la concupiscenza) entrò in vigore al tempo della legge di natura (cf. q. 42, a. 2).
«Più l'amicizia è grande, più dev'essere salda e durevole. Tra marito e moglie dev'esserci logicamente la più grande amicizia dato che essi si uniscono... per condividere tutti i momenti e le fasi della vita domestica» (Sum. contra gent. lib. 3, c. 123).
Beni del matrimonio sono la prole (che i coniugi cristiani intendono generare e educare, in una specie di esistenziale culto di Dio), la fedeltà reciproca, e la sacralità che lo rende indissolubile e meritorio.
Oltre che un dovere sociale, il matrimonio è sacramento della nuova alleanza, cui si offre a modello l'unione del Cristo con la Chiesa: del Cristo che «accettò la passione per unire a sé la Chiesa» (q. 42, a. I, ad 3um).
San Tommaso dunque considera nella giusta luce il settimo sacramento, intuendo tra l'altro i due significati essenziali - «unitivo e procreativo» - dell'atto coniugale ribadito nell'enciclica Humanae vitae di cui riportiamo un passaggio significativo: «Usare di questo dono divino distruggendo, anche soltanto parzialmente, il suo significato e la sua finalità è contraddire alla natura dell'uomo come a quella della donna e del loro più intimo rapporto, e perciò è contraddire anche al piano di Dio e alla sua volontà. Usufruire invece del dono dell'amore coniugale rispettando le leggi del processo generativo significa riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri nel disegno stabilito dal Creatore» (Humanae vitae, n. 13).
(86) Intendi, ad esempio, terziari e benefattori.
(87) Mt 22, 30. Nella religione biblica è l'analogo soggiorno dei morti chiamato ade dai greci e inferi dai latini. (Vedi anche nota I, a pag. 72). Lo stesso termine inferno designava il sotterraneo paese delle ombre, la casa dei morti, compresi i giusti in attesa del Messia redentore e liberatore.
(88) Nell'esporre il pensiero escatologico della teologia medievale e suo proprio, san Tommaso dà prova d'una discrezione ancor più accentuata del solito, e basandosi sulle rare indicazioni scritturistiche passa in rassegna le qualità dei risorti traendone congetture o conclusioni di razionale convenienza (cf. Sum. theol. Supplem. qq. 79-86).
(89) Gl I, 17. Oggi viene offerta come probabile la lettura: «Sono marciti i semi sotto le zolle», quantunque gli esegeti aggiungano che tre o quattro dei vocaboli ebraici presenti in questa frase non appaiono altrove nella Bibbia (hàpax legòmena).
(90) Si allude qui non alla morte corporale cui farà séguito la risurrezione, bensì alla condizione di estrema amarezza e di definitiva esclusione dei reprobi dalla vita eterna.
(91) Sal 48, 15. Con il termine fuoco, nota altrove san Tommaso, innanzitutto «viene designato qualsiasi tormento, quando è gagliardo» (Sum. theol., Supplem. q. 97, a. I), e quindi può indicare l'insieme delle pene infernali. Come entità fisica, tuttavia non illuminerà l'ambiente (tra le tenebre, il riverbero d'una fiamma apporterebbe di già un qualche sollievo); ma se vi sarà un minimo di chiarore, esso dovrebbe attenuare l'oscurità «quel tanto che basta per lasciar vedere le cose capaci di tormentare [ulteriormente] l'anima» (ib., a. 4). Potrebbe somigliare a quel fuoco torbido che, appiccato allo zolfo, brucia lentamente producendo un fumo denso (cf. ib., a. 6). Nondimeno, ricordiamo che - misteriosamente alimentato - esso non consumerà il corpo dei dannati.
(92) Giovanni il Damasceno (ossia nativo della città di Damasco) è uno dei padri e dottori della Chiesa; vissuto tra il 650 e il 750, occupa un posto eminente anche nella poesia liturgica bizantina.
(93) Sal 62, 5-6. Queste parti di un animale commestibile erano considerate dagli ebrei le più gustose. Nel fervore della preghiera, l'anima visitata da Dio si sentiva come saturata da un cibo delicatissimo.
(94) Tra le in vocazioni liturgiche, la Chiesa ne ha inserito una mediante cui chiediamo d'essere liberati sia dal pericolo sempre incombente di peccare, sia dai castighi e dalle conseguenze meritati a causa delle precedenti trasgressioni.
(95) cf. 2 Cor 12, 8. Varie le interpretazioni circa la natura dello stimulus carnis (o angelus satanae). Su queste due metafore esprimenti una medesima realtà si sono avanzate le più disparate spiegazioni; più probabile pare l'allusione a una malattia che affliggeva l'apostolo e doveva essere nota ai destinatari della lettera. In ogni caso, va messo in evidenza l'insegnamento di fondo: Dio se ne serve per mantenere Paolo (che ha sperimentato le più vertiginose altezze mistiche) nella umiltà che è coscienza della dimensione creaturale.
(96) Eb 12, 9. Creatore, cioè, dell'anima umana e delle sostanze angeliche.
(97) cf. Sal 101, 20. Più sotto cf. ib. 27-28 e Sal 28, 30.
(98) cf. Sal 102, 19. Al di sopra di questo mondo in cui tutto ciò che esiste per via di generazione è destinato, attraverso successive fasi, a corrompersi fino al dissolvimento nei suoi principi sostanziali, stava - per la cultura greca - ciò che è immobile, imperituro, eterno.
(99) Santi possono dirsi tutti i cristiani in quanto messi a parte per il servizio di Dio mediante la vocazione elettiva. Dal gruppo dei testimoni presenti alla pentecoste, il termine si estese a tutti i credenti della Giudea e infine a ciascun fedele, compresi i convertiti dal paganesimo. Santi, cioè, in quanto purificati e incorporati al Cristo, nonché avviati al processo di personale santificazione che è la «metànoia» (radicale mutamento nel modo di pensare, di giudicare e di sentire, e quindi conversione incessante secondo gli orientamenti dei precetti o dei consigli evangelici).
(100) cf. Gb 5, l. Anche se nel contesto la frase rivolta a Giobbe dall'amico Eliphaz è in qualche modo ironica e forse va riferita agli angeli, rimane il senso di base e documenta l'antichissima consuetudine di ricorrere al patrocinio dei migliori.
Di fede è l'efficacia impetratoria e soddisfatoria dei vivi per altri vivi, valida pure nel rapporto di carità tra noi e le anime del purgatorio.
Anche l'apostolo Giacomo raccomanda la vicendevole carità della preghiera, tra presbiteri, comunità e singoli fedeli (cf. Gc 5, 16).
(101) Vescovo d'Antiochia martirizzato a Roma, Ignazio è autore tra l'altro di un epistolario, breve ma fondamentale documento del cristianesimo antico.
(102) Umiliatosi al di sotto della propria sublime dignità - col subire i più iniqui giudizi umani, soffrendo i patimenti e la morte da cui era esente anche in quanto uomo; sopportando insulti e derisioni; sperimentando la permanenza nel sepolcro e nell'oltretomba -, Cristo ha meritato quattro tipi di esaltazione: la risurrezione gloriosa; l'ascensione al cielo; l'innalzamento alla destra del Padre e il potere di giudicare sull'intero creato (cf. Sum. Theol., III, q. 49, a. 6).
(103) Dt 4, 24. L'alleanza col popolo eletto è concepita da Jahvè in termini nuziali, per cui l'idolatria ha sapore di adulterio e provoca l'ira contro i colpevoli, simile a un incendio dalle fiamme purificatrici.
(104) Sancire è lo stesso che fissare solennemente, rendendo irrevocabile un decreto e inviolabile un impegno. In tal modo, la cosa o la persona diveniva «sanc(i)ta», sancta.
(105) cf. Fil 3, 8. Alla prima tra le sette domande rivolte al Padre, corrisponde la beatitudine evangelica «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3), e il dono del timore.
(106) L'etimologia di sanctus «quasi san [guine tin] ctus» richiama ovviamente lo stile e forse l'ispirazione di Isidoro di Siviglia, per il quale i vocaboli rivelano significati emergenti dalla loro stessa natura oppure, spesso, dalla necessità di trovare dei sostegni per una determinata intuizione, di carattere per lo più apologetico.
(107) I Cor 15, 25. La citazione paolina si rifà al versetto di un salmo messianico (Sal 109, I): «Il Signore [Dio Padre] ha detto al mio Signore [cioè al Verbo incarnato]: 'Siedi alla mia destra fino a che io non avrò sistemato i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi'».
(108) L'inferno non è una vendetta di Dio, bensì la faccia scoperta del peccato, il rifiuto del dialogo, radicalizzato sino al rigetto d'ogni compromesso tra un uomo e la divinità, nonché del Cristo in funzione di mediatore.
Di notevole efficacia, quindi, la formulazione olandese dell'inferno come «peccato eterno»: uno stato d'indurimento morale in un'anima dove Dio e la sua grazia non riescono più a trovare il minimo spiraglio attraverso cui, per così dire, possa filtrare l'azione salvifica. L'inferno è qui rivelato nel definitivo auto isolamento del peccatore.
Si aggiunga che Dio non gode delle pene cui la sua giustizia, stando così le cose, deve lasciare libero corso. Anzi «perfino nella dannazione dei reprobi appare la misericordia, non già sotto forma di indulgenza [del resto rifiutata] ma per una certa clemenza, poiché punisce meno di quanto sarebbe dovuto» (Sum. Theol. I-II, q. 21, a. 4).
(109) Mt 5, 4. «Beati i mansueti, poiché possiederanno la terra». Questa non-violenza evangelica realizza l'opposizione all'orgoglio, all'ira, alla vendetta.
(110) cf. Eb 10, 34. L'apostolo si riferisce a una delle prime persecuzioni subite dai giudei convertitisi al cristianesimo. Seguirono all'arresto l'esposizione degli imputati allo scherno popolare, il sequestro di ogni proprietà, il carcere e, per molti di loro, la morte.
(111) Prv 3, 5. L'uomo che non riconosce altri maestri all'infuori di se stesso - così san Bernardo -, «si pone alla scuola di un discepolo pericolosamente imperito».
(112) cf. Prv 11, 2. Doti dell'uomo sapiente sono prudenza ed equilibrio, matura consapevolezza dei propri limiti ed esperienza delle cose umane.
(113) Il Figlio di Dio ha preso una umana natura perfetta, cui competono le facoltà intellettiva e volitiva; tuttavia, nel Cristo, la natura umana non ha subito alcuna minorazione rispetto agli attributi divini. Egli agì dunque quale strumento libero della personale volontà, che si determinava mediante l'adesione ai disegni del Padre nella pienezza della carità (cf. Sum. theol. III q. 18, a. I).
(114) Questa della salvezza è quasi un luogo comune, tra molti altri che ricorrono nella fraseologia cristiana, e assieme ad altri capisaldi del messaggio rivelato corre i rischi del logoramento, fin quando se ne parli senza una conveniente comprensione. Perciò san Tommaso inquadra l'argomento con notevole incisività; e gli esempi che ognuno poteva facilmente intuire sono di un'evidenza solare, specie se contrarietà o nemici (il mare in tempesta, per i naviganti; un incidente di macchina; una epidemia di germi patogeni) attentano all'integrità di beni essenziali alla vita, o alla conservazione della vita medesima.
(115) Tra le tante, riportiamo questa di Isaia (48, 17): «Io, il Signore Dio tuo, t'insegno quel che ti giova e ti dirigo per la strada che vai percorrendo».
(116) Si avverte quasi un oscuro legame con la maledizione pronunziata nel paradiso terrestre: perduto il privilegio preternaturale che lo sottraeva alla morte, Adamo (e dopo di lui, ognuno dei suoi discendenti) torna a essere una fragile creatura, quanto al corpo: polvere modellata, che tende a disfarsi in un pugno di polvere.
(117) Celebre pensiero di sant'Agostino.
(118) Ne richiamiamo il senso generico: passione intemperante è, spesso, predominio della materia sullo spirito. Vedi nota 189.
(119) Nella Summa, Tommaso osserva che il peccato d'origine eliminò interamente il dono della originale giustizia e diminuì l'inclinazione naturale alla virtù (quest'ultima resta addirittura perfino nei dannati, altrimenti in essi non ci sarebbe il rimorso - ormai sterile della coscienza).
Tra le piaghe inferte dal primo peccato alla nostra natura c'è dunque la fragilità, l'ignoranza, la malizia e la concupiscenza; sopravvenne la morte, preceduta a sua volta da altre miserie corporali. Vi si aggiunta infine, per inciso, la diminuzione dei beni «metafisici» della misura, bellezza e ordine (cf. Sum. theol. I-II q. 85, a. I).
(120) La restituzione è assolutamente necessaria - in re vel in voto, cioè in effetti o almeno come sincero proposito - per quanti abbiano leso gravemente uno stretto diritto altrui.
(121) Si avverte qui un impercettibile barlume di buon umore, connaturale del resto con la tipologia di Tommaso e tutt'altro che sconveniente in un incontro didattico che aveva numerose anime semplici e giovani studenti tra gli uditori.
(122) D'un tratto gli «errori», da cinque che erano stati enunziati, divengono sei... Questo inatteso passo indietro per desiderio di sviluppare l'argomento già trattato al n. 3 (p. 147) è un'ulteriore riprova che la expositio in questione nacque come un autentico predicabile, tanto risente della viva sensibilità di un predicatore capace d'avvertire i quesiti che la stessa semina dottrinale poteva suscitare nell'intelligenza dei presenti.
(123) Quest'ultima servirà a temperare l'eventuale eccesso di prostrazione o di angoscia che può derivare all'uomo dalla consapevolezza della fragilità umana.
(124) Nei testi evangelici lo Spirito è continuamente messo in relazione col Cristo poiché «le loro attività sono unite e i loro scopi coincidono» (G. GHIBERTI) come si può rilevare dall'inizio della vita di Gesù e lungo l'intero arco della sua missione salvifica. Cf. Gv 6, 38.
(125) Quantunque la lezione dei codici greci sia preferibile («privi, cioè, di ogni senso [morale]»), rimane vero che essere senza speranza e idolatrare l'immoralità sono i due volti di un'unica realtà. Lo conferma san Paolo, scrivendo sempre agli Efesini (2, 12): «Voi pagani [...] eravate un tempo senza Messia [...], estranei alla speranza della promessa e senza Dio in questo mondo».
(126) I seguaci del vescovo Novaziano si autodesignavano col nome di «puri», in opposizione ai membri della Chiesa cattolica macchiata (secondo la loro accusa) dalla comunione coi peccatori recidivi.
(127) È stoltezza e rischio estremo il rimandare, di giorno in giorno, la conversione «a domani»: un domani che, in pratica, è mera utopia.
(128) Deciso atto della volontà attraverso cui l'uomo determina d'interrompere un rapporto futuro, intenzionale, col peccato. Pur non essendo una vera e propria promessa, è più che un semplice desiderio vago e irresoluto di emendarsi. Se ne può dedurre la consistenza della contrizione.
(129) La potestà con cui Cristo, la sera stessa della risurrezione (Gv. 20, 22-23), conferisce agli apostoli il potere di riconciliare (riaprendo loro il regno dei cieli) i peccatori con Dio, mediante il sacramento della penitenza.
(130) Teoricamente è possibile, quantunque la condizione stessa dell'uomo viatore lo porti a ricadere per lo meno in colpe veniali. Particolare importanza acquista perciò la grazia di poter fruire, nell'atto di presentarci al giudizio particolare, del sacramento della penitenza o degli effetti derivanti dall'unzione degli infermi.
(131) L'acquisto progressivo della perfezione cristiana importa un addestramento sia riguardo alla repressione di ciò che ostacola il progresso spirituale (ascesi negativa), sia «quegli esercizi che mirano direttamente allo sviluppo della vita soprannaturale (ascesi positiva) ... Rafforzando l'energia fatti va del cristiano ..., l'ascesi ha sempre un contenuto costruttivo» (D. MANISE, in: Dizionario di teologia morale, a cura di F. ROBERTI-P. PALAZZINI, Roma, 1968, p. 104.
Il testo critico elimina, come interpolazione successiva, le parole «ut ad ieiunandum el huiusmodi». Perciò spostiamo qui in nota questo riferimento al digiuno e ad altri esercizi di ascetica, riportata dalle edizioni correnti.
(132) Ancor peggiore della pestilenza che, preannunciata dalle voci del contagio nei dintorni, poteva concedere la possibilità o almeno il tentativo di cercare scampo altrove.
(133) Ef 6, 12. Gli spiriti maligni che, almeno temporaneamente, hanno il proprio campo d'azione sul creato.
(134) cf. 1 Ts 3, 5. Satana («l'avversario, il nemico» come suona in ebraico) è la personificazione del male, l'opposizione irriducibile a Dio.
(135) Gc I, 12. Ai vincitori nella lotta e nella corsa era destinata una corona, di fronde verdi intrecciate e san Paolo, che ricorre volentieri a queste similitudini tratte dai giochi sportivi, se ne serve qui per indicare la vita eterna.
(136) Sal 70, 9. Narra il biografo Guglielmo di Tocco che san Tommaso, specie negli ultimi anni, si commoveva fino alle lacrime quando sulle note del gregoriano il cantore ripeteva, durante la liturgia quaresimale: Ne proicias nos in tempore senectutis.
(137) Carità infatti - e la grazia che rafforza il buon volere fanno sì che l'uomo ami Dio al di sopra delle creature, e quindi si opponga a tutto ciò che potrebbe offenderlo.
(138) D'ordinario si citano quattro età della vita umana: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia. San Tommaso considera anche le fasi intermedie, attraverso le quali l'uomo conduce l'esistenza terrena: dal bambino ancora incapace di parlare o che ha appreso a farlo di recente (quindi fin verso i sei anni) al fanciullo (sulla soglia dei tredici); dall'adolescente al giovane; dall'anziano al vecchio.
(139) 2 Cor I, 8. Potrebbe riferirsi, tra i molti episodi della sua travagliata esperienza apostolica incentrata a Efeso, al tumulto suscitato dall'argentiere Demetrio nel timore che la predicazione paolina potesse recare pregiudizio al fiorente commercio dei tempietti di Diana, assai richiesti da fedeli e curiosi (At 19, 23-40).
(140) Difatti, oggetto della pazienza è tutto ciò che in qualsiasi maniera ci contraria, ci fa soffrire e rattrista.
(141) Dal significato originario della radice ebraica 'mn - equivalente al nostro «certo, davvero, sì» - l'amen ha acquistato quello di approvazione a un comando, o d'augurio per l'adempimento di una preghiera o di una profezia. Nel concludere il Pater, quindi, esso esprime la fiduciosa certezza che ogni singolo desiderio sarà accolto e soddisfatto.
(142) Gb 35, 6-7. Anche se Giobbe non ha inteso dire che la virtù non giova all'uomo dal momento che Dio non gli risparmia le tribolazioni, Elihùd sa che un simile convincimento è assai diffuso. Perciò, dopo aver fatto notare che l'immoralità umana non scalfisce il cielo, soggiunge che non si può supporre che Dio - ben più alto dei cieli si lasci guidare nei propri giudizi da considerazioni d'interesse personale.
«Il male che fai - osserva DAIN COHENEL - nuoce a te e agli uomini come te; il bene è utile a te e agli altri. Dio nel giudicare non guarda dunque altro che ciò che è strettamente retto e giusto, e non agisce a capriccio ... Egli vuole che, per il bene delle creature, le sue leggi siano osservate... Bisogna vivere alla sua presenza e attendere, poiché non sempre egli manifesta qui in terra la sua giustizia punendo l'iniquità». (La Sacra Bibbia, vol. IX, Napoli 1934).
(143) La misericordia e la verità, quale sinonimo di giustizia, sono presenti in ogni opera di Dio; infatti egli non può far niente che non sia conforme alla sua sapienza e bontà, come pure agisce secondo l'ordine e la misura convenienti. Anche ciò che noi abitualmente chiamiamo «dovuto» a una creatura, Dio lo concede per sua bontà e con maggior larghezza rispetto allo stretto indispensabile. E altrettanto è vero che nell'esercitare la giustizia, Dio si contenta di meno di quanto potrebbe pretendere (cf. Sum. theol. I, q. 21, a. 4). Un simile modo d'agire torna quindi a gloria di Dio, tanto più se si riflette che nulla Dio desidera oltre la sua stessa bontà che s'irradia nell'opera creativa, salvifica, santificante e beatificante. Torna pure a sua gloria il fatto che, nel volere la giustizia, voglia la pena quale mezzo per conservare l'ordine della natura e dei suoi disegni provvidenziali (cf. ib., q. 19,. a. 9).
(144) Come, ad esempio, un giusto benessere e l'assenza o la moderazione degli affanni, delle malattie, dell'angoscia e, in ogni caso, il sollievo in mezzo a queste inevitabili prove dell'esistenza.
(145) S. Tommaso stesso, nella Summa theologiae (cf. I-II, q. 82, a. 3) e nella quaestio disputata «De malo» (4, a. 2), definisce la concupiscenza una predisposizione o attitudine istintiva a desiderare un determinato bene prescindendo dal giudizio critico della ragione.
Per effetto della volontà «disordinata», dalla sfera dell'ordine psicofisico la concupiscenza acquista una dimensione morale solitamente negativa.
(146) Psicologicamente, il peccato si spiega come possibilità di scegliere un bene inferiore rispetto a un altro, dal quale la volontà è stata attratta. Nel caso dei nostri progenitori sembra spiegarsi come tentativo assurdo di autodivinizzazione. In questa prospettiva dovette brillare dinanzi alla loro mente - almeno in confuso - non tanto le scalata al divino, quanto l'occasione (utopistica) di riaffermare la propria autonomia, esprimente una radicale propensione all'indipendenza.
(147) Erano dotati di una perfetta intelligenza, di scienza infusa, di grazie e carismi. Nell'atto di disubbidienza («aversio a Deo, conversio ad bonum commutabile»; una conversione a rovescio, dunque) cessa l'equilibrio delle passioni e la soggezione della carne. L'uomo, razionale, non riesce sempre ad agire razionalmente. L'intelligenza, la volontà, l'appetito concupiscibile e quello irascibile rivendicano una loro, assai spesso anarchica, autonomia.
(148) Rm 7, 23. La più drammatica e universale «conflittualità permanente» che gli uomini debbono sperimentare.
(149) La toràh, o pentatèuco (raccolta di cinque libri: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), costituisce per il popolo ebraico la legge di Jahvè, detta comunemente legge mosaica, per eccellenza; essa raccoglie il complesso materiale legislativo che si sviluppò intorno agli eventi dell'Alleanza, dalla rivelazione sul Sinai alla vigilia dell'ingresso nella terra promessa.
(150) Mosè è lo strumento principale dell'azione salvifica di Jahvè e mediatore dell'alleanza, «colui che anche nel passare delle generazioni resta il maestro del suo popolo» (B. LIVERANI, in: Schede bibliche pastorali, Mosè, Ed. Dehoniane, Bologna).
(151) Secondo l'accezione cristiana, libertà dal peccato è la nuova condizione in cui l'uomo, adeguandosi alla legge della carità, è sottratto al dominio di Satana, dell'amor proprio, della concupiscenza e degli influssi materialistici di questo mondo terreno.
(152) Libero e figlio sono sinonimi nella lingua latina indicando sia l'uomo socialmente non soggetto a dominio altrui, sia figli che costituivano la parte libera della familia ossia dell'intera casa, cui presiedeva il pater familias.
(153) Classica la prospettiva biblica di una terra fluens lac et mel. È formula che ricorre di frequente nei testi antichi della Bibbia per indicare e descrivere, in termini idilliaci, la terra promessa. Non solo vi si troverà con facilità e in abbondanza latte e miele (cf. Es 3, 8. 17; 13; 33,7; cf. Nm 13, 27; 14,8; cf. Dt 8) ma «torrenti e fontane e acque sotterranee che scaturiscono nella valle e nella montagna; paese di frumento e d'orzo, di vigne, di fichi e melograni; paese di olivi e di miele; paese nel quale non avrai il pane misurato, ma dove non ti mancherà nulla; paese nel quale le pietre contengono ferro, e dai suoi monti potrai estrarre il bronzo» (Dt 8, 7-9).
(154) At 15, 10. Anche gli insegnamenti e i precetti di Gesù sono indicati con un ebraismo; «giogo», indicante la disciplina, l'indirizzo legale di un maestro; ma a differenza della legge rabbinica, essi sono leggeri e liberatori, se portati con amore (cf. Mt 11, 30).
(155) È la glossolalia, il carisma che porta a lodare e pregare Dio in una lingua misteriosa e in uno stato di esaltazione o ebbrezza estatica.
(156) Non si intende qui la fede-virtù teologica, bensì il dono della fede operatrice di miracoli, oppure quello di saper proporre convenientemente le verità della fede, o anche una maggiore certezza nella fede stessa.
(157) Si chiamano precetti talune norme della legge divino-positiva o di quella ecclesiastica, mediante cui la Chiesa, applicando i comandamenti di Dio, prescrive particolari atti di religione o determinate astinenze ai fedeli.
(158) Caritas non agit perperam (I Cor 13,4). Citando questo pensiero paolino, che possiamo tradurre «la carità non manca di riguardo verso gli altri», san Tommaso intende richiamare alla mente del cristiano la descrizione dei quindici caratteri attraverso cui la carità perfetta costruisce un rapporto ideale col prossimo e mette in funzione tutte le virtù.
(159) «[Con la] vera e santa pazienzia - ha scritto santa Caterina da Siena, nel suo Epistolario - non vedrete grandi le pìcciole cose, ma [anzi] le grandi vi parranno pìcciole a sostenere per Cristo crocifisso» (Epistolario, vol. I, p. 3-4, Siena 1913).
(160) Indubbiamente, essendo il peccato grave un'offesa di Dio tale da escludere l'uomo dalla vita eterna, nessuno può meritarsela se prima non provvede a riconciliarsi, ottenendo la remissione dei peccati che si consegue con la grazia (cf. Sum. theol. I-II q. 114, a. 2).
(161) cf. Rm 8, 23. A cominciare dalla grazia che ci rende giusti e ci costituisce figli adottivi di Dio in attesa d'entrare nel possesso della eredità.
(162) In forza dello «spirito di adozione» (Rm 8, 15) che è dono dello Spirito, sapendoci considerati da Dio quali suoi figli, ci rivolgiamo a lui chiamandolo «Padre», disposti altresì a eseguire in tutto la sua paterna volontà.
(163) Tommaso qui rimedita un pensiero agostiniano.
(164) Il virtuoso segue la regola della ragione e, mediante la prudenza, si dispone a esercitarsi nella pratica delle singole virtù. I beni cui mira l'intento di commettere una qualunque infrazione alla legge morale sono disparati, e talora incompatibili tra loro. Dall'unità della retta ragione e del suo autore, l'uomo che pecca si lascia attrarre dagli infiniti miraggi delle creature, voltando le spalle all'unico legislatore. Infrangere un solo punto della legge è come contestare la validità dell'intero codice (cf. Sum. theol. I-II q. 73, a. I).
(165) Nelle sentenze emesse dai tribunali terreni la pena di morte è comminata solo in quei casi che recano danni particolarmente gravi o irreparabili, o hanno qualcosa in sé di particolarmente orrendo. In linea con la legislazione biblica e con la morale del suo tempo, san Tommaso sentiva una particolare repulsione per il culto idolatrico (gravemente lesivo del 1° comandamento), come per il furto sacrilego, furto cioè specificato da una precisa aggravante. Le leggi civili d'allora giungevano a punire il sacrilegio applicando la pena di morte; la Chiesa, invece, «che non infligge mai la morte corporale», faceva ricorso alla scomunica o a pene pecuniarie (cf. Sum. theol. II-II q. 66, a. 6, ad 2um; q. 85, a. 2; q. 99, a. 4).
(166) Rm 13, 6. Abbiamo preferito tradurre così, onde evitare l'espressione ambigua «ministri di Dio», ormai riservata a indicare i sacerdoti.
(167) Rm 12, 20. Riportiamo il commento del SALES: «Con questa condotta verso il tuo nemico, tu lo fai riempire di confusione e poscia di pentimento, e di un dolore così grande come se tu avessi radunati carboni ardenti sulla sua testa, e così egli sarà condotto a penitenza e a conversione» (Il Nuovo Testamento, vol. II, Torino 1914).
(168) Gli episodi più significativi, di quest'incessante opera di riconciliazione col popolo e di mediatori presso Jahvè, si possono trovare in Es 32, 11. 31; Nm 11, 11 ss.; I Re 7, 5 ss.; 12, 9 ss.
(169) Vedi sopra al commento al ''Credo''.
(170) A Oloferne - si legge in Gdt 3, 13 - era stato affidato il compito di distruggere tutto ciò che riguardava il culto delle divinità(templi e boschetti sacri) delle popolazioni stanziate lungo il litorale palestinese alle falde settentrionali, fino a Esdrelon; ma ciò allo scopo «che tutte le genti dessero culto al solo Nabucodonosor e tutte le lingue e tribù lo invocassero come Dio».
(171) cf. Dt 6, 13. La legislazione mosaica prevedeva l'uso del giuramento, mettendo in guardia nel contempo dall'abuso (Sir 23, 9-11) e punendo severamente lo spergiuro (Es 20, 7; Lv 19, 19; Ger 5, 2; 7, 9; Zc 5, 4; Ml 3, 5).
(172) Sotto l'esagerato legalismo e rigorismo dei farisei (i testi evangelici testimoniano del loro scandalo perché gli apostoli strappano delle spighe per sfamarsi (cf. Mt 12, 1-2), o perché un infermo miracolato porta il suo lettuccio (cf. Gv 5, 10), e, sistematicamente, per la libertà con cui Gesù compie le guarigioni in giorno di sabato (cf. Lc 13-14), il senso fondamentale del «sabato riservato a Jahvè» (cf. Es 31, 15; 35, 2) conserva il suo valore altamente religioso a riconoscimento della sovranità del Signore.
(173) La parola iòm (giorno) non indica necessariamente uno spazio di 24 ore. E, nella Bibbia, assai spesso indeterminato. Non pochi autori moderni ritengono che i «giorni» del Genesi possano corrispondere a lunghi periodi di tempo, coincidenti all'incirca coi periodi geologici.
(174) Non enim ad 'ludendum' [per divertirsi] ordinetur talis dies, sed ad 'laudandum' [per la lode] el orandum Dominum Deum. In quanto attratti più di Tommaso dall'arte della retorica, eccellevano in questi giochi di parole assonanti sant'Agostino e san Bernardo. E si tratta proprio d'una citazione implicita del vescovo di Ippona.
(175) Rm 12, I. Da un antico verbo latino (hostio = ferisco) derivò il vocabolo che indica la vittima offerta nei sacrifici espiatori.
(176) Sal 104, 19. Cristo ci ha insegnato - così Paolo VI nella sua Professione di fede - «la via delle beatitudini del vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia» (n. 12).
(177) cf. Es 20, 5. «Al fine di maggiormente allontanare gli ebrei dal trasgredire la legge - questo il commento del SALES - minaccia loro di punirli in quel che hanno di più caro, cioè nei loro figli. Così almeno per amore dei figli saranno indotti a mantenersi fedeli a Dio. È noto infatti che la morte, le malattie, ecc., dei figli sono spesso pei genitori più dolorose che la morte propria... È chiaro però che se i figli imitano le iniquità dei loro padri, allora non solo porteranno il peso di queste, ma saranno puniti anche per le loro proprie colpe... In generale Dio vuol dire che la infedeltà d'Israele non rimarrà impunita, e che se il castigo può talvolta tardare esso non mancherà tuttavia a suo tempo d'essere inflitto» (Il Vecchio Testamento, Torino 1919).
(178) Eb 13,7. Tali guide hanno offerto alla comunità esempi degni d'imitazione, ma il più efficace lo diedero, al momento d'uscire da questa vita, o con un testamento di singolare pregio o meglio affrontando eroicamente le persecuzioni e la morte.
(179) Rm 13, 7. Sono nominate qui due specie di imposte: il tributum sulla persona e i beni stabili; il vectigal sulle merci importate ed esportate.
(180) Sir 32, 13. Non vi si cerchi un disprezzo verso i giovani, bensì la voce dell'esperienza che deve riconoscere nell'età giovanile una naturale precipitazione e la pretesa di saper giudicare correttamente su qualunque problema.
(181) Es 22, 18. È un articolo penale che colpisce gli stregoni e le maghe, il cui operato veniva a intaccare gravemente l'edificio teocratico che Jahvè andava costruendo tra il suo popolo.
(182) Nella convinzione che Dio, legislatore supremo, abbia autorizzato la pena di morte quale estremo riparo del codice, il giurista ebreo l'applicava (quando vi fosse sufficiente certezza di colpa). mirando a eliminare dal popolo elementi pericolosi, a produrre una punizione socialmente esemplare e a purificare la comunità riabilitandola a ricevere il perdono divino.
(183) Marco Porzio Catone, detto l'Uticense. Si uccise per amore di patria nel 46 a. C.
(184) Per quanto suggestiva, l'allusione a questa «fraternità» tra lupi (peraltro suffragata dal proverbio popolare che «lupo non mangia lupo ... ») o a una certa qual mansuetudine nel lupo che (secondo una versione latina d'un testo di Avicenna), preso a sassate, si contenta di atterrare e impaurire il colpevole, non trova riscontro obiettivo nel De animalibus di Aristotele ed è da imputarsi a una corruzione dei manoscritti.
(185) Non solo vi è il delitto di procurato aborto e l'uccisione di una donna inerme, ma - secondo la dottrina sul Limbo, se inevitabile per i non battezzati - la privazione della gloria beatifica a danno della piccola vittima.
(186) Es 21, 14. Nel versetto precedente Jahvè stabilisce un luogo di rifugio dove l'autore di un omicidio preterintenzionale potesse trovare asilo e scampo. Dapprima tale luogo fu l'altare, poi sorsero le città-rifugio (cf. Nm 35, 9-28).
(187) I seguaci di Aristotele erano chiamati a quel modo (peripatetici) dall'abitudine che il loro maestro aveva di tener lezioni e discussioni filosofiche, passeggiando nel porticato interno del Liceo d'Atene, detto peripatos.
(188) S. Tommaso tratta l'argomento dell'esistenza o meno delle «passioni» umane nel Cristo (cf. Sum. theol. III, q. 15, a. 3). Dopo aver fatto notare - a proposito dell'ira - che il desiderio di vendetta è peccato quando lo si intenda in maniera difforme dalla retta ragione (e una simile ira non poteva esserci nel Cristo), «altre volte tale desiderio di vendetta non è peccato, anzi è lodevole, come quando si cerca la vendetta quale espressione di vera giustizia ... E tale ira poteva esserci in Cristo».
(189) Si può definire «passione» una persistente e spesso violenta emozione o impulso reattivo, che attenua la lucida razionalità e l'obiettività; ma non sempre ogni passione realizza la valutazione negativa che il termine reca in sé. Nella Sum. theol. (I-II qq. 22-48), san Tommaso ne enumera undici: amore, odio, desiderio, avversione, gioia, tristezza; speranza, disperazione, audacia, paura, collera.
(190) L'appetito, genericamente considerato, è uno «stimolo accentuato a raggiungere il proprio appagamento; impulso, inclinazione naturale che impegna i sensi e l'immaginazione» (DEVOTO-OLI, Vocabolario illustrato della lingua italiana, Milano 1967).
(191) Vedi sopra, nota 189
(192) L'esempio più autorevole lo abbiamo (in tema di ira ragionevole, di virtuosa indignazione) nell'episodio in cui Gesù scaccia dal tempio i mercanti (Gv 2, 14-16).
(193) Infatti, funzione primaria della mansuetudine è il moderare gli eccessi di una ragionevole ira.
(194) Questo precetto, teso a proteggere la vita degli individui e dei popoli, scaturisce dalla volontà di Dio, espressa in Es 20, 13 («Non ammazzare») e implicita in Lv l 9, 18 («Ama il tuo prossimo come te stesso»).
(195) cf. Prv 15, 18. Mentre il non-violento si adopra a spegnere sul loro nascere le contese, l'uomo iracondo le alimenta.
(196) Mt 5, 22. Ràqa, letteralmente, significa fatuo, vuoto, sciocco. Nabàl era chi vive come se Dio non esistesse: quindi empio, ribelle alla divinità, rinnegato. Offesa di estrema gravità, considerata la sensibilità religiosa del popolo ebraico.
(197) Le comunità religiose del passato sostituivano in parte gli istituti assistenziali della società moderna, e costituivano un rifugio per tanti sventurati, assai più sicuro del resto che arruolarsi nella milizia in qualità di mercenari.
(198) cf. Gn 2, 21-23. «La donna non fu tratta dalla testa di Adamo acciò non si credesse a lui superiore, né fu tratta dai piedi acciò non venisse riguardata come serva o schiava, ma fu formata dalla costa, acciò venisse ritenuta compagna di vita» (M. SALES, Il Vecchio Testamento, vol. I, Torino 1934).
(199) Vedi nota 85.
(200) Specie dopo le paurose epidemie che nel medioevo e nel rinascimento spopolavano città e conventi, si era costretti in un certo senso a spalancare le porte di questi ultimi, accogliendo così le nuove reclute per la vita religiosa o destinate al clero secolare senza guardar troppo per il sottile.
(201) cf. Gb 24, 9-10. Giobbe fa un nutrito e impressionante elenco di empietà che appaiono come insulto ai bisogni elementari degli uomini e una sfida all'imprevedibile giustizia divina. Perfino gli orfani sono spogliati senza pietà, e ai lavoranti che han faticato l'intera giornata nella mietitura, vengono strappate di mano le poche spighe che hanno radunato a stento...
(202) Lett.: Tenemur enim regibus custodientibus pacem nostram dare mercedem. Ogni governante dovrebbe però sapersi meritare questo titolo altamente onorifico di «custode della nostra pace». Anticamente questo rapporto tra privati e autorità costituita era, almeno in teoria, più vivo nelle coscienze di quanto non lo sia oggi: il re provvedeva al mantenimento dei funzionari e dell'esercito, alla difesa della nazione, nonché a promuovere il bene comune, restando però arbitro praticamente incontrollato sull'opportunità di imporre nuovi oneri fiscali e sull'impiego dei medesimi.
(203) Dt 25, 13. Si può intendere, anche: uno più grosso, per le compere; uno più piccolo per le vendite.
(204) Lv 19, 35-36. Erano due capacità di misura, una per i solidi, l'altra per i liquidi.
(205) «Il prestito a interesse è stato condannato da tutta l'antichità classica (Aristotele, Catone), anche perché praticato largamente in forme vessatorie e crudeli» (S. BAUSANI in: Dizionario di teologia morale, a cura di ROBERTI-PALAZZINI, vol. I, p. 844.
Altrettanto fecero i padri della Chiesa, il codice giustinianeo, il diritto canonico e il Corano. Tuttavia «non veniva condannato ogni specie di onesto interesse ma la degenerazione dell'usura che era caratteristica dei tempi» (ib.). La Chiesa ha superato la teoria della «sterilità della moneta» e riconosce che negli scambi commerciali moderni è cambiata totalmente la natura del contratto di prestito.
(206) È l'autore del Siracide (o Ecclesiastico). Vedi nota 16, p. 43. 19) Sir 34, 2.5.
(207) Ab 2, 9, 11. Personificazione di una coscienza tormentata dai rimorsi.
(208) cf. Mt 18, 15-17. Correggere chi, peccando, può avere leso o scandalizzato altri è un dovere di giustizia il cui compito è di «custodire [o ripristinare] la rettitudine nei rapporti reciproci». Ma il peccato costituisce anche un male per chi lo ha commesso o stia per ricadervi; e siccome evitare un male è lo stesso che beneficare chi poteva esserne oggetto. la carità che ci muove a soccorrere gli amici in pericolo ci spinge ancora alla loro correzione fraterna. «Con essa cerchiamo d'allontanare da un fratello quel male che è il peccato; ... perciò la correzione fraterna è un atto di carità superiore alla cura delle malattie fisiche e alle elemosine che attenuano l'indigenza» (cf. Sum. theol. II-II q. 33. a. I).
(209) L'èquità viene definita spesso «giustizia del caso particolare». Siccome la giustizia, per ovvie ragioni d'ordine sociale, tende a essere rigida e uniforme, si sente il bisogno di un'altra norma che tenga conto di tutti gli elementi della concreta situazione umana. Possiamo dire che l'equità corregge il diritto vigente nel senso che attua una forma superiore di giustizia. Suggestiva la definizione data dall'Hostiensis: «iustitia dulcore misericordiae temperata» (giustizia, cioè, il cui rigore è temperato da una sensibilità verso le miserie altrui).
(210) Sir 7, 20. Il nome Ofir indica la regione in cui si estraeva un oro di qualità superiore, tanto che giunse a essere usato quale sinonimo di oro.
(211) cf. Rm 7, 18. Uomo come tutti noi, egli si sentiva inclinato maggiormente verso il male piuttosto che verso il bene. La grazia soltanto può contrastare il dominio della concupiscenza.
(212) Mt 12, 34. Anche se rimanga nascosto nel nostro intimo, un proposito contiene le premesse di un'azione.
(213) cf. Gn 19, 17. Nella sua conclusione san Tommaso pone assieme - dato il loro rapporto di causa ed effetto - l'avvampare delle passioni carnali specie contro natura (cf. Gn 19, 4-9) e il fuoco che sarebbe piovuto sopra Sodoma e Gomorra (ib., 24-25).
(214) Qui Girolamo sviluppa un analogo consiglio suggerito all'altro suo corrispondente, Rustico.
(215) Più la sezione conclusiva: «Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte. Amen». Il nome «Gesù» era stato annunziato dall'arcangelo (Lc 1, 31).
(216) È l'episodio della visita effettuata da angeli in figura umana, ad Abramo accampato in Mamre; una delle pagine più belle della Bibbia.
(217) Lc 1, 28. Il saluto dell'angelo (in ebraico shalòm [lekà], ossia «pace [a te]») corrisponde al greco kàire, «rallègrati», «stai contenta». Le parole di Gabriele vibrano di una trepidante allegrezza messianica.
(218) Gb 25, 3. Bildad è uno dei tre amici che intervengono nel dibattito sulla giustizia morale.
(219) Devotissimo della Madonna ma, insieme, preoccupato di salvaguardare le prerogative - uniche - del Cristo, san Tommaso ragiona così: se l'anima della beata Vergine non fosse stata mai contagiata dal peccato d'origine, Cristo perderebbe la peculiarità di essere il Salvatore universale. Perciò la purezza di Maria fu la più grande, ma al di sotto di quella di Cristo. Nell'atto di concepire il Figlio, la madre, di già modello di purezza, fu resa ancor più santa e immacolata. La «redenzione preservativa» interverrà, dunque, a conciliare l'azione universalmente salvifica di Gesù e, «in vista dei meriti di lui», l'immacolato concepimento di Maria. Per una sintesi del pensiero di Tommaso a tal proposito, rimandiamo il lettore alle pp. 22-30 dell'Introduzione.
(220) Questo il senso delle parole: «In che modo può accadere, questo, dal momento che io [per il voto di perpetua verginità] non conosco uomo?» (Lc l, 34).
(221) Da un'antica liturgia mariana.
(222) Cioè, non solo fu esente dal peccato e dal fornite della concupiscenza ma dalle sue conseguenze. La sottrazione totale del fornite (che altro non è se non la sregolata attività nella sfera dell'appetito sensibile) fu concessa alla beata Vergine per la pienezza della sua grazia, producendo in lei tanta armonia tra le facoltà della sua anima da impedire che quelle inferiori potessero mai operare senza il controllo oculato da parte della ragione. L'immacolato concepimento perciò ha restituito Maria al livello della giustizia originale. Letteralmente il testo critico della edizione Leonina è: «Ipsa enim purissima fuit, et quantum ad culpam, quia nec originale, nec veniale, nec mortale peccatum incurrit. Item quantum ad poenam» ecc.
(223) Oltre al testo fondamentale per la dottrina del corpo mistico, di Gv 15, 1-2,4-5, raccomandiamo la lettura di Rm 3, 5 e, soprattutto, di Gal 3, 26-27: «Tutti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti (ed ecco la ragione della suddetta figliolanza), voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo».
(224) Sal 44, 3. L'inconsueta, inimitabile bellezza della sua parola, che ha fatto ammettere agli inviati dei farisei: «Nessuno ha mai parlato come quest'uomo!» (Gv 7, 46
FINE
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