(Da: Giovanni Papini, La seconda nascita, Firenze, Vallecchi, 1959 pp. 87-93)
La storia è un po lunga. Il primo anno che arrivai a Bulciano, il prete non c'èra. Quello di prima era morto; il nuovo si faceva aspettare. Alla fine si seppe che era arrivato e che stava, come si dice, per sposar la chiesa. Ma la domenica mattina, aspetta aspetta a dir la messa, non venne.
Bisogna sapere che la parrocchia ha due chiese: una grandetta attaccata alla canonica, e lontana di qui più di un milio tra scesa e salita (di mezzo un fossaccio senza ponte né passerella), ed una chiesina o piuttosto cappella posata proprio in cima al castello di case dove stò io.
Da secoli la regola delle domeniche era questa: appena il prete aveva detto messa nella chiesa, diciamo così, madre, si suonava la campana quaggiù per la seconda messa, e mentre il celebrante viaggiava da un colle all'altro si succedevano le sonore chiamate fino all'ultimo cenno.
Ma il nuovo curato, Don Rubino, giovane e di pelo nero, mettendo in campo non so quali peripezie di benefici estinti o prescritti, non intendeva concedere, a più di metà del suo popolo, il beneficio della seconda messa festiva. Bulciano fu in subbuglio, e il forestiero (ch'ero io) attonito e percosso da un incalzar di sorprese.
Nella città dove le chiese e le messe sono tante e i più non ci vanno, sarà difficile immaginarsi l'indignata costernazione dei miei nuovi amici. Il paese pareva una strada alla vigilia di una sommossa: ciuffi di donne sugli usci, conciliaboli di capifamiglia, vecchioni che scuotevan capo e mazza come reduci da un gran litigio; e Valente, dietro i vetri degli occhiali tondi, mandava lampi dagli occhi infiammati e lacrimosi.
La sera si pienò la casa dove stavo in quei primi tempi: gli scarponi motosi strisciavano sugli scalini prima d'entrare, poi rintronavano sul tavolato dell'impiantito; il fuoco fu rinforzato a fasci di ramacce e il fumo delle pipe salì ai travi già neri. Tutti quegli uomini volevano che io li soccorressi in quel frangente; che mi adoprassi verso il vescovo per rimettere alla obbedienza Don Rubino, perché non volevano né loro né le donne, né i figlioli restar senza messa la domenica.
Non pensavan neppure a chiedermi se credevo o no; avevan visto che avevo fatto battezzare la mia prima bambina e non potevano immaginare che non fossi cristiano e, per natural conseguenza, che non desiderassi la messa al par di loro. Esaminando i loro discorsi ci scoprivo da una parte il dispetto di vedersi negato un diritto antico e quasi naturale; la voglia di far dispetto al prete, nuovo, dunque sconosciuto, dunque nemico; un po di gelosia verso quelli dal fosso in là -ma d'altra parte, per dir tutta la verità, anche il sincero dolore di non aver più una volta la settimana, quel ritrovo di festa, quel po di parola di Dio, quella cerimonia venerabile per la sua stessa antichità e oscurità.
Per la mia indifferenza fu come una illuminazione subitanea. Per la prima volta compresi cosa vuol dire per i semplici, per i lontani, per i poveri, per quelli che non hanno altro ristoro fuori da una speranza terrestre, la messa.
A Novecento aperto, dopo tutte le decapitazioni del Sette e dell'Ottocento, trovare delle anime che soffrono perché non possono assistere ad un mistero che forse non comprendono: quale meraviglia per uno spirito moderno quale ero io in quei giorni!
Promisi l'aiuto; proposi di affrontare di persona il nuovo prete prima di ricorrere al vescovo, e la mattina dopo, intorno alle dieci, colle mie scarpe di vacchetta e il baston di ciliegio, presi la strada della canonica. A momenti mi veniva da rider di me stesso: un ateo, un liberato, insomma un eretico e peggio, guarda che lepri piglia a pelare! Proprio a me, che non vò alla messa da trent'anni, tocca a far questa parte e raccomandarmi a un prete perché venga a dirla accanto a casa mia!
Ma poi ripensavo all'accoramento di quei poveri uomini: famigerati per l'interesse e che pure si rammarican tanto per l'assenza di una cosa che non fruttava né una spiga né un soldo. La Messa per costoro, pensavo, è l'unico filo che li tenga uniti ad un mondo che non è il mondo consueto della vanga, delle tane, della mungitura. Per sei giorni stanno chinati sulla terra; il settimo vogliono alzare gli occhi al cielo.
Quelle candele accese, quei quadri mal colorati, quelle statue in carton di Francia, quelle tovaglie ricamate, quei candelabri alti di legno verniciato, soddisfano in loro quell'appetito d'arte che in tutti c'è, sia pure in germoglio assecchito; e quel gesticolare simbolico del prete, quelle solenni parole latine, appagano il loro appetito di mistero; e l'antica persuasione che nella vita della Chiesa e nei sacramenti è la salvezza dopo la morte, li spinge a nutrirsi del sacrificio con tutta la fame d'immortalità che consuma i mortali.
Quand'ebbi traversato il fosso che portava giù, in quella stagione, più sassi che acqua, e s'apriva il corso tra muraglioni di pietra rosa, e fui entrato nel territorio, per dir così del nemico, mi ricordai di padre Cristoforo quando saliva al palazzotto di Don Rodrigo. Il parallelo era falso, ma lo rammento perché ci pensai davvero.
Don Rubino era magro, bruno, di corporatura svelta e di occhio scrutatore. Buonissima pasta d'uomo e di prete, come mi accorsi anni dopo, quando si fu diventati amici, ma più muratore che mistico. Mi accolse bene e ascoltò con pazienza il lungo discorso che gli feci per convincerlo che doveva venire in tutti i modi a dir la messa da noi. E senza avvedermene mi infervorai tanto che alla fine sembravo io il predicatore e lui il peccatore, e giunsi se non sbaglio a rinfacciargli la sua tepidezza verso un popolo che non chiedeva, infine, che un po di cibo spirituale una volta alla settimana, e gli additai il male che faceva alla religione il suo rifiuto, che poteva sembrare avarizia o infingardaggine: insomma quella mattina un peccatore miscredente sembrava, a momenti, il cardinal Federigo, addosso al povero Don Abbondio.
Ma la mia eloquenza non fece presa: don Rubino mi squinternò davanti alcuni fogli stemmati e timbrati, portò delle ragioni canoniche e giuridiche delle quali non capivo bene neppure i termini e alla fine mi fece intendere che se i miei patronati volevano la messa, andassero là da lui oppure pagassero un tanto l'anno per famiglia.
Andremo dal vescovo ! Dal vescovo ! Gridarono la sera i capoccia, quando raccontai la sconfitta. Per fortuna il vescovo doveva venire tra una diecina di giorni alla Pieve (S. Stefano) per la Cresima; furono scelti tre capifamiglia per accompagnarmi e tutti e quattro, il giorno stabilito, s'entrò in casa dell'arciprete della Pieve, un pò titubanti a dire il vero, per il secondo tentativo.
Se non si riesce nemmeno con questo, andremo a Roma, dissi ai miei compagni per rincorarli.
Il vescovo era allora un vecchio sant'uomo; un viso da buon signore, un po accasciato, un po stanco, ma dove la luce della bontà ispirava l'idea di una sicura fiducia, come la luce di un bel tramonto fa apparire più perfetta una nobile rovina. Era la prima volta in vita mia che mi trovavo dinanzi ad un vescovo e non sapevo in che modo doveva essere salutato, e neppure che titolo gli spettava. Ma il buon vecchio ci accolse umanamente e ci chiese cosa si volesse da lui.
Era il momento di farsi onore. Dietro di me, impalati nei loro vestiti buoni di mezzolano i tre compagni ambasciatori eran pronti a testimoniare ma non a discorrere. L'oratore dell'ambasciata dovevo essere io. Per poco non mi accadde come a quegli ambasciatori del Casentino mandati dal vescovo di Arezzo, dei quali novella Franco Sacchetti. Dissi alla meglio ragioni e desideri, aggiungendo li per li altri argomenti a quelli che avevo preparati nei giorni prima. In compenso dimenticai qualcuno di questi. Mi parve ad un certo punto che il vescovo approvasse con un moto della testa e allora, con nuova lena incalzai con una bella perorazione che presso i buoni contadini mi acquistò per sempre la fama di Santo Padre.
Il vescovo rispose dopo aver chiesto qualcosa a un altro prete che era con lui, che le ragioni del curato non erano false, ma che dinanzi a un tanto giusto e santo desiderio avrebbe provveduto in un modo o in un altro per farci contenti.
Andate figlioli e dite al popolo che riavrà la messa come prima e Dio benedica voi e le vostre famiglie.
E ci benedisse davvero: me compreso, che m'inchinai alla meglio, per nasconder la confusione e forse il principio di un sorriso. Fatto sta che due domeniche dopo, don Rubino, vinto e sottomesso, venne a dir messa a Bulciano. E quella domenica c'ero anch'io.
FINE