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Fedor Dostoevskij 1821-1881 , Scrittore e filosofo, uno dei più grandi romanzieri di ogni tempo .
(Ritratto del 1872 ad opera di Vassilij Perov - Galleria Tret'jakov, Mosca -)
IN MARGINE AL VANGELO DI GIOVANNI
Fra tutti i libri del Nuovo Testamento che Dostoevskij rileggeva continuamente,
il più fittamente coperto di note è il Vangelo secondo Giovanni. Se ne contano
almeno cinquantotto, contro le dodici del Vangelo di Matteo, le sette di Luca, e
le due di Marco. Nell'Apocalisse si contano sedici sottolineature.
Non si può non vedere la chiara corrispondenza fra l'orientamento cristologico
del Vangelo di Giovanni, la devozione per la figura e la persona di Cristo che
Dostoevskij nutrì per tutta la vita, e il significativo numero di note al testo
evangelico. Tanto più significativo, in quanto la figura di Cristo non
rappresentò per Dostoevskij una figura scontata, statica, immutata. Negli anni
'40, sotto l'influsso dell'"umanizzazione neocristiana" e
"scientifico-antropologica" di Cristo tipica dell'utopismo, Dostoevskij cominciò
a chiamarlo "ideale dell'uomo", "ideale dell'umanità".
Dopo il "mutamento di convinzioni" nella "casa di morti"
in Siberia, e il complesso, travagliato ritorno alla fede, la figura di Cristo
diventò per Dostoevskij il principio sostanziale e determinante del suo pensiero,
sia intellettuale che estetico e spirituale. Dostoevskij definì più volte Cristo
come la "verifica" di ogni affermazione, soprattutto nella sfera etico-morale,
ma questo tuttavia non gli consentiva di dare per scontata la fede in
Cristo-Figlio di Dio, consustanziale al Padre. La famosa lettera a Natal'ja
Fonvizina venne scritta nel 1854, prima del "mutamento di convinzioni", ma
esprime in modo completo e preciso i pensieri che in varia forma vennero
ripetuti da Dostoevskij fino alla fine della vita. Questa lotta interiore di
Dostoevskij trova la sua espressione più significativa in una frase paradossale:
"...e se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, e se
effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei
piuttosto restare con Cristo che con la verità". Per verità qui si intendono gli
"argomenti avversi" scientifico-naturali. Le parole di Dostoevskij risultano
provocatorie alla ragione, ma testimoniano la sua "conoscenza del cuore", nel
senso in cui i testi patristici parlano del cuore come fonte della conoscenza e
dell'unione con Dio; esse trovano una solenne conferma nelle parole di Cristo:
"Io sono la verità, la via e la vita", sottolineate da Dostoevskij. Fino alla
fine della sua vita Dostoevskij lottò non tanto contro l'incertezza se essere
credente oppure no, quanto contro l'incapacità di credere. Nei Taccuini
del 1880-81, come sappiamo, annotava: "Tutte le idee di Cristo possono essere
contestate dall'intelletto umano e sembrano impossibili da realizzare... Cristo
si sbagliava, è stato dimostrato... Ma io preferisco restare con l'errore, con
Cristo...", ripetendo in questo modo, al termine della vita, il pensiero già
espresso nel 1854 nella lettera alla Fonvizina. Dostoevskij tirava le
conseguenze di questa appassionata, paradossale professione di fede nei medesimi
Taccuini del 1880-81: "Non come un bambino io credo in Cristo e lo
confesso, il mio osanna è passato attraverso il crogiuolo del dubbio". Nel 1854
Dostoevskij aveva detto di sé: "Sono un figlio del secolo, un figlio della
miscredenza e del dubbio e - lo so - tale resterò fino alla tomba...", eppure
nonostante questo egli si mantenne immutabilmente fedele al proprio amore per
Cristo e non tradì mai la sua appassionata, forse addirittura estatica fede in
Lui. Questa fede rimase oggetto del convincimento assoluto e supremo del suo
cuore, quali che fossero gli "argomenti avversi".
Dostoevskij cominciò a fare delle annotazioni al testo evangelico fin da quando
ricevette il Vangelo a Tobol'sk, da una delle mogli dei decabristi, ma queste
annotazioni acquistarono frequenza e sistematicità dopo il "mutamento di
convinzioni". Esse riflettono non solo il significato che i singoli versetti
evangelici avevano per Dostoevskij, ma anche la viva, complessa maturazione
della sua fede, l'approfondirsi della sua riflessione sulla figura di Cristo,
come pure l'idea che determina la visione religiosa dei suoi romanzi: una
concezione che raramente trova una concreta espressione religiosa paragonabile
alla forma che assume la parola ne I fratelli Karamazov, ma che
illumina di un'ansia soteriologica e redentrice la tragica condizione
etico-spirituale che in essi ricorre. Quest'ansia di redenzione, che si fonda
esclusivamente su Cristo come unica speranza per l'uomo di acquisire la vera
vita, è paragonabile a una luce la cui fonte resti celata, ma che illumina e
trasfigura una vetrata buia.
In tutto ciò che riguardava la sua vita spirituale personale, Dostoevskij si
mantenne riservato e addirittura avaro di spiegazioni. Nei suoi testi egli
riconosce e addirittura professa la propria fede, ma non ne discute. La lettera
alla Fonvizina e le riflessioni sulla morte della prima moglie sono rare
eccezioni. Tanto più preziose sono le note di Dostoevskij al Vangelo, in quanto
accrescono la nostra possibilità di comprendere la visione spirituale che
determina il mondo dei suoi romanzi, la sua concezione dell'uomo e del rapporto
fra l'uomo e Dio.
Le annotazioni di Dostoevskij al testo del Vangelo di Giovanni possono essere
suddivise nei seguenti gruppi: 1. la figura di
Cristo, la sua figliolanza e unità col Padre; 2.
la natura della fede e le condizioni a cui essa si acquista o si perde;
3. la disperazione spirituale e la condizione senza
via d'uscita che subentra quando si perde la fede; 4.
la sofferenza degli innocenti, una sofferenza redentrice;
5. le condizioni della resurrezione;
6. la teologia dell'amore (le annotazioni al
Vangelo vanno prese in considerazione insieme a quelle relative al testo della
Prima Lettera di Giovanni).
Nel loro complesso, le annotazioni al Vangelo e alla Lettera di Giovanni
illuminano in profondità tutto l'"insegnamento" di Dostoevskij sull'uomo e sul
rapporto uomo-Dio. Questi appunti costituiscono anche una testimonianza
profondamente personale, una "confessione" che amplia e approfondisce la nostra
comprensione della sua laconica e rara, ma immutabilmente ferma, appassionata
professione di fede.
VERO DIO E VERO UOMO
Ma, come testimoniano i suoi appunti, Dostoevskij continua a sentire la
necessità di "esorcizzare", "cancellare" la falsa, seducente immagine del Cristo
utopico, umanizzato, visto come uomo ideale, che tanto lo avvinceva e di cui
resta una traccia tutta particolare nei personaggi "positivi" di Dostoevskij. La
figura del Cristo umanizzato è immancabilmente presentata separatamente da Dio
Padre: non ha bisogno del Padre divino. Allo stesso modo nel pensiero utopico
religioso-sociale non esiste e non può esistere il concetto di Trinità.
Sottolineando ripetutamente le strofe che si riferiscono all'affermazione del
rapporto di paternità e figliolanza tra Padre e Figlio, Dostoevskij riafferma
insistentemente sia la divinità di Cristo, sia il mistero della sua unità col
Padre. 8,19: "Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me,
conoscereste anche il Padre mio". 8,28: "Io non faccio nulla da me stesso, ma
come mi ha insegnato il Padre, così io parlo". Il versetto 10,30 è sottolineato
con forza: "Io e il Padre siamo una cosa sola". 10,36: "Ho detto: sono il Figlio
di Dio". Il versetto 10,38 porta in margine un nota-bene: "Il Padre è in me e io
nel Padre". Anche una serie di successive affermazioni dell'unità del Padre e
del Figlio sono energicamente rimarcate, e questo gruppo di annotazioni è
coronato in qualche modo dalle parole di commiato del Salvatore al versetto
16,28, segnato da un nota-bene: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo;
ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre".
NON ESSERE PIU' INCREDULO MA CREDENTE
Il successivo gruppo di annotazioni evidenzia e sottolinea parole e figure che
hanno un particolare significato per Dostoevskij e per la sua devozione a
Cristo, oltre che per la sua fede in generale. In questi capitoli Dostoevskij
segna le frasi che si riferiscono al problema di una fede incerta o vacillante.
Si può osservare una certa dialettica tra i passi sottolineati nel Vangelo e la
lettera alla Fonvizina, in cui ad ogni ammissione di incredulità segue un
disperato De profundis, un'invocazione a Dio dal profondo.
Sottolineando i versetti è come se Dostoevskij rinnovasse continuamente la
propria professione di fede in Cristo. Bisogna osservare che Dostoevskij
sottolinea i passi che parlano dell'acquisizione della fede attraverso una
rivelazione. 2,22: "Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si
ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola
detta da Gesù". 3,12: "Se vi ho parlato di cose terrene e non credete, come
crederete se vi parlerò di cose del cielo?". 3,18: "Chi crede in Lui non è
condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel
nome dell'unigenito Figlio di Dio". Il versetto 13 del terzo capitolo introduce
il tema della resurrezione: la Resurrezione di Cristo e la resurrezione
dell'uomo. È caratteristica del pensiero di Dostoevskij la riflessione sulla
rinascita morale e sulla resurrezione spirituale dell'uomo. Il problema della
resurrezione della carne tormentava Dostoevskij, apparendogli talvolta come una
tentazione nelle questioni di fede, ed egli cercava nel Vangelo una risposta
autorevole. Per questo sottolinea il versetto 3,13: "Nessuno è mai salito al
cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo".
Per temperamento religioso Dostoevskij è il Tommaso che il Vangelo ci descrive
incredulo, bisognoso di prove tangibili, addirittura carnali, che Cristo sia
veramente risorto. Dostoevskij con una sottolineatura in margine
evidenzia il versetto 20,25: "Ma egli disse loro: se non vedo nelle sue mani il
segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia
mano nel suo costato, non crederò". Più avanti segna il versetto 29: la solenne
e contrita professione di fede di Tommaso in Cristo risorto; le parole di Cristo
a Tommaso sono sottolineate anche da un marcato nota-bene in margine: "Rispose
Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai
creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!".
Dostoevskij sottolinea inoltre una serie di versetti che parlano del ripudio e del venir meno della fede. In essi predominano le immagini dell'orrore e del giudizio sull'uomo infedele, che fanno eco alle immagini di male e di terrore davanti al quadro della Russia che smarrisce la fede e piomba in un deserto spirituale, con tanta forza evocate nel romanzo I demoni. 3,19-20: "E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere". Nei versetti 5,44 e 8,43 Dostoevskij evidenzia la questione che lo tormenta eternamente: "Come potete credere...?". Inoltre, le seguenti parole dell'ottavo capitolo sono sottolineate nel testo e segnate in margine con un tratto verticale e un punto esclamativo: "Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole". Dostoevskij segna anche lo sviluppo di questo pensiero nei successivi versetti 45 e 47, sottolineandone la gravità con un nota-bene in margine: "A me, invece, voi non credete, perché dico la verità"; "Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio". L'inevitabile conseguenza per l'uomo che si allontana da Dio è chiaramente formulata nel versetto 8,24: "Morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati". Dostoevskij sottolinea nel testo le parole: "che io sono", quasi volendo affermare in questo modo il significato eccezionale, determinante di Cristo, fuori del quale non v'è salvezza. D'altra parte la luce e la tensione a Dio di cui si parla nei versetti 3,21 e 6,45 definiscono il mondo spirituale di Zosima e Aljoša: "Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio"; "Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da Lui, viene a me". Sottolineando il versetto 7,18 Dostoevskij sembra quasi tratteggiare il volto dell'uomo giusto e credente: "Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di Colui che l'ha mandato è veritiero, e in lui non c'è ingiustizia". L'intero versetto è racchiuso fra parentesi quadrate.
ASPETTO LA RESURREZIONE DAI MORTI
Dostoevskij sottolinea poi tutta una serie di versetti che si riferiscono alle
sue riflessioni sulla resurrezione dai morti. Nelle
sue note Dostoevskij evidenzia la necessità di credere appunto nella
resurrezione dei morti, come ad esempio al versetto 6,54: "Chi mangia la mia
carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo
giorno". (Nell'epoca in cui era attirato dalle idee utopiche e partecipava al
circolo Petraševskij, Dostoevskij aveva smesso di accostarsi alla Comunione.
Avrebbe ripreso a comunicarsi in Siberia). Una serie di sottolineature evidenzia
nettamente il tema della resurrezione della carne, in particolare i versetti
8,28 e 12,32: "Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che
Io sono...", e "Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me". Il versetto
8,51, in cui si espongono le condizioni della vita eterna, è segnato in margine
da un segno marcato e da un nota-bene: "In verità, in verità vi dico: se uno
osserva la mia parola, non vedrà mai la morte". Dostoevskij ritorna al medesimo
tema nell'undicesimo capitolo, nel contesto del racconto della resurrezione di
Lazzaro, e sottolinea alcune parole, come per esaminare e riaffermare la propria
fede: 11,25 e 26 "Gesù le disse: Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in
me... non morirà in eterno. Credi tu questo?". L'ultima frase è evidenziata da
tre righe all'inizio e alla fine, e l'intero versetto è segnato in margine da
due nota-bene. Le sottolineature di Dostoevskij rimarcano continuamente la sua
appassionata convinzione che la fede e la vita, la "vita vivente" e la vita
eterna, sono organicamente, indissolubilmente legate. La vita, la vita vera è
impossibile senza fede: questa è la conclusione verso cui egli camminò a lungo e
tormentosamente. Le strofe citate sono tra le testimonianze più eloquenti della
verità cui Dostoevskij bramava di approdare. Questo gruppo di annotazioni si
conclude con il testo quasi integrale del racconto della resurrezione di
Lazzaro, che sarà determinante sia nel romanzo Delitto e castigo, sia
nel pensiero spirituale dello stesso Dostoevskij. Oltre alle osservazioni già
fatte, è interessante notare la sottolineatura in margine alle parole: "Gli
rispose Marta, la sorella del morto: Signore, già manda cattivo odore, perché è
di quattro giorni" (11,39). Da una linea in margine e un nota-bene sono
evidenziate le parole dei versetti 41 e 42: "Gesù allora alzò gli occhi e disse:
Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto,
ma ho detto questo per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai
mandato". Dostoevskij sottolinea ancora una volta l'affermazione della divinità
di Cristo e della sua unità con il Padre, che sempre lo commuove. Le annotazioni
di Dostoevskij al testo del racconto della resurrezione di Lazzaro sono
pienamente consonanti alla lettura ecclesiale di questo testo, che narra il
miracolo forse più drammatico fra quelli operati da Cristo. La resurrezione di
Lazzaro ricorda a ciascuno di noi che la nostra vocazione è la resurrezione, e
che colui che ci resuscita è Cristo, Figlio di Dio. Nel romanzo Delitto e
castigo la vocazione alla resurrezione si rifrange e in qualche modo si
registra in termini psicologici. Raskol'nikov spiritualmente è morto, e solo un
miracolo che abbia la potenza di soverchiare le leggi naturali, psicologiche,
può salvarlo.
Due gruppi relativamente modesti di sottolineature evidenziano alcuni aspetti
dell'insegnamento di Cristo, così come lo intende Dostoevskij. In primo luogo
due temi centrali nell'opera di Dostoevskij: il tema della libertà (nella
concezione ortodossa della libertà come grande e drammatico dono all'uomo) e il
tema del dolore innocente. Dostoevskij segna con una riga e un nota-bene in
margine il versetto 8,32: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi".
Questa verità per Dostoevskij è Cristo. Il versetto 9,3 offre una risposta netta
ma tutt'altro che facile alla domanda sul dolore innocente. Del cieco nato
Cristo dice: "Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si
manifestassero in lui le opere di Dio". Dalle opere dello scrittore sappiamo
quanto la sua ricerca su questo problema fosse tormentosa.
SONO VENUTO A DARE LA VITA
Altre annotazioni mettono in rilievo ancora due temi profondamente
significativi: il giudizio di Cristo sul mondo e il suo insegnamento sull'amore.
Verranno giudicati quanti non l'avranno accolto, e Dostoevskij segna con una
doppia sottolineatura in margine e un nota-bene il versetto 9,39: "Gesù allora
disse: Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non
vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi". I farisei che non sanno
vedere gli chiedono: "Siamo forse ciechi anche noi?" (9,40); e "Gesù rispose
loro: se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: noi vediamo,
il vostro peccato rimane" (9,41). Queste ultime due strofe sono segnate da un
ampio segno a forma di parentesi sui margini. Non costituiscono in qualche modo
un giudizio sul Grande Inquisitore? Dostoevskij sottolinea le parole di Cristo
sul Buon Pastore, ma mette in evidenza la sua figura non tanto kenotica quanto
autorevole, la figura del sacerdote regale che dona la sua vita a coloro che è
venuto sì a salvare, ma anche a giudicare. La figura del Buon Pastore, che
rispecchia la persona e la missione di Cristo sulla terra, destava in
Dostoevskij un'intensa riflessione. L'inizio del decimo capitolo porta fitte
sottolineature: in primo luogo, chi è (e chi invece non è) il Buon Pastore.
10,1: "Chi non entra nel recinto delle pecore per la porta... è un ladro e un
brigante". 10,2: "Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore".
10,7: "Io sono la porta delle pecore". Nel versetto 8 Dostoevskij sottolinea la
prima frase e segna l'intero versetto con delle parentesi sui margini: "Tutti
coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti...". Nel versetto 11,
sottolineato da un'ampia parentesi, appare già l'immagine della missione: "Io
sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore". Il versetto
17, segnato in margine da una riga e da un nota-bene, sviluppa il concetto e
l'immagine di missione: dare la vita per il gregge affidato è dovere e vocazione
non solo del re e del sacerdote, ma per Dostoevskij è dovere e vocazione di ogni
credente. Proprio per questo egli attribuisce tanta importanza al martirio del
soldato che accetta torture spaventose piuttosto di abiurare alla fede
cristiana. Dostoevskij non teme di affermare che il martirio è una delle strade
che conducono al Regno dei Cieli. Il versetto 10,17 suona così: "Per questo il
Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo".
Le figure di coloro che rinnegano Cristo, sottolineate da Dostoevskij,
richiamano le immagini di tenebra interiore che si incontrano ne I demoni:
Nell'undicesimo capitolo i versetti 9 e 10 portano una sottolineatura e un
nota-bene: "Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di
questo mondo; ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la
luce": un'immagine, questa, che si chiarisce nell'accostamento con le parole di
Cristo: "Io sono la luce del mondo" (Gv 8,12).
Le note di Dostoevskij al Vangelo di Giovanni ci mostrano un'immagine di Cristo
severa, possente: è il Cristo Pantocratore, il cui sguardo è rivolto
all'eternità. Dostoevskij sembra aver bisogno di una parola divina
autorevole, potente, che lo sostenga e incoraggi nelle sue ricerche e analisi
dei destini dell'uomo moderno, sempre più smarrito e lontano dalla fede e dalla
vera vita. È però necessario soffermarsi su due annotazioni che mettono in
rilievo la figura del Cristo kenotico. Nel versetto 8,50 Dostoevskij sottolinea
le parole: "Io non cerco la mia gloria", e nel tredicesimo capitolo segna con
una riga e un nota-bene il versetto 14: "Se dunque io, il Signore e il Maestro,
ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri".
Queste parole ci introducono all'ultimo gruppo di annotazioni, riferite
all'insegnamento sull'amore: un insegnamento che definisce il concetto e il
significato di redenzione e di salvezza nell'opera e nel pensiero di
Dostoevskij, un insegnamento che illumina attraverso la figura di Sonja
Delitto e castigo, che illumina in forme tragiche e fatali la dolente
figura del principe Myškin ne L'idiota, e che ne I fratelli
Karamazov, oltre a illuminare una serie di personaggi, viene anche espresso
concretamente in forma di esortazioni. Una volta riordinate e completate dalle
note alla Prima Lettera di san Giovanni, queste sottolineature al Vangelo di
Giovanni costituiscono una vera e propria teologia dell'amore. 13,34: "Vi do un
comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così
amatevi anche voi gli uni gli altri". I versetti 14,23-24 sono segnati da una
riga in margine e da ripetuti nota-bene: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
Chi non mi ama, non osserva le mie parole"; il comandamento dell'amore ritorna
ancora al versetto 15,12-13: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli
uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici". Nei versetti 18-20 del quindicesimo capitolo
viene precisato il prezzo esigito dal mondo per la predicazione dell'amore: "Se
il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il
mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho
scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia... Se hanno perseguitato me,
perseguiteranno anche voi...". Dostoevskij era perfettamente cosciente che
l'adempimento fedele dei comandamenti di Cristo condannava quanti lo seguivano
ad essere considerati "folli per Cristo", e spesso anche al martirio. Lo rimarca
al versetto 16,33, sottolineando le ultime tre parole e aggiungendo un
nota-bene: "Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete
tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo!".
Le note alle parole sull'amore continuano fino al solenne apogeo nella Prima Lettera di san Giovanni, ai versetti 4,7-8: "Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore". Dostoevskij sottolinea inoltre una serie di versetti successivi, i 19-21 e i 3-4 del quinto capitolo, che sviluppano la predicazione sull'amore richiamando all'amore fraterno tra gli uomini. Al versetto 21: "Questo è il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello", Dostoevskij inserisce la particella ottativa "by" ("orsù, dunque") prima del verbo "ami", accentuando in tal modo il carattere di esortazione del versetto.
APPENDICE
La Vita
Fedor Michajlovic Dostoevskij nacque a Mosca il 30 ottobre 1821, secondo di sette figli, da Michajl Andreevic, medico di origine lituana che ha ottenuto un posto e un alloggio presso l'ospedale dei poveriin uno dei quartieri più squallidi della città, e Marija Fedorovna Necaeva, proveniente da una famiglia di commercianti.
L'atmosfera in casa Dostoevskij è opprimente e i bambini hanno un'infanzia infelice., nonostante il carattere semplice e allegro della madre che ama la musica e legge Puskin e Zukovskij.
È la madre che insegna a leggere al piccolo Fedor: la Bibbia e soprattutto il libro di Giobbe è la sua lettura preferita.
Nel 1831 il padre decide di trasferirsi con la famiglia nel villaggio di Darovoe, in provincia di Tula, dove ha comprato un terreno di circa un centinaio di anime.
Nel 1834 lascia la casa per seguire il fratello maggiore e completare gli studi.
Nel 1837 muore la madre affetta da una tisi ingravescente e indebolita dalle numerose gravidanze: la famiglia si disgrega completamente. Fedor, su insistenza del padre fa domanda d'ammissione alla Scuola Superiore di Ingegneria di Pietroburgo, dove dal 1838 al 1843 studia, lottando in segreto per difendere la propria vocazione letteraria; legge avidamente, non prova alcuna inclinazione per l'ingegneria militare (ma è attirato dall'architettura e gli rimarrà per sempre il gusto per gli edifici, gli interni, la loro fisionomia, il loro carattere).
Nel 1839 muore misteriosamente il padre, forse ucciso dai suoi contadini che era solito maltrattare sotto i fumi dell'alcool. Si dice che dopo aver ricevuto la notizia, Fedor ebbe il suo primo attacco di epilessia, malattia che si presenterà più volte nel corso della sua vita.
Il 12 agosto 1843 Fedor termina gli studi ed ottiene il diploma, il grado di ufficiale e un modesto impiego come cartografo in un distaccamento di Pietroburgo. Lo stipendio è miserabile ed inoltre comincia in questo periodo la sua passione per il gioco; nelle situazioni più disperate è capace di giocare e perdere migliaia di rubli, dannandosi l'esistenza per far fronte ai debiti, alle cambiali e agli usurai. Da questa situazione di disperazione assoluta nasce il suo odio per i tranquilli borghesi, i piccoli commercianti, i proprietari, gli accumulatori: incapace di maneggiare i soldi, è generoso fino all'estremo.
Nel 1844, destinato a una missione in una lontana fortezza, preferisce ritirarsi dal servizio presso il comando d'Ingegneria militare.
A 23 anni è scrittore a tempo pieno.
Nel gennaio 1846 esce il suo primo racconto Povera gente; il manoscritto, prima di essere stampato era stato letto dal critico Belinskij, il quale, colpito dalle doti del giovane scrittore non esitò a paragonarlo ad un nuovo Gogol. Il consenso di Belinskij gli apre le porte dei circoli culturali più esclusivi della capitale. L'anno successivo esce Il sosia. Se per Povera gente il tema sociale ne determinò il successo, il risvolto psicologico de Il sosia non piace altrettanto e i sostenitori del primo racconto, fra cui lo stesso Belinskij, raffreddano l'entusiasmo. Fedor, però, trova nel giovane Valerjan Majkov, critico tra i più apprezzati, uno strenuo difensore. Fedor conosce anche Michail Petrasevskij, convinto sostenitore del socialismo utopistico di Fourier, che lo invita a frequentare il suo salotto dove si discutono nuove questioni sociali ed economiche. Dostoevskij frequenterà le riunioni assiduamente, attratto dall'idea di una società pacifica e dominata dall'amore; egli non è, né mai sarà, un rivoluzionario (prende anzi le distanze dalle posizioni più estreme di alcuni membri del gruppo), ma sogna provvedimenti che possano abolire la servitù della gleba, la censura, la diseguaglianza, l'oppressione, la povertà.
Lo stesso anno esce il racconto La padrona.Nel 1848 escono sulla rivista "Otecestvennye zapiski" (Quaderni patriottici) i racconti Un cuore debole, Polzunkov, Le notti bianche, L'eterno marito.
All'inizio del 1849 escono le prime due parti di Netocka
Nezvanova. Il 25 aprile 1849, alle cinque del mattino, Dostoevskij viene arrestato e imprigionato nella fortezza di Pietro e Paolo con l'accusa di far parte di una società segreta sovversiva guidata da Petrasevskij. Nel frattempo esce anche la terza parte di Netocka Nezvanova, ma senza la sua firma.Il 16 novembre è condannato alla pena di morte mediante fucilazione, esecuzione che all'ultimo momento, come era uso a quei tempi per esaltare la grandezza e la magnanimità dello zar, viene commutata in condanna ai lavori forzati in Siberia.
Nella fortezza di Omsk Dostoevskij passa quattro anni a contatto con detenuti di ogni genere, provenienza, estrazione, ognuno con una storia diversa; tutto materiale che verrà utilizzato per Memorie da una casa di morti.
Nel 1854, terminata la pena, viene mandato a Semipalatinsk, non lontano dal confine cinese, come soldato semplice. Là si innamora della moglie di un doganiere del luogo e dopo la morte di questo prende la donna, Marija Dmitrevna, come sposa. Nel novembre 1854 giunge a Semipalatinsk A.E.Vrangel', il nuovoprocuratore, con il quale Dostoevskij stringe una salda e sincera amicizia. Alla morte dello zar Nicola I, nel 1855, sarà lo stesso Vrangel' ad adoperarsi per permettere a Dostoevskij di tornare a Pietroburgo.
Nel 1859 viene congedato per motivi di salute, si trasferisce a Tver, quindi a Pietroburgo, sempre, però, sotto la sorveglianza della polizia segreta. Lo stesso anno escono Il sogno dello zio e Il villaggio di Stepancikovo.
Nel 1860 inizia sulla rivista "Russkij mir" (Il mondo russo) la pubblicazione delle Memorie da una casa di morti.
Nel gennaio 1861 esce il primo numero della rivista "Vremja" (Il tempo), pubblicata dal fratello Michail e di cui Fedor diventa il principale collaboratore. È un mensile di grosso formato dove si tratta oltre che di letteratura, anche di questioni filosofiche, economiche, finanziarie. Su di essa viene pubblicato a puntate Umiliati e offesi.
In questo periodo entra in contatto con due personaggi che, oltre a diventare collaboratori del giornale, saranno per Fedor fraterni amici: Apollon Grigorev e Nikolaj Strachov.
Nel 1862 viaggia molto all'estero. Conosce Apollinarija Suslova, con la quale intreccerà un legame turbolento che durerà parecchi anni.
Nel 1863 pubblica Note invernali su impressioni estive. Il 24 maggio, per un articolo troppo astratto e poco prudente di Strachov sulla questione polacca, la sua rivista viene chiusa dalla censura. Raggiunge la Suslova a Parigi, con la quale parte per l'Italia. Il rapporto fra i due è turbolento, tra violente scene di gelosia e tragiche perdite al gioco nei casinò di mezza Europa.
Nel 1863 i fratelli Dostoevskij redigono una nuova rivista, "Epocha" (Epoca), in cui appare la parte iniziale delle Memorie del sottosuolo. A distanza di tre mesi l'una dall'altro muoiono la moglie, da tempo malata, ed il fratello Michail, per una fulminea malattia, che lo lascia in gravi difficoltà finanziarie per l'edizione della rivista (quasi 25000 rubli di debito). Dopo poche settimane, per un colpo apoplettico muore anche Apollon Grigorev, l'amico definito da Fedor come "l'uomo più autenticamente russo".L'ultimo numero di "Epocha" sarà quello del 22 marzo 1865, in cui appare il racconto umoristico Il coccodrillo. Inizia a scrivere Delitto e castigo, ma brucia il manoscritto.
Nel 1865 firma con l'editore F.Stellovskij un contratto, per il quale dovrà consegnargli entro il primo novembre dell'anno successivo un nuovo romanzo, pena la pubblicazione fuori diritti da parte di Stellovskij di tutte le sue opere. Comincia a scrivere Delitto e castigo, e per velocizzarne la stesura assume una stenografa, Anna Grigorevna Snitkina, che sposerà nel 1867.
Nel 1866 esce a puntate sul "Russkij vestnik" (Il messaggero russo), Delitto e castigo. Lo stesso anno termina Il giocatore.
Dal 1867 al 1872 fa un secondo viaggio, caratterizzato dalle difficoltà finanziarie e dalle perdite al gioco.
Nel gennaio 1868 inizia sul "Russkij vestnik" la pubblicazione a puntate de L'idiota. Gli nasce una figlia, Sonja, che muore due mesi dopo.
Nel 1869 nasce la figlia Ljubov.Nel 1871 inizia la pubblicazione a puntate de I demoni. Nasce il figlio Fedor.
Nel 1872 diventa capo-redattore di una rivista conservatrice "Grazdanin" (Il cittadino), presso cui cura una rubrica intitolata Diario di uno scrittore. La collaborazione, però, dura poco.
Nel 1875 esce L'adolescente e gli nasce il figlio Aleksej.
Nel 1876 cura per suo conto la pubblicazione di una nuova rivista dal titolo Diario di uno scrittore.
Nel 1878 muore il figlio Aleksej, per un gravissimo attacco di epilessia. Nei mesi disperati che seguono incontra spesso il filosofo Vladimir Solovev e con lui si reca al monastero di Optina, centro di spiritualità russa, dove incontra lo starec Amvrosij, prototipo dello starec Zosima de I fratelli Karamazov; all'amico filosofo confiderà il tema del suo ultimo libro: "La Chiesa come autentico ideale sociale".
L'anno successivo il "Russkij vestnik" inizia la pubblicazione a puntate del romanzo I fratelli Karamazov, che vedrà la luce in volume alla fine del 1879.
L'8 giugno 1880, in occasione dell'inaugurazione del monumento a Puskin, pronuncia un famoso discorso sul grande poeta discorso che suscita grandi entusiasmi: solo i russi sono dotati, come Puskin, di simpatia universale, solo essi sono in grado di penetrare nell'anima degli uomini di tutti i paesi e di elevarsi alla concezione dell'unoine universale di tutti i popoli. "Puskin illuminò la strada della storia russa come una chiara luce-guida e profetizzò il suo sviluppo ulteriore mostrando a tutti il cammino salutare di un legame con il popolo.
Il 28 gennaio 1881 muore a Pietroburgo, per il peggioramento dell'enfisema polmonare da cui è affetto. Viene sepolto nel cimitero del convento Aleksandr Nevskij, accompagnato da una folla immensa.
FINE
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