(Da: Giovanni Papini, La ricetta della felicità, in: La felicità , dell'Infelice , Firenze, Vallecchi, 1956, pp. 172-175)
Una delle più stravaganze stravaganti del Settecento (chiamato il secolo dei lumi forse perché tentò di spengere il lume della fede e il lume della poesia) fu l'idea fissa della felicità.
Secondo i filosofoni e i filosofini di quella felice età, che doveva concludersi con la beneficiata della ghigliottina, gli uomini erano nati per la felicità, avevano diritto alla felicità e la ragione poteva servire a riconoscerla e a conseguirla.
I pagani avevano immaginato la felicità all'alba del genere umano; i cristiani l'aspettavano nella seconda vita; gli illuministi invece, la volevano ora, subito, in contanti, nel tempo presente, in questa vita, su questa terra.
Queste grosse stupidità ebbero purtroppo un nefasto influsso anche sul giovane Leopardi, il quale si abbeverò golosamente alle fontanelle illuministe e passò metà della vita a prendersela con la natura matrigna e maligna che non aveva mantenuto la promessa di dare a lui e a tutti gli uomini la felicità permanente.
Pareva, a sentir lui, che la natura (la quale fra l'altro non è un'entità personale e cosciente) avesse firmato una scritta in piena regola con gli arcitrisavoli del contino Giacomo Leopardi, nella quale si fosse impegnata a fornire congrue porzioni di felicità effettuale a tutti gli inquilini della terra ma che poi non avesse mantenuto i patti, con manifesta lesione dei legittimi diritti di esso Giacomo Leopardi. Il quale come sappiamo sfogò il suo furioso disappunto per quel mancamento di parola, ricoprendo la fedifraga natura di amare accuse e di aspri rimbrotti.
Il Leopardi era, secondo me, un grandissimo poeta, un eccellente artista, ma era un mediocre ragionatore, e la sua cultura, per quanto vastissima, aveva vastissime lacune. Se avesse poppato meno alle mammelle settecentesche e avesse invece approfondito lo studio della religione nella quale era nato, avrebbe capito la sua ridicola illusione.
Che quei bravi redattori della Costituzione degli Stati Uniti, avessero spinto l'ingenuo candore fino al punto da mettere il diritto alla felicità tra i diritti naturali del cittadino, si può comprendere e scusare, ma che una mente europea, anzi italiana, erede di una civiltà antica e scaltrita, potesse avvicinarsi a una tanto balorda balordaggine è riprova che il Leopardi non era così profondo pensatore quale immaginano i suoi poco profondi ammiratori.
Se egli non avesse preferito lo studio del mediocre e pedante Frontone alla meditazione del Vangelo, avrebbe scoperto che il cristianesimo poteva insegnargli intorno alla felicità, dottrine ben altrimenti importanti.
Prima di tutto che la felicità non può essere un dono e tanto meno un diritto, bensì una conquista. Una conquista tutt'altro che facile, una conquista che non può essere durabile e che va ricominciata, dunque, giorno per giorno, ora per ora.
Il cristiano sa che non esiste sulla terra beatitudine perfetta se non per brevi momenti, ma conosce, in compenso, un meraviglioso segreto che consiste in quell'arte di alchimia spirituale che riesce a trasmutare il dolore in gioia. I due più dispiegati inni alla gioia che il mondo conosca furono opera di un poeta e di un musicista ambedue avversati dalla malattia e dalla sventura: Federico Schiller e Ludovico Beethoven.
Chi non sa distillare la voluttà del tormento ignora eternamente cosa vuol dire essere felici. Scrisse mi pare Dostojewski che la maggiore causa della infelicità degli uomini consiste nel fatto che essi non si accorgono di quanto sono felici.
Ma l'Evangelo avrebbe potuto insegnare al Leopardi una verità ancora più importante. Uno dei più divini paradossi del cristianesimo è questo: diminuire l'infelicità del fratello è il modo più certo per diminuire la nostra. Quando consoliamo gli altri, abbiamo la nostra consolazione; per alleviare la nostra soma, bisogna alleggerire la soma del prossimo; il conforto delle pene degli altri è il solo mezzo per confortare gli affanni nostri. Si ottiene così un doppio beneficio: chi disacerba l'altrui dolore, disacerba anche il proprio. La via più diritta verso la felicità è quella che porta a soccorrere amorosamente l'infelicità di quelli che sono più infelici di noi.
Colui che passa la vita, come ha fatto Leopardi, a gemere sul proprio dolore o a compiangere la razza umana in generale, non fa che accrescere la ricchezza propria e l'altrui. La vera ricetta della felicità è quella di aiutare i caduti a risorgere, i lacrimanti a sorridere, i disperati a sperare.
Colui che non conosce e non pratica questo insegnamento, che è forse il succo di tutto il cristianesimo, è un cuore chiuso in se stesso, senza generosità d'immaginazione e senza effetti di carità, e perciò si condanna da se a una solitaria tristezza.
Asciugare una sola lacrima di un solo infelice vale infinitamente più che riempire interi volumi con gli elenchi e i lagni dei mali del genere umano.
FINE