(Da: Giovanni Papini, La seconda nascita, Firenze, Vallecchi, 1959 pp. 150-52)
E senza compagnia si cominciò a salire su per la foresta. Il sole l'aveva abbandonata, lasciando appena in terra qua e là, il tondo di uno zecchino; e i fiori eran tanti che rendeva l'aria più compatta.
Ci pareva d'essere entrati nella cripta di una basilica di colossi, a cui fosse cupola sopra la volta delle fronde, il duomo del cielo. tra le nere colonne di fusti, con le scarpe tra cesti di fiori, s'andava già a caso, aiutandosi con le mani e con quel po di luce che ancora colava giù dall'alte ramature degli abeti e dei faggi.
E a un tratto, alla mancina, si scoperse l'abisso. Da quella parte il magno torrione pendente della Verna è una muraglia a picco, fatta a scogli e dirupi.
Ci affacciammo altamente da una balza, strisciando col ventre per terra come serpenti, e ci apparve di sotto, arroventata dai fuochi calanti, la felice distesa di Valle Santa. Branchi di uccelli grossi si staccavano a un tratto dalla parete gigante, rotavano sulla valle mostrando tutta la misura dell'ali, e poi risparivano nelle incavature.
Erano i falconi, i falchi di S. Francesco, che prima di lui nidificaron lassù; erano i fratelli che si avrebbe voluto avere in quelle giornate di volo, per salire anche noi senza impedimenti, tra la magnificenza del sole e la ospitalità della terra.
Falconi della Verna, Anch'io ho fatto alla fine il mio nido sulla montagna, santa come tutte le montagne, che il sole visita tra le prime e la croce le protegge dall'abiezione delle frane e dalle salite moleste. Ma seguito a invidiarvi anche ora, falconi dell'aria, amici dei santi, cittadini dello spazio, discendenti di quello che rompeva dolcemente il sonno a Francesco al primo candor del mattino.
FINE