MIO SUOCERO, IL GIOVAGNOLI

(Da: Giovanni Papini, Il Giovagnoli, in: La Seconda Nascita, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 177-83) 

 

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                Oggi sementano il grano vicino a casa mia.

                In questa parte del mondo c'è tanto sole, tanta quiete, tanto cielo disteso, tanta bianchezza! Bianco il letto del fiume, bianche le vacche che tirano il coltello del vomero, bianche le camicie dei bifolchi e bianca la polvere di calcina che viene fuori a nuvolette col seme, dal paniere imbracciato. 

                Uno stormo di colombacci punteggia il cielo di virgole nere; e il gracchio intermittente del corvo ci ricorda che siamo vicini al giorno dei morti; e sono cupe le fette rovesciate della terra rotta, umida, pastosa. Ma nulla può spengere la dominante di bianchezza; anche i pinnacoli disalberati del vomero, sembrano nella chiarità del sole, di marmo e paiono intonacate di fresco le case lontane, chiuse tra rettangoli di saggina e di rapi, che mandano riverberi di riposata pace.

                  Le voci grosse degli aratori che gridano agli aggiogati salgono fin quassù: imparo senza volere, i nomi delle vacche, più dolci di quelli che mettono alle bambine. Farfallina! Romanella! Bionda! Bianchetta! Bellavita! Sembra la chiama di una commedia boschereccia o d'un ballo di ninfe rustiche. Le vacche paion tutte uguali, ma sono uguali soltanto per la dolcezza nera dei grandi occhi ovali; ciascuna ha le sue fattezze, la sua corporatura, il proprio umore. A vederle par che durin fatica, ma sotto la bianchezza del pelo corto si vedono gonfiare i muscoli, inarcare gli ossi e dalle narici rugiadose s'ode uscire l'umido fiato ansimante che a loro tien luogo di gemito.

                  Questa giornata mi ricorda che l'anno passato di questi tempi, ero anch'io alla sementa, nel campo più alto del Giovagnoli, alla Malacozza. Tre paia di bestie insolcavano in gara parallela l'ampia maggese dal nome dantesco. Il povero vecchio s'era arrampicato a cavallo fin lassù e pareva che il cuore gli desse un po' di requie; aveva meno affanno e la felicità gli rabbelliva il viso rugoso e sparuto.

                  E' morto prima di vedersi arrivare a casa la raccolta, prima di vederla spigare.

                  Per sedici anni è stato il più grande e fedele amico che avessi. Nelle città mi vedevano insieme agli scrittori, ai pittori, ai signori, ai talentosi, agli spiritosi, ai celebri, in mezzo alle praterie di quelli che fanno il mio mestiere, che vivono a sentir loro, per lo spirito e per l'ideale. Invece l'amico più vero mi aspettava quassù, presso al fuoco, o nell'orto, o nell'aia, e gli pareva mill'anni che tornassi a fargli compagnia, a raccontargli le mie fortune, a sentirgli raccontare le sue memorie antiche, le sue speranze sempre nuove, anche a ottant'anni passati. E' stato l'unico che abbia veramente goduto del mio bene, che abbia corrisposto amorosamente al mio affetto, che mi sia stato fedele fino all'ultimo, che non mi abbia invidiato una volta sola, che mi abbia tenuto come figliolo e qualche momento, perfin come padre.

                Aveva letto pochi poeti, un po' di Dante, molto Tasso e un'infinità di cantari in ottave, ma era a momenti, più poeta dei letterati e parlava meglio di certi compilatori di vocabolario. Insieme all'esperienza del vecchio che aveva girato il mondo a piedi e a cavallo, aveva, a tratti, freschezze, sorprese, fantasie di fanciullo. Voleva bene alla vecchia sposa come il primo giorno, alle sue figliole come quando giungevano appena alla cintura, alla sua casa nera, ai suoi campi che per mezzo secolo l'avevan nutrito, agli alberi che aveva piantato colle sue mani, agli animali che riconoscevan la sua voce e gli frugavan col muso caldo nelle tasche, dove teneva sempre, a loro intenzione, un pezzo di pane.

                  Da giovane era stato domatore di cavalli in Maremma, come Achille: ogni domatura gli fruttava dieci monete fiorentine. Quando n'ebbe fatte un centinaio non sapendo dove nascondere tanta ricchezza, la sotterrò dentro un bugione di quercia, in una macchia fitta verso la Marsiliana. L'anno dopo quando tornò non c'èra più né quercia né tesoro. Raccolse colla forza dei bracci e delle gambe un altro peculio e lo prestò a un fattore, che si buttò fallito e nulla riebbe, sicché dalle fatiche di domatore non ricavò che due coste rotte e una lacciaia per ricordo. Una volta non contento dei cavalli, fece alla lotta con l'orso; un altro giorno, sempre in Maremma, fu inseguito come Adone da un cinghiale infuriato; un'altra volta s'imbatté in Fioravanti, lontano seguitatore di Ghino di Tacco.

                Per molti anni fece anche lui la vita del selvatico nomade, di montagna in montagna, coi cosciali alla maremmana, il corpetto rosso, la doppietta a tracolla: ma non molestava nessuno, e tutti, specie le donne, gli facevan buon viso.

                Finalmente una zia gli lasciò alla sua morte, un po' di terre, ma i campi eran coperti di buschi, di rovi, di sassi e di deviti. 

                Sposò una donna di Soraggio, bionda ma valida al lavoro, e per trent'anni lavorò a lavorare il podere minacciato. Un anno a piantar fratte di moggie marruche perché non entrassero le bestie degli altri nei campi; poi a pietrellare un pezzo per volta e a far fosse per buttarvi sassi, e scoli per l'acque, e muri a secco di sostegno, e ora sterpare, ora discioccare, ora scassare, e far campi di grano dov'eran sodaglie, e orti dov'eran foreste, e pasture buone dov'eran mollaie: lavora lavora la groppa si piegò, la testa imbiancò ma i debiti furon pagati fino all'ultima lira e il podere, invece di dar trenta staia di grano e di loglio, arrivò a fruttarne nelle annate buone, duecento.

                Intanto gli nascevano e gli crescevano le figliole; e gli riusciva di fabbricar un capanno di acconciar la casa, di conquistarsi finalmente la pace. Conquistata che l'ebbe sentì che aveva chiesto troppo al cuore, su per l'erte tutti i giorni, a zappare a vangare, a tagliare, a scavare e appena il mondo gli parve più bello, dové prepararsi alla morte.

                Finché poté si strascicò ai suoi campi, a vedere i suoi grani, a riguardar le sue fratte, a giudicare la crescita delle sue piante. Alla fine dové fermarsi e parve che col lavoro gli finisse la vita. Ho quasi ottanta anni, mi diceva un giorno, e ancor non mi son levata la voglia di lavorare

                Quando non lavorava la sua grande consolazione era conversare con qualcuno che l'ascoltasse. Quante migliaia d'ore s'è passato insieme a parlare, di sera, vicino alla focolaia, di giorno appoggiati al muro di casa! Ridipanava via via tutti i ricordi della fanciullezza orfana, della gioventù errante, della virilità faticosa; e si spassionava dei suoi dolori e disappunti di tant'anni prima, o raccontava, con vivo eloquio non accattato sui libri, casi ridicoli o funesti di gente ch'era morta, o cantava con la voce che negli acuti lo tradiva qualcuna delle ottave che gli avevan ferito il cuore di più o si stendeva a rammemorare le pene o le vittorie della sua bonificazione: ch'era per lui come una chanson de geste rurale, un'epopea georgica che raccontava i trent'anni di guerra tra l'uomo solo e la terra nemica.

                Aveva ancora tutti i capelli e qualcuno sempre nero; e tutti i suoi denti, ma limati dall'uso, e due occhi piccini e quasi nascosti ma vividi di amorosità e di malizia. Somigliava, quando aveva le guancie incoronate di barba bianca, un po' a Garibaldi e un po' a Verdi, meno s'intende, la fortuna e il genio. Stando con lui mi pareva di conoscere i contadini di Catone o di Virgilio, o per lo meno i pastori canuti che albergavano le fuggiasche guerriere del Tasso.

                Era uno di que' vecchi legionari agresti, che avevan debellato l'inselvaticamento dei latifondi, e ridato il pane all'Italia, arando in cima ai poggi e cantando alle solitudini nevose di guerrieri e d'amori, senza curarsi delle vicende de'regni, ma formando, colla pertinacia e la sobrietà, la sostanza intatta e sicura del gran popolo dei mangiatori di frumento. Mi appariva un degli innumerevoli eroi oscuri di questa antichissima Italia contadina che ha dovuto riconquistare sui sassi calati dall'Appennino e dall'Alpi ogni proda seminabile, ogni manata di terriccio, perché a nessun figliolo mancasse il pane, a nessuna chiesa la farina del ciborio.

                In chiesa andava soltanto la festa e non gli piacevan le preghiere prolisse; si buttava quasi in terra col viso tra le mani rilevate da nodi e da vene e  si rialzava con gli occhi più contenti. Per quanto soffrisse e l'affanno lo tenesse sveglio nottate intere, le notti infinite dell'inverno in montagna, non voleva morire.

                Voleva bene alle sue donne, a me, a tutti, voleva bene al suo fuoco alla sua casa, al suo passato di miseria e di forza, voleva bene ai suoi poggi aperti, ai suoi campi fruttuosi, alla vita.

                Ma tutto quest'amore non lo salvò, e oggi, sulla terra ch'egli arricchì, restan di lui soltanto queste pagine di memoria, che hanno consolato, almeno oggi, il mio dolore.

 

 

FINE

 

 

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