(Da: Giovanni Papini, La Sposa, in: La seconda nascita, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 163-168)
A desinare una sorpresa. Alla tavola era stata messa una giunta e aspettavano il padrone e due missionari, con tanto di croce bianca sul petto, arrivati proprio quel giorno per non so quale festa. Da mangiare ci fu anche per noi, ma alla sera don Teodulo, mortificato, ci disse che non ci poteva tenere a dormire: la canonica è una topaia e più di quattro persone la notte non ci stanno. Né li né vicino c'èra una locanda, un'osteria, una casa con due letti in più.
La meglio cosa, interloquì la serva Clara, che avvezza a veder soltanto tonache guardava a stracciasacco i nostri vestiti sgualciti, i nostri capelli troppo lunghi e il nostro fagotto troppo mencio, la meglio cosa è che vadano a dormire dal Giovagnoli, che ha sempre una stanza in più .
E' un po lontanetto, osservò don Teodulo.
Si fanno accompagnare da un citto e arrivano in quattro balletti; c'è ancora un'ora buona di sole.
Vadan pure, disse il vecchio, che son buona gente e troveranno buon viso. E non manca neppur l'allegria, perché hanno quattro ragazze che frullan per questi campi come gazze. Il suo babbo gli ha voluto metter tutti nomi di piante, una Viola, una Giacinta, una Rosa e una Palma. Colle sue figliole potrebbe fare un giardino e il palmizio nel mezzo.
Fu giocoforza rimettere il sacco a tracolla. Per arrivare a cotesto ospizio fiorito bisognava scendere in una valletta, traversare un torrentuccio magro e poi salire fino a un castello di case che si vedevano alte e ritte nel sole rosso come palazzi. In cima al castello era la casa del Giovagnoli, poco più grande dell'altre e con una scala esterna alla maremmana.
Ci accolse con viso un po' duro la Vittoria massaia. Ma quando seppe che ci mandava e raccomandava don Teodulo diventò un'altra; ravvivò il fuoco e dispose sulla spianatoia un bel monticino di farina candida e molle per fare la sfoglia.
Lo spazio che saliva dal piantito di legno al soffitto di legno bastava appena a contener le nostre stature e pareva che si dovesse battere il capo nei tronchi interi, bruniti dal fumo, che facevano da travi. Ai muri due o tre Madonne con viso ingiallito ma coronate di perle e un San Luigi di Francia con tanto di scettro, di globo, di corona reale e d'aureola raggiata.
M'affacciai al balco che dava sull'aia: all'ombra di un noce due maiali neri e tre oche bianche, in buona pace e alleanza, frugavan la terra. Il cielo d'oriente pigliava quel color di perla disfatta che è il lutto delle belle giornate. Campane di chiesa e campane di greggi si rispondevano di lontananza in lontananza, con tarde sonorità, come se quella fine di giorno lasciasse più rimpianti delle altre. Un'amorosa stanchezza era nella terra scaldata e nel mio cuore. Perché ripartire? Perché non fermarsi in quella pace solitaria? Perché non esiliarsi in quel castello di poveri? Non era la vita che volevo? La luce che mi riscaldava l'anima nella belletta cittadina? Aver qui una casa di pietra, un orto con un pozzo, un po' di libri l'ombra di una chiesa...ma solo?
A un tratto, nel silenzio, sentii avvicinarsi una voce giovane che cantava. Non ricordo che il primo verso:
Felice sera fior d'olivo bianco!
E apparvero a piè della scala due ragazze con le falci in mano: quella che cantava, appena mi vide, si tacque; e tutt'e due si fermarono. Rientrai in casa e qualche minuto dopo entrarono.
Son due delle mie figliole, disse la vecchia che appallottava, colle mani nere, la farina intrisa d'uovo.
Una era alta, magra e mora, con un viso che rammentava una focaccia ben cotta, e due occhi arditi e neri di ballerina. L'altra tutt'all'opposto: minuta, bianca e un capo di capelli biondi sfumati che si arricciolavano senza regola intorno agli orecchi e sugli occhi.
Dopo un po' eccone un'altra: più vecchia delle prime e meno bella: una faccia quadra di maschio, gli occhi un po' spiritati, la sua bellezza era una chioma nera, abbondante e splendente che le ravvolgeva la testa come una meraviglia che non le appartenesse, che non avesse nulla a che fare col resto della sua persona.
All'improvviso un bel riso d'argento squillò su per la scale comparve sulla soglia della stanza nera, la quarta: la più giovane, la più perfetta, quella che non aspettavo.
Sul primo non vidi che due guance rosse come una mela sana e due occhi ridenti e sereni che non eran neri né celesti ma di un colore che non ha nome; dove c'èra il brillar dell'acqua, la pallidezza dell'erba nuova e riflessi di cielo al primo sole: due occhi immensi dove si potevano specchiare comodamente due valli di primavera e lasciarvi qualcosa della loro bellezza. Aveva addosso una camicetta rossa; in capo un fazzoletto giallo a fiori celesti e ne uscivan dalle parti ciocche di capelli d'aureo castagno.
Quando fu entrata e mi salutò, potei vederla meglio. Non poteva aver vent'anni, ma la bontà franca dello sguardo e l'innocenza della bocca, la facevan sembrare anche più giovane. Piuttosto alta che bassa il suo corpo si svincolava nel passo leggiero in proporzioni giuste e aggraziate. Rideva volentieri e non soltanto per mostrare la candidezza dei suoi trentadue denti, ma perché sentiva dentro tal sovrabbondanza di gioie che doveva farne parte agli altri per forza. Pareva infatti che col suo sguardo, il suo riso la sua presenza portasse su tutti noi un'ombra luminosa di contentezza e la luce giubilante che nasceva dal suo bel viso, si vedeva riflessa, più smorta, nei visi altrui.
Sembrava una creatura come doveva essere nei primi giorni dell'umanità, avanti il peccato e il decadimento, quando era ancor fresca l'impronta dei primi modelli e la reminiscenza della perfezione modellata dalla mano di Dio. Sembrava che tutte le fatiche, le pene e le vergogne delle generazioni fossero invano sofferte prima della sua nascita; era nuova com'è nuova ogni mattina; la prima disubbidiente doveva essere così quando Abramo si svegliò a contemplarla. Chiunque la guardava e non fosse un bruto, doveva essere riconoscente per il fatto solo ch'era al mondo e viveva.
Per la prima volta da quando ero nato, seppi, per una folgorazione che mi confuse, cos'èra una donna. Nessuna mi aveva scosso il sangue e la fantasia come quella povera montagnola che odorava di fieno e di gioventù. Tanto mi piacque che non fui capace di rivolgerle la parola per tutta la sera. Quella potente felicità mi spauriva. Felice di che? Sola su quel colle, malvestita, ignorante, condannata al lavoro, eppure serena, ridente, balenante di casta letizia.
Perché tanto felice e io tanto malinconioso e torbido? Mi piaceva come nessuna mi era piaciuta eppure non sentii in me nessun brivido di lascivia, non pensai neppure un attimo che potesse arrivare a volermi bene. L'ammiravo come un miracolo riuscito, mi riscaldavo al tepore lieto della sua innocenza, della sua allegrezza. Non mi passò per la mente che potesse essere mia che potessi essere suo.
FINE