(Da: Giovanni Papini, La Seconda Nascita, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 213-18)
Son nel mio alpestre lavoratoio. Da due parti mi circondano i libri; dall'altre due i monti. Immagine della mia vita solitaria e antica, trascorsa tra le parole dei morti e il mormorar delle piante. La sera s'avvia per smorzare il mondo: ogni giorno diversa, ogni volta più bella. Il grigiore ferroso dei crepuscoli d'autunno occupa già gli schienali a bacìo, ma su in alto che munificenza di grigi, di rosacei, di ceruli! Se non fossero i colpi sordi dell'accetta che tanto male mi fanno al cuore (perché domani ci sarà un'albero vivo di meno) non avrei di che nutrire la mia vorace malinconia.
A molti il mondo par brutto. Siamo noi che siam brutti dentro, talvolta, e vediamo la nostra bruttezza triste riflessa nel mondo. Una volta un essere in aspetto d'uomo, ma che somigliava piuttosto a un baco spento, mi disse che odiava la campagna. Ch'è lo stesso che odiare l'opera d'Iddio perché soltanto le città sono opera dell'uomo, e si vede! Diffidate di colui che odia la solitudine: vuol dir che la sua compagnia gli è odiosa e che non sa come riempire la sua miserevole vacuità. Diffidate di colui che non ama la campagna: vuol dire che ha paura d'iddio.
Ha paura d'una testimonianza, troppo patente per essere agevolmente ricusata. Ha paura di dover riconoscere Dio anche in se stesso, in quel silenzio dilatato e reverente che non permette finzioni, sotterfugi, scappatoie. Negli strepiti, nei chiassi, nei garbugli delle società rammontate, l'ipocrisia verso noi stessi e gli altri ci concede anno per anno proroghe e moratorie. Ma volete mentire al cielo, al deserto, alla notte?
Prova a negare quando sei solo a faccia a faccia coll'universo. Rinsacca le filosofie dello Spirito -poveri segni senza sostanza, senza connessione col respiro dell'anima, colla ricchezza infinita dell'essere- e prova a dir forte dinanzi a un pezzo qualunque della creazione, che Dio non è, che questa meravigliosa macchina dell'universo non ha avuto né principio né autore e si regge senza un supremo padrone, per un miracolo costante di coincidenze, di atomi, di monadi, di spiriti.
Risponde Dio: tu non cercheresti d'uccidermi se tu non sapessi che io son vivo, il Dio dei viventi.
Se Dio non esistesse, tu stesso che lo vuoi negare non esisteresti. Per negarlo devi adoprare il tuo pensiero, pronunziar parole: ma nel primo atto del tuo pensiero, Dio è già presente e appena hai pronunziato la prima parola, essa contiene, senza che te n'accorga, l'affermazione d'Iddio. A Dio non si sfugge: se l'affermi, l'ami, se vuoi sopprimerlo, lo riconosci. Qualunque cosa si dica, non si fa che parlar d'Iddio. E di che altro si potrebbe parlare se non d'Iddio? Ogni altro discorso è inintelligibile, perché dove non si presuppone l'essere e la legge, si emettono suoni senza senso, e l'essere e la legge non son pensabili al difuori della Divinità.
Ci son molti che provano Iddio coi ragionamenti e i sillogismi. Li ascolto e li venero perché le riprove giovano agli immemori, ma per me gli argomenti più persuasivi dell'esistenza d'Iddio son contenuti nei discorsi degli atei.
Quelli che si chiamano atei non negano Dio: confessano di aver perduto Dio. Hanno paura d'Iddio e si vantano d'averlo ucciso con la speranza di uccidere il loro spavento. Non lo sentono più dentro di sé e questa solitudine interiore li fa uscir di sé. Hanno terrore dei suoi comandamenti, della sua potenza della sua onniveggenza. Oppure son così onnubilati all'interno, e tanto si son ravvolti nella sensualità torbidosa che non lo sentono più, non sanno più d'averlo, non sanno ritrovarlo nell'intimo fondo della posatura spirituale. E allora, come liberati da uno sguardo, da una sorveglianza, da un peso, vanno dicendo che Dio non è. Ma Dio è anche in loro come in tutti, e qualcuno ha il presentimento di questa silenziosa e paziente Presenza. Son quelli che si sfogano a dire, a proclamare a dimostrare che Dio è abolito, superato, morto. Tremano all'idea di un solo ritorno : di quel tremore è fatto il loro ateismo.
Né Samt'Anselmo né San Tommaso hanno mai escogitato argomenti più formidabili di quella spaventosa e spaventata negazione.
Tu non mi cercheresti se tu non mi avessi trovato, dice il Dio di Pascal. Tu non mi uccideresti se tu non mi sentissi vivere, dice il dio degli atei.
L'uomo a cui hanno mozzato le mani, sostiene che non vi sono carezze; un altro a cui hanno riempito gli orecchi di fango afferma che non v'è musica. Un terzo l'hanno confinato in una chiavica e proclama che il sole s'è spento. Potete dar loro torto? Ma, d'altra parte, dove ritroveremo, fuor che in queste loro negazioni, una prova più sicura e salda che le carezze, la musica, il sole esistono per colui che ha mani, orecchi, occhi liberi e vive sopra e non sotto la terra?
L'escogitazioni de' negatori per render ragione dell'esistenza delle cose e di noi -sia pur fatta tutta di spirito- sono i più validi contrafforti della fortezza tomista.
Le confusioni, le contraddizioni, il continuo ricorrere all'impensabile o al prodigio spicciolo e continuo, sono le pietre che i nemici stessi pongono con le loro mani per inalzare bastioni e barbacani che serviranno a difendere la nostra vecchia città contro di loro. Gli atei, di qualunque schiatta e scuola, sono i più gagliardi e fedeli ausiliari dei teologi. Tutte le strade che precipitosamente scavano, assillati dalla paura d'Iddio, menano tutte all'assurdo, alla nichilità del pensiero, alla morte dell'anima. Chi li segue e li vede, non ha scelta che tra il nulla e il ritorno. Molti, non abili a riconoscere il nulla e la morte sotto i cenci frangiati delle parole, si baloccano sugli orli degli abissi e si arrischian persino alla danza -ballo di specchi briachi di ventosità dotte-, gli altri, quelli che hanno occhi e vedono, che hanno orecchi e odono, tornano verso l'unico ricovero, verso la Porta Stretta: stretta apertura che da il passo a una divina città di viventi, di verità viventi ed eterne.
Perciò noi dobbiamo grandissima gratitudine agli atei: sono gli iloti della Gerusalemme cristiana. E in qual modo manifestar meglio la nostra gratitudine che nel richiamarli alla vera patria della quale, pur disertori e fuggiaschi, son cittadini? Nel renderli consapevoli della certezza soprannaturale ch'è involta nei loro no? Nel liberarli da uno spavento che fa scambiar per un'ombra, a' poveri occhi stravolti, colui che per amore l'insegue? Perché non ho di quelle parole sfolgoranti che son di per se stesse oltrepossenti incantazioni? V'è un'altra lingua oltre questa, troppo terrosa ancora, per formare i canti che legano, che chiamano, che sciolgono le pietruzze dei cuori, le riluttanze degli intellettuali? La lingua che doveva parlare Adamo nel Paradiso, intrisa di luce e di odori, che può esprimer soltanto verità, amore, adorazione; con parole valide per la terra e per il cielo, commiste di cielo e di terra, che volticano le anime e danno ali, moto, respiro a chi l'ascolta e lo imparadisano di una ferma illuminazione di speranza e concordia.
Ma Dio che già troppo mi dette, non mi ha spirato il genio col suo respiro e le lingue dei terrestri, che risentono, come ogni altra opera umana, dell'infiacchimento della prima caduta, non sono che incastonature di piombo per diamanti sognati. Non ho fra le mani che rena: la passo tra i diti al sole e mi pare che scintilli. Meno però delle lagrime che nessuno vide.
FINE