(Raniero Cantalamessa, Il mistero del Natale, Milano Ancora , 2007 -3°-, pp. 46-51 )
NATALE 2007
Nella sua brevità e semplicità, il cantico degli angeli Gloria a Dio e pace agli uomini ci permette di dare una risposta, fondata sulla parola di Dio, all'antica questione del perché Dio si è fatto uomo: Cur Deus homo? A questa domanda sono state date, lungo i secoli cristiani, due risposte fondamentali: una che mette in primo piano la salvezza dell'uomo e un'altra che mette in primo piano la gloria di Dio; una che accentua -per esprimerci con le parole del nostro cantico- il pace agli uomini e una che accentua il gloria a Dio.
La prima a essere formulata fu la risposta che accentua la salvezza: Per noi uomini e per la nostra salvezza -dice il simbolo di fede- discese dal cielo, si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine e si è fatto uomo.
Questa risposta essenziale assunse varie colorazioni, a seconda degli ambienti e dei bisogni creati dalle eresie. Nell'epoca in cui la fede era impegnata a difendere la realtà dell'umanità del Salvatore contro gli gnostici, si insistette sul principio della salvezza per assunzione: Dio salva l'uomo assumendolo in sé, nella sua persona. Salva la carne, assumendo una carne; salva l'anima, assumendo un'anima; salva la volontà e la libertà, assumendo una volontà e una libertà umana. Ciò che non è assunto -dicevano i Padri di questo periodo- non è risanato 1).
Un'altra articolazione della risposta che fa leva sulla salvezza è quella che parla di divinizzazione o di scambio: Dio si fa uomo per divinizzare l'uomo; prende la nostra umanità, per darci, in cambio, la sua divinità. Così si esprimevano Ireneo, Atanasio, Gregorio Nazianzeno, Massimo il Confessore e tanti altri.
Ma a un certo punto dello sviluppo della fede, nel medioevo, si fa strada un'altra risposta al Cur Deus homo, che sposta l'accento, dall'uomo e dal suo peccato, a Dio e alla sua gloria. Si tratta di un approfondimento, in se quanto mai legittimo e sano, della fede, di un caso di sviluppo coerente del dogma. Può la venuta di Cristo, che è chiamato Primogenito di tutta la creazione (Col l, 15), dipendere totalmente dal peccato dell'uomo, intervenuto in seguito alla creazione? Dio che è per se stesso, l'Essere in se, non può non agire anche per se stesso; l'agire infatti segue l'essere.
Già sant' Anselmo, con la sua teoria della soddisfazione, è su questa nuova via: egli infatti parte dall'idea dell'onore di Dio, offeso dal peccato, che deve essere riparato e dal concetto
della giustizia di Dio che viene soddisfatta grazie all'incarnazione del Verbo. Egli scrive un trattato con il
titolo Cur Deus homo? e dice: La restaurazione della natura umana non sarebbe potuta avvenire, se l'uomo non avesse pagato a Dio ciò che gli doveva per il
peccato. Ma il debito era così grande che per soddisfarlo -essendo obbligato solo l'uomo, ma potendolo solo Dio-
occorreva che quell'uomo fosse Dio. Quindi era necessario che Dio assumesse l'uomo nell'unità di persona per far sì che colui che doveva pagare e non poteva
secondo la sua natura, fosse personalmente identico a colui che lo poteva 2).
La situazione -scrive il Cabasilas, riprendendo un pensiero di san Giovanni Crisostomo-
era questa: secondo giustizia l'uomo avrebbe dovuto assumersi il debito e riportare la vittoria, ma era servo di quelli che avrebbe dovuto sconfiggere
in guerra; Dio, per contro, che poteva vincere, non era debitore di nulla a nessuno. Uno dunque doveva riportare la vittoria su
Satana, ma solo l'altro lo poteva. Ora ecco il prodigio della sapienza divina, che si realizza nell'incarnazione: i due - colui che doveva combattere e colui che poteva vincere - si trovano uniti nella stessa persona, in Cristo che è Dio e uomo, e ne scaturisce la
salvezza 3).
Su questa nuova linea, Scoto fa il passo decisivo, sciogliendo l'Incarnazione dal suo legame essenziale con il peccato dell'uomo e assegnandole, come motivo primario, la gloria di Dio. Il motivo dell'Incarnazione sta nel fatto che Dio vuole avere, fuori di se, qualcuno che lo ami in modo sommo e degno di se: In primo luogo -scrive- Dio ama se stesso; in secondo luogo si ama attraverso altri diversi da se e si tratta di un amore puro; in terzo luogo vuole essere amato da un altro che lo possa amare in modo sommo, parlando di amore di qualcuno fuori di lui 4). Cristo si sarebbe incarnato anche se Adamo non avesse peccato, perché egli è il coronamento stesso della creazione, l'opera suprema di Dio 5).
Il problema del perché Dio si è fatto uomo divenne l'oggetto della più accesa disputa della storia della teologia cattolica. Da una parte i tomisti, seguaci di san Tommaso d' Aquino, sostenevano il motivo della redenzione dal peccato, dall'altra gli scotisti, seguaci di Duns Scoto, sostenevano il motivo che potremmo chiamare della gloria di Dio.
Oggi non ci appassioniamo più a queste dispute antiche e la domanda: Perché Dio si è fatto uomo?, viene sollevata quasi solo per il suo interesse storico. Ora è ben vero che c'era, in quella disputa, qualcosa di eccessivo. Ciò era dovuto al modo troppo speculativo del tempo di fare teologia, per cui, a volte, si voleva sapere più di quanto è lecito sapere, anziché sapere con sobrietà, come avveniva quando si pretendeva sapere cosa sarebbe accaduto se Adamo non avesse peccato. Ma, spogliata di questi eccessi, si tratta di una domanda troppo vitale perché la si possa far cadere in oblio, o lasciare in sospeso.
L'Accusatore -colui che accusa continuamente gli uomini davanti a Dio e Dio davanti agli uomini- trae motivo anche dalle dispute teologiche per imbastire accuse a Dio nel cuore degli uomini. La caratteristica del pensiero satanico, che si insinua sempre più apertamente nei ragionamenti degli uomini d'oggi, è di giocare sul filo sottilissimo che divide il versante delle supreme verità da quello opposto delle supreme menzogne, di cucire un sistema prendendo un filo da una parte e uno dall'altra, in modo da mescolare sublimi intuizioni e sottili bestemmie.
Satana dunque getta il sospetto perfino sull'Incarnazione dicendo che, in fondo, Dio ha fatto tutto per se stesso e che è lui che ha guadagnato con la venuta del Figlio tra noi. Anzitutto si è procurata una nuova gloria che prima non aveva: quella di avere fuori di sé un adoratore divino, uno che lo ama in modo sommo e gli dà una gloria degna di lui. In secondo luogo, Dio Padre ha acquistato un potere sul Figlio che prima non aveva; il Figlio infatti divenuto uomo, è sottomesso al Padre (come se questo fosse ciò che il Padre voleva: padroneggiare sul Figlio!). Aveva ragione Lutero quando diceva che le obiezioni dei teologi fanno sorridere in confronto a quelle che sa muovere il demonio 6).
Il problema che abbiamo davanti, ridotto all'essenziale, è dunque questo: incarnandosi, Dio ha agito per sé o per noi, per interesse o per amore ? La risposta che emerge luminosa e chiara dalla parola di Dio è la seguente: l'Incarnazione è per la gloria di Dio, ma questa gloria non consiste in altro che nell'amare l'uomo. La gloria di Dio -diceva sant'Ireneo- è l'uomo vivente 7), cioè che l'uomo viva, che sia salvato.
Anche la pietà cristiana ha intuito questo legame tra la gloria di Dio e la nostra salvezza, quando, sviluppando il canto angelico, prega dicendo: Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa (Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam). Perché rendere grazie a Dio per la sua gloria, se non perché si intuisce che tale gloria è anche per noi, a nostro favore? In noi che siamo cattivi, agire per noi stessi è sommo egoismo, ma in Dio che è amore, agire per se stesso è necessariamente sommo amore.
Non ci sono dunque due motivi diversi o, peggio, in contrasto tra loro per cui Dio si è fatto uomo, ma uno solo che coinvolge insieme, in modo diverso, Dio e l'uomo: la gloria di Dio sta nel dare quello che, per l'uomo è salvezza ricevere.
Anche Giovanni, nel suo Vangelo, mette In luce questa concezione nuova e sconvolgente della gloria di Dio. Egli vede nella morte in croce di Cristo la suprema gloria di Dio, perché in essa si rivela l'amore supremo di Dio. Per un Dio che è amore, la sua gloria non può consistere in altro che nell'amare. L'amore è il perché ultimo dell'Incarnazione, non la redenzione dal peccato. Lo vediamo nell'interpretazione della morte di Cristo. Dapprima la fede afferma il fatto: è morto, è risorto; poi, in un secondo momento, si scopre il perché è morto ed è risorto: per noi , per i nostri peccati, per la nostra giustificazione (cf 1 Cor 15,3-4; Rm 4,25); infine si scopre perché è morto per i nostri peccati: perché ci amava! Mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20); Cristo ci ama e (per questo) ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sngue (Ap 1,5). Quello che si dice della morte, si deve dire anche della nascita: Dio ci ama e per questo si è fatto uomo per la nostra salvezza. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia (Gv 3,16). Ha tanto amato il mondo, per questo ha dato il suo Figlio.
NOTE
1: GREGORIO NAZlANZENO, Lettere, 101 (PG 37, 181).
2: ANSElMO. Cur Deus homo?, Il, 18.
3: N. CABASILAS, La vita in Cristo, 1,5 (PG 150,313); GIOVANNI CRISISTOMO, De resurrectione, 3 s (PG 50,438).
4: DUNS SCOTO, Opus Parisiense, III, 7,4 (Opera omnia, XXIII, Parigi 1894, p. 303).
5: L. cit.
6: M. LUTERO, Discorsi a tavola, n. 518.
7: IRENEO, Contro le eresie, IV. 20, 7.
FINE