(Da: Amintore Fanfani, Una pieve in Italia (Cap X°: La guerra e lo Spirito) , Verona, Mondadori 1964, pp127-40)
Anche nel campo dello spirito si verificarono dei mutamenti in Pieve, e non solo perché, dopo la partenza dei profughi coi loro preti, l'arcipretura ebbe per titolare il parroco di Cercetole. Don Guido, gentile nei modi e nell'aspetto, portò nelle relazioni con la popolazione grande cortesia e cordialità, facilitato per la partenza per i canonicati della Cattedrale dei preti che s'erano in passato mescolati con le divisioni, e più ancora facilitato dal ritorno dei reduci con convinzioni diverse.
Non tutti tornarono dal fronte o dalla prigionia migliori, dal punto di vista religioso. Però quasi tutti tornarono cambiati. I giovani che erano partiti lasciando con uguale rimpianto focolare ed altare, tornarono un poco scettici, però ancora pronti a ricorrere alla confessione per lavarsi dai peccati che avevano imparato a conoscere o da quelli che avevano preso l'abitudine di fuggire non tutti i giorni e in ogni caso con minore decisione di un tempo. Gli anziani che erano partiti con un vago ma simpatico ricordo dell'insegnamento materno e delle pratiche religiose anche se non assiduamente seguite, tornarono in genere convinti dagli scampati pericoli che Iddio esisteva, signore incontestato della vita e della morte, e pronto confortatore degli afflitti.
La disponibilità d'animo degli smobilitati divenne visibile a tutti, non solo nelle messe domenicali, ma anche nelle funzioni serali, specie in quelle di maggio e di ottobre, in onore della Vergine. I giovani vi partecipavano dal fondo delle chiese, arrivando in ritardo e chinando appena il capo negli istanti della elevazione o della benedizione. Gli anziani si mescolavano con le donne nelle panche delle famiglie o nelle seggiole presso gli altari e partecipavano con tutto il popolo in riverenza ai vari momenti delle funzioni. Il coro come il solito era riservato ai preti liberi dalle cerimonie ed ai vecchi dirigenti delle associazioni e delle confraternite, che ritenevano loro privilegio poter essere più vicini all'altare, specie in luogo sottratto alla vista dei curiosi.
Anche nelle case il divario dei sentimenti nei confronti della religione ben presto apparì. Quelli delle classi anziane la sera, parteciparono genuflessi e con la corona alla recita familiare del rosario presso il tavolo di cucina, sovrastato da qualche candela accesa, specie durante il mese dei morti; mentre i giovani excombattenti arrivavano giusti per cena, quando la mamma chiudeva le orazioni familiari con le preghiere rituali secondo le intenzioni del Pontefice.
Pel Natale del 1918 ripresero le tradizionali solennità. Affollatissime risultarono le chiese per la messa di mezzanotte, benché non pochi fossero saliti alla Verna per affidare a confessori non familiari la pena delle loro colpe. E di tanto lavacro sembrarono recare lieta novella le campane del Santuario, che per il vento propizio quella notte si udirono in paese.
Per Santo Stefano dopo la messa solenne delle undici con ricchissimi parati aurei e rossi, ci fu servizio musicale in piazza. Riprendevano le consuetudini di prima del 1915 in onore del santo patrono. Quindi anche nelle case ci si riunì per parentele in amplissimi pranzi. C'era da riparare il freddo della lunga messa e quello della musica in piazza, nonché l'astinenza di guerra e quella più vicina dell'allora severa vigilia natalizia.
Secondo la tradizione, da tempo la vicina Romagna per quel pranzo suggeriva crostini imbevuti di vin santo e conditi di interiora di beccaccia, non pulite, affinché i buongustai potessero sentire l'aroma delle coccole beccate dagli uccelli. E dopo i crostini c'èrano i passatelli in brodo, profumati dalla noce moscata e da abbondante pepe, appena macinato. Le usanze altotiberine suggerivano di continuare con il cappone lesso con i maccheroni all'uovo fatti in casa ed abbondantemente conditi con certo sugo di manzo salsiccia e cipolla o stomaco di cappone, sugo che assorbiva per quasi tre ore le cure di una sola massaia intenta a far rosolare bene il battuto di lardo, cipolla, sedano, carota nel quale assaporare carne e salsiccia colorite dalla conserva e aromatizzate dalle spezie e da due dita di vin vecchio, possibilmente della villa dei Collacchioni a Castelnuovo. I Maccheroni passati lestamente dall'acqua della caldaia alla inondazione di sugo ed alla grandinata di formaggio dei vassoi, segnavano il passaggio dai principii al vero e proprio corpo del pranzo. Ad esso dava consistenza: il fritto di pollo con contorno di patate e cavolfiore indorato; l'umido cotto lentamente nel tegame; l'arrosto di pezzetti di maiale tra fette di pane e foglie di salvia infilate nello spiedo. L'insalata di campo colorata dalle radicine rosse, chiudeva la sertie delle vivande e dava il via al dessert, composto di formaggio pecorino, pasta reale e crema con biscotti, uva appassita, fichi secchi e noci. Gli stomaci miracolosamente provvedevano in simili pranzi ad un organico impasto grazie al discendere, tra boccone e boccone per i più abituati e tra piatto e piatto per quelli che lo erano di meno, di liquidi che andavano dal vin santo dei principii, al vin rosso tosto dei piatti, ed al vin dolce del dessert. Una caldissima tazzina di caffè poneva la parola fine ai conviti patronali, mentre donne e ragazzi davano il segnale del levate le mense.
Tra casa e casa variava la qualità e la quantità della roba dei singoli piatti, ma, salvo casi pietosi, non variava allora la composizione tradizionale del pranzo di Santo Stefano, che per verità al mezzogiorno, anticipando, cumulava e la merenda delle sedici e la cena dell'un'ora di notte, alle quali, alzandosi da tavola alle quattro del pomeriggio, ben volentieri tutti rinunziavano. E più volentieri degli altri vi rinunziavano colore che, o come suonatori o come ballerini, dovevano accorrere nelle sale e salotti dove alle nove si apriva il carnevale col primo veglione della stagione.
Per un simile Santo Stefano c'èrano nell'anno ancora soltanto una Pasqua e poi ancora un Natale, cinquantadue parche domeniche col lesso, e qualche cena di battitura: trecento erano invece i giorni di penuria, senza parlare dei quaranta di dura quaresima a pasti senza uova, né latte, né grassi più volte alla settimana. Insomma per un giorno dedicato ai crostini, ai passatelli, ai maccheroni, ai fritti, agli umidi, agli arrosti, ce ne erano tantissimi dominati dai fagioli, ceci, fave, baccalà, sarde, acciughe, aringhe dalle uova e dal latte, tonno sperduto a briciole in un mare di cipolla e di aceto con stille d'olio rade e splendenti come le maggiori stelle in una notte caliginosa.
La quaresima a Pieve era sempre stata osservata con scrupolo da tutti, come dimostrava innanzitutto la chiusura dei macellai in giorno di astinenza a prevenire ogni tentazione, e il grande commercio di legumi, di pesce secco e conservato praticato da molti negozi anche non specializzati in pizzicheria, facendo aleggiare odori inconfondibili anche in botteghe, ad esempio, di pannine.
Come in senso opposto Santo Stefano del'18, così pel suo verso pure la quaresima del'19 non derogò alla tradizione e preparò anche nelle astinenze e nei digiuni, degnamente, alle cerimonie della Settimana santa. Più tempestose del solito per il tremendo scrosciare delle raganelle di tutti i ragazzi del paese in ricordo della flagellazione durante i crialesi , esse culminarono il venerdì nella processione del Gesù morto.
Il Crocifisso dal suo altare in Collegiata venne deposto al tramonto in apposita bara, che artigiani ebanisti da tempo immemorabile avevano predisposto decorandola abbondantemente di lacche nere e di auree volute, e portato per le vie del paese, tra incappati neri della Misericordia e bianchi del Sacramento, tra velate figlie di Maria, donne nero vestite, e ragazzi che recavano accese le torce esuberanti alle pur numerose braccia dei confratelli e delle consorelle delle varie associazioni. In collegiata mesti solenni cori commentarono la Passione. E la folla giunse al massimo della commozione religiosa, quando, dopo che ognuno aveva baciato le mani del Cristo ed i bambini erano stati sollevati perché ne baciassero il volto, l'arciprete con forbicine d'argento, tagliò qualche capello all'immagine sacra per consegnarlo a pochi fedeli benemeriti come reliquia.
Secondo la tradizione, quel Cristo ad intaglio era stato ricavato da un vecchio artigiano da un albero travolto dal Tevere in piena. Col tronco aveva fatto il corpo, coi rami, le braccia e le gambe, con la ceppaia la testa. Le radiche erano state intrecciate, ricavando dalle più grosse la corona di spine e da quelle più minute i capelli. Per prodigio da secoli, quelle più minute radicine si riteneva che continuassero a crescere, cosicché era possibile di tanto in tanto tagliarle, soddisfacendo la pietà dei migliori fedeli. Il taglio, del resto, non sopravanzava la crescita, perché era molto discreto ed avveniva ogni quadriennio, dato che solo negli anni bisestili si svolgeva la grande processione del venerdì santo.
Altra occasione per vedere schierati alla luce del sole, questa volta, i credenti, tradizionali o rinverditi, della Pieve, venne offerta, riprendendosi gradualmente dopo la guerra le antiche usanze del Corpus Domini.
La nuova processione sfilò alle undici del mattino: dalla Collegiata percorse il paese in ogni senso per giungere alle chiese estreme di San Francesco e delle Monache, alla Madonna dei Lumi ed al Coldestro. I numerosi incensieri dei chierici, che sostenevano il baldacchino sotto il quale era sostenuto dall'arciprete il grande ostensorio col Santissimo, mescolavano il profumo degli aromi bruciati a quello naturale dei fiori, di ginestra, di biancospino e di acacia, che di buon mattino erano stati sparsi per tutte le vie del paese in spessi strati. Gruppi di bambini vestiti da angeli, con larghe argentee ali di cartone alle spalle, aprivano la processione traendo da panierini variopinti, petali di rose e foglie di cedrina destinati ad accrescere il tappeto di fiori sulle strade, aggiungendo all'acuto odore dei fiori selvatici quello più grosso dei fiori e delle erbe di giardino. E tutto il paese fino alle 13, dai canti e da un olezzo di serra, fu invitato alla preghiera, che continua sgorgava dai petti di tutti i partecipanti alla processione. Preghiere e canti erano rinforzati da coloro che, non essendosi potuti associare al corteo, lo attendevano sulle soglie di casa o di bottega, recando al suo trionfale incedere, l'omaggio del capo chino e del corpo genuflesso, mentre dalle finestre, vivaci coperte e variopinti tappeti coloravano l'atmosfera nel modo più festoso. Le musiche della banda e le campane d'ogni chiesa o cappella ponevano un'aureola di suoni al di sopra della corona delle orazioni e della nube di profumi.
Profumi, suoni preghiere, si concentrarono al ritorno della processione in Collegiata, dove il triplice Sanctus del Te Deum, sempre più alto e forte ad ogni ripetizione, rivelò l'intensità della commozione religiosa a cui la processione aveva portato la folla. La benedizione pose fine alla festa, lasciando diffusa la certezza che, passando per ogni contrada, il Santissimo avesse portato in ogni casa e in ogni cuore un anelito di rinnovamento dopo tutte le miserie della guerra.
Quanto valessero i propositi formulati durante la ripresa post-bellica della processione primaverile, fu del resto dimostrato dalla persistenza del ritorno alla fede degli anziani, dall'accresciuto accorrere dei fanciulli in Sacrestia per i Servizi religiosi, dal moltiplicarsi dei suffragi per coloro che non erano tornati, e dal rinnovarsi delle chiese.
Dell'opera di rinnovamento delle chiese, dette il buon esempio don Sandrino, che portò da Venezia l'excommilitone architetto Torres per mettere in rilievo le vestigia romane della chiesa di Sigliano e dare ad essa, nelle pareti, nel tetto, nel nuovo campanile decoro e forma che ponessero la linea del complesso tra lo schema di una rotonda romana e quello del Battistero di Torcello. Incoraggiarono a tanta impresa il parroco e l'architetto, la forma antica del tempio, reputato in origine pagano, l'ara sacrificale rinvenuta sulla porta e lo snodarsi dai ruderi del ponte romano sul Tevere per la pettata di Fungaia dei resti di una strada antica, che la tradizione voleva fosse quella che aveva portato Cesare, per le valli del Marecchia, dell'alto Tevere, e della Chiana, dal Rubicone sull'Emilia alla Cassia e quindi a Roma.
Don Sandrino non restò solo nell'opera si rinnovamento. Essa fu intrapresa allora e completata negli anni seguenti anche per le dirimpettaie chiese di Baldignano e di Castelnuovo. Don Giuseppe dette alla sua un'aria rinascimentale; mentre don Fausto per Castelnuovo, fece maggior conto sulle pitture fatte eseguire all'interno dal Ceracchini. A Cerbaiolo don Fedele si limitò a restituire la Campana, infrantasi sul tetto della Canonica mentre suonava a festa per sant'Antonio del 1916. A Sintigliano, a Cercetole, a Mogginano non ci limitò all'imbiancatura, di cui pure prima della guerra aveva fatto ameno son Santi per la chiesa del Savignone, in attesa della visita pastorale ricoprendo le affumicate pareti con pezzi di carta tratte dai cataloghi che da Milano i Magazzini bocconi e la Unione Cooperativa inviavano di tanto in tanto anche ai possidenti di Pieve per invogliarli a qualche acquisto.
Da Bulciano non giunse in paese per prima la notizia che anche lassù s'èra posto mano al rinnovamento della chiesa, ma quella più straordinaria che aveva iniziato a frequentare quella chiesetta Giovanni Papini. Infatti come poi egli scrisse in Felicità irrimediabile e fu riprodotto nella lapide posta nel 49 ai piè della croce del dirupo bulcianese, lassù nell'alta notte agostana, sotto il perlato brividio fuori della sua tana, aveva riconosciuto Iddio, e inginocchiato tra i sassi e tra i cardi, presso la balza che porta la croce, aveva visto nel buio i suoi sguardi ed aveva udito la sua voce.
Giovanni Papini, da tempo a Pieve era di casa, ne conosceva quasi tutti gli abitanti, fino i più miserabili, come Branda e Simone, che dovevano anzi ispirare qualche suo scritto. Ogni estate saliva a Bulciano, dove era nata sua moglie e dove, come attesta Piero Pancrazi in Donne e buoi, aveva imparato ad essere in pace e a riconciliarsi col prossimo. E da Bulciano scendeva in paese per i giornali e la posta. Col trascorrere degli anni qualche dimestichezza per ragioni di ufficio aveva preso con il sor Leo alla posta e col sor Eugenio in farmacia. Ma il primo soprattutto, in lunghe conversazioni, aveva accertato non essere lo scrittore contrario alla religione soltanto nei libri. Brutto com'èra e circondato da tanta fama, per i popolani non era difficile immaginare che quel capo scoperto solo apparentemente fosse coronato da riccioli che in realtà dovevano essere cornetti come si confaceva ad un amico del diavolo. E quasi parente del diavolo era considerato da molti paesani, che lo guardavano tra scontrosi e spaventati. Del resto anche i pochissimi che avevano letto le sue opere, non avevano per lui un'ammirazione sconfinata. Unico a non fare riserve era Nando Del Dottore, di recente maestro e già incline a manifestarsi libero pensatore. L'apprezzamento per la forma dello scrivere lo concedevano in molti, ma esso non giungeva a coprire anche la sostanza dei ragionamenti, giudicati perlomeno un po' cervellotici dai più scaltri ed istruiti. Tutti però convenivano su una cosa: Papini non credeva ma era un grande uomo. Così successe che quando credette restò un grande uomo, e come tale recò prestigio alla religione dell'umile contadina che era divenuta sua moglie e indusse parenti e conoscenti ad essere fieri della propria fede o, dubbiosi ormai, a riflettere sulla propria irreligiosità o sulla propria tiepidezza.
La conversione di Papini per Pieve, che in Bulciano lo annovera ospite annuale e per la parentela quasi concittadino, sembrò coronare tutto il processo di revisione di posizioni religiose che la guerra aveva generato con prove, dolori, lutti. Ed anche tra questi monti, La Storia di Cristo passò di mano in mano, anche in quelle dei giovanetti, a sostituire le pagine di D'Azeglio, Guerrazzi, De Amicis, Fogazzaro, Carducci, Pascoli, D'Annunzio che a volta a volta, secondo l'età e secondo il sesso, avevano divagato e coltivato le tre generazioni che dall'Unità d'Italia si erano inseguite. E per la Storia di Cristo più che per L'Uomo Finito, Papini venne annoverato ormai, al pari di Carducci per l'Ode degli amici della Valtiberina, tra gli scrittori italiani che onoravano la Pieve e la facevano conoscere agli ospiti illustri (da Soffici a Prezzolini) che salivano a Bulciano.
Papini ricambiò la stima dei pievani consentendo a dettare l'eopigrafe per il
monumento ai caduti, che essi eressero in piazza della Collegiata: un fante in
armi con la baionetta innastata si protendeva in avanti a sbarrare il passo al
nemico. Poiché il monumento si frapponeva fra la chiesa e la piazza, fu notato
che il fante, armi alla mano, sembrava volesse impedire ai fedeli l'ingresso al
tempio, o difendere da minacce i lapidatori di Santo Stefano che il nuovo
arciprete Bastonero aveva fatto dipingere dal Morgari sopra la porta principale
della chiesa. L'interpretazione malevola fu anni dopo troncata dal trasferimento
del monumento in mezzo al Giardino pubblico del Ponte Nuovo. La baionetta del
marmoreo fante è ancora innastata, ma volta verso l'ingresso del giardino,
sembra voler tenere a bada la guardia municipale, impedendogli di disturbare i
colloqui che le fronde degli alberi e il crosciare gioioso delle vicine
cascatelle dell'Anscione prossimo a confluire nel Tevere incoraggiano gli
innamorati a intessere e svolgere con onesta familiarità.
FINE
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