(Da: Bruno Forte, Santo Natale, Alba -Cuneo- , S. Paolo, 2006, pp.25-40)
E' un campionario d'umanità che accomuna le più diverse espressioni della rumorosa vita popolare della Napoli barocca, dal letterato all'arrotino, dal capopolo al burattinaio, dalla ballerina con il putipù, il tamburello o il triccaballacche, al bruttone e al tarallaro (e l'elenco potrebbe ancora allungarsi senza alcuna difficoltà...).
Non manca neppure la rappresentazione della crudeltà, il cui vertice sta forse nella scena di Erode vestito da Pascià, che quasi esibendo la sua cinica infamità, contempla lo spettacolo della strage degli innocenti, centellinando soddisfatto na tazulella e café !
E' l'universo che il Presepe napoletano del 700 con una esuberanza della fantasia unita a un gustosissimo realismo, avvicina alla nascita del Dio Bambino. L'accostamento risponde all'intento, espresso attraverso la coralità dell'insieme, di ricondurre tutto al centro, a quel mistero che segna per la fede cristiana, il nuovo inizio del mondo.
Già questa architettura mostra come la sorgente ispirativa del presepe barocco, sia la predicazione popolare del Vangelo nella Napoli settecentesca: qui l'opera dei Gesuiti, fu certamente determinante, anche se l'apostolo per eccellenza del presepe, fu un domenicano, quel padre Maria Rocco che dal 1734 circa fino alla morte (avvenuta nel 1782), percorse strade e chiese di Napoli, a tal punto istillando l'amore del mistero della natività, che il Re Carlo, che amava intrattenersi con lui, lo salutava immancabilmente con la domanda: Padre Rocco, cumm iamm a praesepi (Come andiamo a Presepi )?
E' questa tradizione ravvivata e motivata genialmente da Sant'Alfonso maria de' Liguori, che ispira il presepe napoletano, che fu si anche presepe cortese, moda di classi benestanti, se non colte, ma fu soprattutto espressione di un anelito autenticamente religioso.
In verità da sempre la memoria cristiana si era nutrita del racconto evangelico della nascita del Salvatore, in particolare della scena narrata da Luca, il quale parlando di Maria, dice che mentre si trovavano in quel luogo (Betlemme) si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia -praesepium- perché non c'èra posto per loro nell'albergo -diversorium- (Lc 2,6-7) .
Da quando poi il Natale venne celebrato come festa distinta dall'Epifania -354- fu naturale che l'attenzione si concentrasse sui particolari anche più umili del grande evento.
Così non a caso la Basilica eretta da papa Liberio per solennizzare l'istituzione della festa, assunse con il tempo fra gli altri il nome di S. Maria ad Praesepe.
L'intento di rivivere l'evento del Natale era perciò già diffuso, e aveva già prodotto, specialmente nell'Europa nord-occidentale, un vasto numero di sacre rappresentazioni, quando nella notte santa del 1223, Francesco d'Assisi volle riprodurre nella notte di Greccio la scena evangelica. L'esempio sarebbe stato infinitamente imitato, nel desiderio corrente di raccontare la buona novella nella concretezza di un tempo e di un luogo.
Il Presepe napoletano del 700 si differenzia però da tutta la tradizione che lo ha preceduto: e ciò non solo perché è opera collettiva di più artisti, ciascuno specialista in un particolare, ed è eseguito con il ricorso ad una varietà quanto mai multiforme di materiali, ma anche e soprattutto perché nello sviluppo dell'elemento paesaggistico e nella moltiplicazione dei personaggi, evoca un mondo, dove il fiabesco si mescola con il reale per significarne il più possibile la comprensività . Tale è la fioritura dei personaggi e tale sembra a prima vista la sproporzione delle parti, se si tiene conto dello spazio relativamente modesto riservato alla scena chiave della natività, che potrebbe trovarsi davanti a un gioco dell'immaginario.
Qualcosa del genere dovette pensare Luigi Vanvitelli se (forse influenzato dalle sue origini nord-europee), non esitò a scrivere al fratello don Urbano, residente a Roma, in una lettera dell' 8 gennaio 1752, un giudizio come il seguente: Ho veduto li presepii, ragazzata alla quale si applicano efficacemente questi napoletani .
In realtà ciò che a prima vista poteva sembrare come un insieme di elementi disparati, risponde, come s'è detto, a un senso globale: senza la coralità, senza l'armonizzarsi delle parti sul tema fondamentale dell'alleanza fra la terra e il cielo, il presepe napoletano resta un divertissement, o -come pure fu- un'ostentazione di possibilità e di mezzi da parte di chi lo commissionava, una sorta di status symbol in quella che era allora una delle grandi capitali europee.
Una riprova tardiva ci viene da colui che quanto soleva dire, è stato forse il più grande esperto del Presepe napoletano, Don Michele Cuciniello (†1889) che volle donare al Museo di S. martino la sua straordinaria raccolta e venne personalmente a montarvela: che cioè fare il presepe equivale a tradurre il Vangelo in dialetto. E come avviene nel Vangelo, c'è anche nel presepe un impianto drammatico, articolato nell'incontro di due grandi protagonisti, il divino e l'umano.
Il divino è rappresentato soprattutto nella scena che da senso a tutte le componenti, chiamata nel linguaggio presepiale, il mistero. Essa comprende le figure del Bambino, della Madre e di San Giuseppe, con la mangiatoia che da il nome all'insieme, il bue e l'asinello. Che si sia di fronte al luogo dell'ingresso nel tempo dell'Eterno, è indicato dal roteare di angeli intorno alla scena, quasi a cantare l'evento inaudito della gioia del cielo che viene sulla terra.
Molto frequente è anche un altro indizio che punta ad esprimere tutta la novità di quanto è detto in quel semplice gruppo di figure: esse sono collocate tra le rovine di un antico tempio. In un ambiente dove il rinascente gusto per l'antichità classica, era favorito dalle recenti scoperte archeologiche (si pensi solo a Pompei e Paestum), quelle gloriose rovine richiamavano la grandezza di un mondo, che aveva ceduto il posto alla più grande e meravigliosa novità significata da quella nascita: il tema della decadenza del paganesimo non veniva così a dire disprezzo per una cultura e una civiltà altissime e ammirate, quanto piuttosto ad esprimere l'inaudito che si era prodotto nella piccola Betlemme.
Le fattezze dei personaggi, poi sono tutte orientate a far risaltare questa novità tanto bella e importante per la vita degli uomini: la delicatezza del Bambino, la soavità del volto di Maria, la serietà pensosa e responsabile di Giuseppe, persino un certo physique du rôle del bue e dell'asinello, convergono per dire che la gloria che viene a manifestarsi e a nascondersi nei poveri segni della storia, è tutta sovrabbondanza di amore, mistero di gratuità e di tenerezza infinite. Perfino la Mazzarella di S. Giuseppe sembra commuoversi davanti a tanto prodigio e fa generosamente spuntare dal suo vecchio legno, un fiore che faccia festa al Dio Bambino. Più di tutti è però Maria che con il suo atteggiamento proclama l'incanto del nuovo inizio del mondo: il caratteristico rossore sulle sue guancie, rivela -con discrezione e modestia- l'intensità dei sentimenti con cui ella vive l'avvenimento così divino eppure così totalmente umano, della sua maternità .
L'altro protagonista del presepe barocco, è rappresentato dall'umano in tutta la sua varietà delle sue forme, che possono raggrupparsi in tre categorie: al primo posto vengono i pastori, cui l'angelo porta l'annuncio inaudito; poi i magi, figura di tutte le genti raggiunte dalla luce della stella della redenzione; e infine, l'umanità indifferente o distratta, rappresentata dagli ospiti del diversorium, dell'albergo che non aveva avuto posto per Maria e Giuseppe.
Tutte queste categorie sono presenti nel Presepe napoletano con variopinta e multiforme abbondanza: con una caratteristica, tuttavia, non indifferente, e cioè che anche la terza, quella dei distratti in tutt'altre faccende affaccendati, vi è descritta con tono di bonarietà e di misericordia, quasi partecipe essa stessa -più o meno inconsapevolmente- della grande festa di tutto il Creato.
La caratteristica è così pregnante che uno stesso pastore può facilmente passare dall'una all'altra categoria per semplice volontà di chi lo dispone. Si rivela qui un aspetto di grande importanza : in realtà la volontà e la decisione di chi fa il presepe, come di chi costruisce i pastori, è il primo grande protagonista umano della storia che vi è narrata. Effettivamente solo nella Napoli del settecento, poteva capitare con tanta facilità e dovizia, semplici uomini, a scorciare la barba al Padre Eterno , rifare il naso alla Madonna , o cangiare il fiore sulla mazzerella di S. Giuseppe : e questo non poteva non trasmettere loro un senso di familiarità col divino che li rendeva quanto mai comprensivi e misericordiosi con quella parte dell'umanità -e non la più piccola- che potrebbe senza difficoltà, essere ascritta agli ospiti del diversorium .
La rappresentazione dei pastori raggiunti dall'annuncio, è quanto mai dolce e partecipata: quelli che hanno come casa la natura e come tetto il cielo e la cui unica sicurezza è affidata all' umile fatica di ogni giorno, appaiono come i destinatari prediletti della buona novella. Quasi tutti ispirati alle realistiche figure dei pastori abruzzesi, questi personaggi traducono plasticamente l'idea dell'annuncio della buona novella ai poveri. A essi si congiunge il vasto mondo delle genti, rappresentato dai magi: non si tratta solo dei tradizionali Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, rappresentati rispettivamente come un ragazzo, un vecchio e un giovane negro trentenne, significando così la varietà delle razze e delle stagioni della vita, cui perviene la buona novella, ma di un intero mondo cosmopolita, che fa loro da solenne corteo: se i rapporti col Levante e la presenza a Napoli di schiavi medio- -orientali e nord-affricani, per i quali si era spesa la generosa opera della redenzione dei cattivi, offriva la materia prima alla rappresentazione di queste figure esotiche e di questi universi lontani, l'elemento cronachistico viene assunto in una intenzione più vasta per celebrare l'universalità della salvezza portata dal Dio Bambino .
Il presepe, non vuole però essere soltanto ammirato: il protagonista divino e il protagonista umano, non vi sono rappresentati soltanto come una memoria di un tempo perduto ma come un appello rivolto al presente. Ne è indizio la figura così presente del turco Amedir, il guardiano della nascita. Secondo una leggenda una ricca principessa possedeva un Bambino Gesù, a custodia del quale aveva posto un moro, così ostinato nel non volersi far cristiano, che alle insistenze della pia padrona sistematicamente rispondeva con freddezza, precorritrice di un Voltaire: Quando a me Bambin parlare, me allor cristiano fare . Un bel giorno ella se lo vide correre incontro gridando: Me voler cristiano fare e Giuseppe chiamare. Il Bambino aveva parlato dicendogli : Giuseppe cristiano fare. E così il buon moro fu battezzato con il nome prescelto dal Figlio di Dio. Il senso della leggenda, trasmessa fra innumerevoli lacrime di commozione, è palese: i guardiani del presepe, gli spettatori ammirati e incuriositi, sono chiamati per nome dal piccolo Salvatore, affinché il loro cuore si apra a lui e la loro vita cambi.
Altro indizio non meno significativo di questa attualità del Presepe, è riconoscibile nel fatto che spesso i luoghi e i volti, sono quelli della Napoli settecentesca: non si farebbe fatica a individuare visi resi celebri dalle arti maggiori, ma anche i comuni pastori hanno i tratti e gli abbigliamenti che qualunque visitatore avrebbe potuto osservare nelle strade rumorose della città; e i trionfi di frutta, verdura, cacciagione, dovevano riprodurre uno spettacolo consueto sul quale riposavano di frequenza gli occhi dei benestanti, pregustando prossime delizie, ma anche dei più poveri, sazi almeno di quello sguardo: Tranne poche eccezioni -scrive Leonardo Fernandez de Moratin, letterato spagnolo in visita a Napoli sul finire del 1793 e l'inizio del 1794- bisogna confessare che la città di Napoli è forse la più abbondante in commestibili che vi sia in Europa...; e il popolo è contenuto, quando, senza mangiare sa che c'è da , mangiare.
E' questo popolo godereccio e affamato, chiassoso e festaiolo, gravato da forti contraddizioni sociali, ma pur sempre abile nell'arrangiarsi, che il presepe intende riprodurre, quasi a dire che Cristo non nasca altrove o in un tempo lontano, ma qui ed ora in questa sua terra e in questa sua gente.
E' così che la risposta dei pastori può diventare quella di chi guarda ed è così che il presepe del nostro presente, potrebbe assolvere al medesimo compito cui assolse il presepe di Padre Rocco e Sant'Alfonso:
dire il Vangelo in modo che risuoni non come predica moralistica o discorso edificante, ma come dubbio sui nostri non sensi, annuncio di una speranza possibile, dischiusa per tutti da quell'umile nascita.
FINE
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