(Da: Piero Bargellini, Pagine di una vita , Firenze, Vallecchi, 1981, pp. 67-70)
Testo |
Piero Bargellini 1), 1897-1980
INTRODUZIONE
Piero Bargellini, nell'estate 1943 fino all'inverno 1944, abitò da profugo di guerra, in un vecchio Mulino di Chiusi della Verna, dal quale si vedeva un panorama tipico e selvaggio, fatto tra l'altro, dai Resti del Castello del Conte Orlando, da un Torrente, e dal Resto dei campi e delle case.
Egli, scrivendo, si rivolge all'amico e critico letterario Carlo Bò. La sua avventura chiusana sotto la protezione provvidenziale del vecchio Mulino, finisce quando nell'inverno del 1944, i tedeschi gli e lo distrusssero, mentre egli, piantata li la sua famiglia sotto la supervisione delle monache locali, era assente, perché alla maternità fiorentina per assistere la moglie : nacque dunque Antonina, l'ultima della famiglia.
Quando il Bargellini ritornò da Firenze, dovette costatare la perdita di molti amici uccisi dai tedeschi, e una generale devastazione in Chiusi, compreso il suo Mulino. Ma per fortuna che egli era assente, altrimenti avrebbero ucciso anche lui, come gli altri, compreso alcuni frati e monache sopraggiunti ingenuamente, per consolare o seppellire i morti. Pertanto tornò in Fiorenza con la sua famiglia, ospitato da un monaco, tale don Benvenuto, finché la miseria e il tempo buio e affamante del primo dopoguerra, non cominciò ad allentare la morsa.
TESTO
Carissimo Bo, scrivendo quattro anni fa da questa finestra del mio mulino a Giuseppe De Luca, avevo dinanzi a me, una moltitudine di foglie, le quali non si chetavano mai finché l'oscurità non le rendeva compatte con la notte. Oggi invece l'aria dinanzi a me è libera. La guerra che allora si annunziava con scoppi di notizie lontane, in questi giorni mesti, spinge fin quassù miseri avanzi d'uomini, che mendicano il pane e un paese dove si possono ancora sentir cittadini. Ed è stata la guerra a metter l'accetta ai piedi degli alberi, i quali, non miei, contornavano la mia rustica casa. Né di ciò mi lagno. Se di fuori il mulino sembra più squallido, dietro vi si sta meglio, consolati da un po di sole di cui si ha tanto bisogno in questa addolorata età della nostra vita.
Dinanzi alla mia alta finestra ora si è aperta una vallata sulla quale sta sospeso lo sguardo allorché lo rialzo dalla pagina: una di quelle vallate appenniniche aspre e precipitose, col torrente nel fondo, più sassi che acqua, più voce che forza.
Lungo le sue pendici spellate affiorano le costole di pietra, e tra i rimasugli di boschi, si distendono i prati infeltriti, duri alle dure labbra delle pecore che vi brucano assidue.
I resti di quello che fu il castello feudale del Conte Orlando, il generoso ospite di San Francesco, sembrano una informe macìa di sassi, come ce ne sono ovunque a recinta dei campi dissodati con grande stento fin sotto le rocce delle stimmate. E' incredibile fin dove questi uomini della montagna abbiano seminato il loro grano. La parabola evangelica non sarebbe potuta fiorire quassù, dove si semina sul sasso, e le mucche pascolano col muso in alto, come le capre, le rame delle querci e dei faggi.
Questa è l'Italia che i poeti s'ostinano ancora a chiamare opima; una terra ridotta all'osso delle sue montagne e al filo delle sue marine. E che annata disperata è stata questa, senza una stilla d'acqua sul lavoro maledetto! Per tutta l'estate sono passati alti sul monte della Casella convogli interminabili di nubi aride come di cenere. Veniva voglia di alzare le mani per mungerle o almeno per sfrangiarle. Compatte e gravose, sospinte dal vento cattivo, andavano a piovere sul mare. E qui le piante perivano. Prima sono stati i fagioli a patire, avvinghiandosi alle frasche secche, i fagioli che sono la carne del povero. Poi le foglie a spada del granturco sono cadute lungo il fusto e il cartoccio vuoto fuori la barbiccia bionda arida come stoppa. Le patate, strette dalla terra incotta, non hanno reso il seme. E intanto anche le castagne, il secondo pane della montagna, non avevano la forza di creare la trinità dentro il riccio giallo prima di maturare.
La fame accompagnava così la guerra giorno per giorno, mietendo ogni speranza. E il cielo ha seguitato a negarci l'acqua. Nevicherà forse sul sole, e allora sarà la morte a ricoprire la morte.
Questa vallata, che improvvisamente si è aperta dinanzi alla mia finestra, par fatta apposta per la meditazione. Non c'è scampo per un pensiero, e il crinale dei monti, mai franto, legato e teso, è un invalicabile confine. Al di là non trabocca nessuna visione.
Io non so, caro Bo, come il tuo mare mi appaia sempre più angusto e piatto, di queste mie vallate. Il mare sembra fatto per disperdere gli uomini e farli evadere. Le vallate invece, così malinconicamente affondate, sembrano destinate a raccogliere il seme dell'umanità. Dinanzi al mare, forse, si può sognare; una vallata come questa riconduce nella sacca dei pensieri più gravi.
Specie al tramonto, quando la vallata stiva lentamente l'ombra a strati di foschia, mentre un fuoco di foglie rosse s'appiglia rapidamente alla scogliera boscosa della Verna e subito ricade in cenere; allorché i rintocchi dell'ultima campana opprimono con la loro disperante dolcezza fino a far gemere, vien fatto di domandare che cosa si attenda da questo trapasso e qual sia il significato di tutti gli altri tramonti che immalinconiscono il mondo e insieme lo rendono desiderabile.
Una coppia di buoi resiste ancora luminosa sul fianco della montagna. Il solco che tracciano è perso sulla bruna terra, ma la loro bianchezza lenta è consolante per chi come me, lavora nella presente oscurità. Com'essi, mi pare di seguitare la mia fatica mentre già le strade e i confini e i segni conosciuti sulla terra vengono meno. Non so neppure che traccia io possa lasciare, e se il mio debole aratro apra ancora un solco o scivoli nel buio come un'inutile appendice.
Non so neppure se le parole che scrivo, abbiano ancora un significato. Che strazio abbiamo fatto, tutti, di parole, spesso senza sapere che cosa esse significassero. Di molte forse saremo perdonati, proprio perché non abbiamo saputo ciò che dicevamo, così come sarà perdonato a coloro che non sanno quello che ancora stanno facendo.
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1: Scrittore e uomo politico d’ispirazione cattolica, Piero Bargellini è nato a Firenze il 5.8.1897 e ivi morì il 28.2.1980. Fu tra i fondatori de "Il frontespizio", rivista letteraria attorno alla quale si raccolsero molti scrittori italiani del tempo. In seguito ne divenne il direttore.Nel 1933 si aggiudicò il "Premio Viareggio" per la sua acuta biografia su San Bernardino da Siena. In pratica, con questo lavoro, si rivelò la sua autentica vocazione agiografica per la quale è divenuto molto famoso in tutti gli ambienti intellettuali e popolari. Nel 1936 pubblicò David, il volume più apprezzato dai critici per la purezza del dettato e l’attenta e finissima spiritualità che dà vita a quelle pagine.
Enorme successo hanno ottenuto la storia universale dell’Arte, in 12 volumi, Belvedere (1957ss), e la storia della Letteratura italiana, pure in 12 volumi, Pian de’ Giullari (1945-1952). Altri suoi volumi – come Volti di pietra (1943), Pena dell’Ottocento (1943), Caffè Michelangelo (1944) – superano i limiti della pura mediazione intellettuale di un volgarizzatore eccellente e si iscrivono tra le opere di alta saggistica.
Ingegno versatile e attento ai problemi contemporanei, Bargellini ha sempre saputo contemperare mirabilmente tradizione e modernità e ha, come pochi altri, sortito il talento di tradurre limpidamente, in un linguaggio accessibile ai più, argomenti ardui e problemi poetici, artistici e teologici. I suoi scritti trasmettono una sincerità schietta di credente e un’anima ricca di partecipazione umana.
Oltre che per la sua attività di scrittore, è ricordato anche per la sua instancabile azione caritativa in seguito all’alluvione del 4 Novembre 1966 che colpì Firenze, mentre egli era Sindaco. Nel 1968 venne eletto Senatore della Repubblica.
(Da http://www.sanpaolo.org/madre06/0507md/0507md20.htm , Il 5-9-09)
FINE