1. L'Eguaglianza nel Diritto del lavoro L'importanza del principio di eguaglianza per il diritto del lavoro, è già stata rimarcata a sufficienza 1), ma restano da esaminare le declinazioni che l'eguaglianza ha nella disciplina positiva. Già la materia nel suo insieme è uno strumento di eguaglianza (verticale) tra imprenditori e lavoratori : eguaglianza nel senso di redistribuzione (anche se non certamente di eguale livello) dei redditi (soprattutto tramite l'azione della Contrattazione collettiva), ed in quello della riduzione dei caratteri autoritari insiti nel Contratto di lavoro subordinato, e quindi della restituzione ad esso di una genuina contrattualità. Ma in misure specifiche del diritto positivo, l'istanza di eguaglianza tende altresì alla realizzazione di un'eguaglianza (orizzontale) tra lavoratori, su una duplice direttrice di sviluppo. La prima è quello dei divieti di discriminazione, che si misurano col seguente interrogativo: il Datore di lavoro ha l'obbligo di trattare i lavoratori in modo eguale tra loro ? Oltre quale soglia le differenziazioni -di capacità, ruolo, professionalità, retribuzione, ecc.- , che pervadono il mondo del lavoro, debbono essere ostacolate, o persino impedite, dall'ordinamento giuridico ? La seconda direttrice attiene alle misure volte alla realizzazione in un' ottica socialdemocratica o social-liberale, di condizioni di eguaglianza di opportunità, tramite programmi mirati su individui e gruppi svantaggiati, in vista di un'effettiva eguaglianza di punti di partenza fra i cittadini, in specie nell'accesso a beni primari qual è il lavoro.
2. Divieti di Discriminazione e parità di trattamento Le norme di tutela del lavoro, previste dalle leggi e dai contratti collettivi, producono un primo e basico effetto di eguagliamento tra i lavoratori, nella misura in cui prevedono trattamenti eguali ed omogenei fra tutti i lavoratori o gruppi di essi. Ma questa è soltanto metà della storia. Anzitutto gli stessi Contratti Collettivi non si limitano a fare opera di parificazione, ma tramite i sistemi di inquadramento e le Tabelle retributive, selezionano e classificano in proporzione all'importanza e ad altri fattori, le diverse figure professionali e i relativi trattamenti. Inoltre vi sono situazioni gestionali non regolate dalla legge né dalla contrattazione collettiva e che rimangono consegnate com'è logico che sia (altrimenti il ruolo imprenditoriale verrebbe meno), al potere unilaterale del datore di lavoro, o alla contrattazione individuale fra le parti. La questione è appunto, se rispetto all'esercizio di questi poteri, od alla negoziazione tra imprenditore e singoli lavoratori (che essendo individuale, può anche intercorrere soltanto con alcuni di essi), i lavoratori abbiano o no un diritto intangibile ad essere trattati in modo eguale. In caso affermativo, un lavoratore potrebbe lamentarsi, in ipotesi, di essere tagliato fuori da aumenti retributivi ad personam , attribuiti ad altri lavoratori; ed i margini di discrezionalità unilaterale del datore di lavoro si ridurrebbero, sino quasi ad azzerarsi. L'esistenza nel diritto ad una parità di trattamento estesa a tutti gli aspetti dell'attuazione del rapporto di lavoro, è stata nei voti di una parte dell'opinione, che si è sentita confortata, ad un certo punto, da una pur chiarissima sentenza della Corte Costituzionale 2) . Accadde tuttavia che prendendo alla lettera l'affermazione della Consulta, alcune pronunce di Cassazione giunsero a ritenere sindacabile, sotto il profilo della parità di trattamento, anche i sistemi di trattamento dei CCNL. Secondo questo (poi abortito) orientamento, un giudice potrebbe entrare nel merito di tali sistemi, e stabilire che non è giusto che una figura professionale sia pagata meno di un'altra figura professionale. Questa messa in pericolo della sovranità contributiva in materia retributiva, ingenerò una reazione che indusse la stessa Cassazione a riassettarsi -e questo successivo indirizzo si è poi consolidato- negando l'esistenza nell'ordinamento, di una regola imperativa e inderogabile di parità di trattamento. Ciò comporta per tornare all'esempio precedente, che un Datore di lavoro è libero di attribuire aumenti ad personam ad alcuni dipendenti e non ad altri, senza essere tenuto a motivare le ragioni di un tale trattamento differenziato, ferma soltanto l'osservanza dei principi generali di correttezza e buona fede. Di conseguenza l'ordinamento è rimasto attestato sul fronte meno ambizioso della non discriminazione. Questa potrebbe sembrare in apparenza, il mero rovescio della parità di trattamento, atteso che non discriminare (non separare, non distinguere) tra x e y, equivale a trattare in modo eguale x e y . Fermo ciò, la regola positiva di non discriminazione, ha una portata più ristretta e mirata della regola di parità, giacché si limita a proibire quelle differenziazioni di trattamento, fra lavoratori e gruppi di lavoratori, che sono basate su determinati fattori (ergo tra x e y in relazione a z), sulla base dei quali l'ordinamento non tollera che si possano praticare trattamenti differenziati. Detti trattamenti in se normali e spesso anche doverosi (per tenere conto delle differenze di capacità, esperienza, impegno,adattabilità, ecc.), nel mondo del lavoro divengono quindi discriminatori, ergo illeciti, quando si scontrano con un fattore "protetto". In tal modo l'ordinamento tutela anche all'interno della "formazione sociale" impresa, beni di preminente valore costituzionale che concernono la dignità della persona o comunque il riconoscimento di essenziali qualità della stessa (v. art 3 c. 1) o l'esercizio di libertà fondamentali (di manifestazione del pensiero, religiosa, politica, sindacale, etc.). Alla luce di ciò la sanzione applicabile in caso di violazione dei divieti di discriminazione (e segnatamente di quelli considerati nei paragrafi che seguono) non può che consistere in un irrimediabile illiceità, che quando s'applica ad atti o a patti, si traduce nella nullità dei medesimi (con le conseguenti azioni restitutorie), più l'eventuale risarcimento del danno, patrimoniale e/o non patrimoniale, patito dalla vittima della discriminazione (alla quale la legislazione di ultima generazione è unanime nel riconoscere in termini espliciti il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali prodotti dall'atto -o dal comportamento- discriminatorio). Se la discriminazione è perpetrata invece con comportamenti materiali possibili rimedi sono di tipo inibitorio (per ottenere un ordine giudiziario di cessazione del comportamento illecito) e/o risarcitorio. Dopo queste osservazioni sulla base comune della normativa anti-discriminatoria, occorre passare all'esame delle normative "di settore", che ci portano a contatto con i vari fattori di discriminazione riconosciuti dall'ordinamento giuridico. Di tali normative è da segnalare una tendenza al "compattamento" (quanto a nozioni di discriminazione, cause di giustificazione, tecniche di tutela), che se non riassorbe il ruolo trainante (anzitutto sul piano culturale) della discriminazione "di genere", lascia però profilare un diritto anti-discriminatorio tendenzialmente omogeneo, e con dignità di microsistema. Di tale sistema fanno parte per completezza, anche quelle regole di pari trattamento tra lavoratori "flessibili" e lavoratori standard , che sono previste dalla normativa in tema di lavoro a tempo determinato, a tempo parziale, intermittente, somministrato. L'esame della normativa positiva deve essere condotto senza dimenticare che alla base della normativa anti-discriminatoria, con riferimento ai vari fattori di seguito considerati, vi sono importanti prese di posizione delle fonti europee: in particolare, l'art. 10 TFUE e l'art. 21, c.1, della Carta di Nizza. Oltretutto come già rilevato 3), secondo la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che ha affermato tale principio con specifico riferimento al divieto di discriminazione per età, le norme antidiscriminatorie hanno il rango di norme primarie dell'ordinamento europeo, la cui violazione da parte di norme interne rende queste ultime disapplicabili da parte del giudice nazionale.
3. La Discriminazione di genere La più nota e importante tra le discriminazioni illecite, è quella per sesso o genere. Già nella Costituzione è posto un primo divieto di discriminazione a tale riguardo, laddove nell'art. 37 -in connessione con l'art.3 c.1-, è sancito che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e -a parità di lavoro- le stesse retribuzioni, che spettano al lavoratore. Remote interpretazioni regressive del disposto (come quella per cui anche a parità di mansioni, la disparità retributiva sarebbe legittima, visto il minore rendimento femminile sul lavoro), sono state superate. Il divieto di discriminazione retributiva è stato consacrato anche dal Trattato di Roma (v. l'attuale art. 141 TFUE), e, successivamente con riguardo a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, da direttive europee. Ma le indicazioni costituzionali avevano bisogno di essere calate e sviluppate nella legge ordinaria, il che è stato fatto con varie leggi (9 dicembre 1977, n. 903 e 10 aprile 1991, n. 125), poi confluite nel Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (di seguito, il Codice), emanato con il d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, e successive modifiche. La discriminazione diretta di genere (la cui illiceità si evince già dall'art. 15, c. 2, St. Lav.), è definita dall'art. 25 c.1 del Codice, come qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quella di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga. Si evince da tale nozione, che tiene conto dei suggerimenti della migliore dottrina (teoria oggettiva dell'atto discriminatorio) che non rileva perché vi sia discriminazione, il motivo psicologico di chi ha adottato l'atto, il patto o il comportamento (che può esservi o meno), bensì unicamente l'effetto discriminatorio oggettivamente rilevabile. La Giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, ha fornito al riguardo, contenuti volti al rafforzamento della tutela, ad es. suggerendo che la comparazione (con un trattamento non discriminatorio tale da dare la misura di quello discriminatorio) possa essere operata anche nei confronti di lavoratori o gruppi "virtuali", cioè non nominativamente individuati. Il confronto in altre parole, ha da farsi non necessariamente con un lavoratore effettivamente trattato in modo diverso e più favorevole, bensì anche con uno che "sarebbe stato trattato" in quel modo. Di questa indicazione europea tiene conto la nozione legale di discriminazione diretta oggi vigente, e sopra riportata. Il divieto esposto è integrato (art. 25 c.2) da un divieto di discriminazione indiretta che si ha quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obbiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. In sostanza ove il datore di lavoro adotti atti o condotte, che pur non potendosi ritenere discriminatori in riferimento a singole lavoratrici od a singoli lavoratori, abbiano di fatto, un impatto negativo statisticamente rilevabile su quelli appartenenti all'uno o all'altro sesso (ad es. sui lavoratori a tempo parziale, qualora la maggioranza di questi, sia donne), ciò si considera discriminatorio, a meno che tali atti o condotte riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché nel quadro di obbiettivi imprenditoriali legittimi e con impiego di mezzi proporzionati. La discriminazione indiretta rafforza l'apparato anti-discriminatorio: non perché essa sia ontologicamente differente dalla discriminazione diretta (giacché in entrambe, quello che rileva in ultima analisi, è che il datore di lavoro provochi con qualunque mezzo, un "effetto" discriminatorio), quanto perché in virtù di essa, il giudice è abilitato a prendere in considerazione una più ampia gamma di indizi della discriminazione lamentata. Costituisce discriminazione anche ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità o dell'esercizio di diritti collegati alla maternità o alla paternità (art. 25,c.2-bis). Sono considerate discriminazioni inoltre, le molestie "di genere" (da tenere distinte dalle molestie sessuali ex art. 26 c.2 : crf nota 4) cioè, quei comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo (art 26 c.1). I divieti in questione, pur già ad ampio spettro nelle esposte definizioni generali, sono ulteriormente specificati dal Codice con riferimento ai vari momenti della vita del rapporto di lavoro. L'art. 27 c.1, vieta anzitutto qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l'accesso al lavoro (una pratica questa, particolarmente difficile da reprimere) e le promozioni anche se effettuata (c. 2) con riferimenti allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza. Nei bandi di concorso pubblico per assunzioni deve essere sempre contenuta la dicitura dell'uno e dell'altro sesso (c.5). Non costituisce discriminazione, peraltro, condizionare all'appartenenza ad un determinato sesso l'assunzione in attività della moda, dell'arte e dello spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura della prestazione (art. 27 c. 6). Ulteriori deroghe al divieto sono possibili per l'assunzione finalizzata allo svolgimento di mansioni particolarmente pesanti, individuate dalla contrattazione collettiva (art. 27 c. 4). Il divieto di discriminazione vale anche per l'accesso agli impieghi pubblici, senza limitazioni di mansioni e di carriera (art 31 c. 1). Anche l'Altezza non costituisce di massima, un motivo di discriminazione, salvo che nelle ipotesi tassativamente previste da un d.P.C.M., sentite le organizzazioni sindacali più rappresentative (art. 31 c. 2). L'art. 28 ribadisce la regola di parità o di non discriminazione, per qualunque aspetto o condizione del trattamento retributivo, precisando (ma è questa una cosa ormai acquisita) che i sistemi di qualificazione professionale debbono adottare criteri comuni per uomini e donne (c. 2). L'art. 29 estende il principio all'attribuzione delle qualifiche e delle mansioni e alla progressione in carriera; incidere sulle carriere nella direzione delle pari opportunità, è peraltro molto difficile (si tratta di una zona critica delle politiche di parità uomo-donna), in quanto vi dominano scelte di carattere discrezionale dell'imprenditore. Tutte le possibili vicende del rapporto (ivi compreso ovviamente, il licenziamento) 5) sono pertanto prese in considerazione. Ciò detto un problema cruciale di questa tematica concerne l'effettività della tutela giudiziaria, a partire dalla prova della discriminazione, il cui onere ricade di base, su chi afferma esserne stato vittima. Tale onere è alleggerito peraltro dalla regola (art. 40) per cui quando il ricorrente fornisce elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto (cioè al Datore di lavoro) l'onere della prova dell'insussistenza della discriminazione. E' un'applicazione particolare, cui il giudice è qui obbligato dalla legge, della prova per presunzioni (art. 2729 c.c.). Sono infine previsti in aggiunta a quelli ordinari, speciali strumenti di tutela giurisdizionale, anche sommari di urgenza, per tutelare il lavoratore e soprattutto la lavoratrice, vittime di discriminazioni di genere (art. 36 ss.).Tra essi figura la proponibilità di azioni giudiziali da parte di una figura istituzionale molto importante per la lotta alle discriminazioni e la promozione delle pari opportunità sul territorio, la Consigliera (o il Consigliere) di parità, ramificata a livello nazionale, regionale e provinciale (v, in generale art 12 e ss.). La Consigliera di parità può agire su delega della persona offesa, per contrastare le discriminazioni individuali, oppure in via diretta (senza bisogno di deleghe) contro le discriminazioni collettive (art. 36-37). I rimedi sanzionatori conseguibili sono già stati illustrati 6). Ad essi si aggiunga che una volta accertata la discriminazione, ed adottati i provvedimenti volti a rimuovere gli effetti per il passato, il giudice può ordinare all'autore delle discriminazioni di definire un piano di rimozione delle stesse per il futuro, sentiti gli organismi di rappresentanza dei lavoratori o in loro mancanza, gli organismi locali aderenti ai sindacati di categoria maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, nonché la competente Consigliera di parità (art. 37 c. 3). Si tratta di un rimedio processualmente innovativo (anche se sinora poco utilizzato), pensato per conferire più mordente alla normativa, sinora di scarsa risonanza giudiziaria. In varie ipotesi di violazione della normativa, sono previste infine, sanzioni amministrative e penali (art. 41) .
4. Le Discriminazioni per ragioni politiche, razza, etnia, lingua, cittadinanza o nazionalità, religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale Oltre al divieto di discriminare sulla base del genere, l'ordinamento prevede talvolta con ripetizioni normative, numerosi altri divieti di discriminazione. Tra i più risalenti, quello di discriminazione per ragioni politiche, già sancito unitamente alla discriminazione per ragioni sindacali, dalla versione originaria dell'art 15 Stat. Lav. 7). In una stagione successiva, anche per attuare direttive comunitarie, sono state prese in considerazione, sempre in chiave di divieto, le discriminazioni per razza e per origine etnica (d. Lgs. 9 luglio 2003, n. 215; ma v. già gli art. 2 c. 3, 43 c. 2 lett. e, del d. lgs. n. 286/1998, ove è da segnalare il riferimento come fattori di discriminazione, all'appartenenza ad un gruppo linguistico ed alla cittadinanza o nazionalità ); le discriminazioni per religione, convinzioni personali, handicap, età, e orientamento sessuale (d. lgs 9 luglio 2003, n. 216). La normativa rilevante in materia è costituita pertanto, oltre che dall'art. 15 St. Lav. , dai d. lgs. n. 215/2003 e n: 216/2003 e da alcune disposizioni del d. lgs. n. 286/1998, cd. TU Immigrazione. Dalla disciplina della discriminazione di genere, tali decreti riprendono sostanzialmente le nozioni di discriminazione diretta e indiretta (art. 2 c. 1 d. lgs. n. 215/2003; art. 2 c. 1 d.lgs. n. 216/2003) e la considerazione delle discriminazioni come molestie collegate ad uno dei fattori protetti (art. 2 c. 3 d. lgs. n. 215/2003; art. 2 e 3 d. lgs. n. 216/2003). Una significativa differenza è rappresentata invece, dalla previsione generale e non limitata a ipotesi tassative come nel caso della discriminazione di genere, di "cause di giustificazione" di atti, patti o comportamenti che potrebbero apparire, ma che proprio in virtù di quelle circostanze non sono da qualificare in realtà, discriminatori. Così in base all'art. 3 c. 3 del d. lgs. n. 215/2003 nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza...., non costituiscono atti di discriminazione...quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all'origine etnica di una persona, qualora per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante, ai fini dello svolgimento dell'attività medesima. Sono legittime inoltre, quelle differenze di trattamento che pur risultando discriminatorie, sono giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari (art.3 c. 4, d. lgs. n. 215/2003). Parallelamente per l'art. 3 c. 3 del d. lgs 216/2003, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima...., non costituiscono atti di discriminazione...quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una persona, qualora per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima. Sono legittime inoltre, quelle differenze di trattamento che pur risultando indirettamente discriminatorie, sono giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari (art 3 c. 6 d. lgs n. 216/2003). Sono inoltre fatte salve in specifica relazione al fattore dell' "età", le disposizioni che prevedono regimi differenziali di accesso al lavoro in relazione all'età, purché oggettivamente e ragionevolmente giustificate da finalità legittime, come obbiettivi di politica del lavoro e perseguite con mezzi appropriati e necessari (art c. 4-bis e 4-ter d lgs n 216/2003). Ne sono discriminazioni le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell'ambito di enti religiosi o di altre organizzazioni, qualora tale religione o tali convinzioni, per la natura dell'attività svolta dagli enti predetti, costituiscano requisito essenziale, legittimo ed essenziale ai fini dello svolgimento delle medesime attività (art. 3 c. 5 d lgs n 216/2003). Sono previste anche per queste discriminazioni (sia individuali che collettive), speciale forme di tutela giurisdizionale (art. 4-5 d. lgs n 215/2003; art. 4-5 d.lgs n 216/2003), nel regime delle quali è compresa una parziale inversione dell'onere della prova : quando il ricorrente fornisca dati di carattere statistico idonei a fondare in termini precisi e concordanti (per le discriminazioni per razza e origine etnica) o gravi precisi e concordanti (per le discriminazioni per religione, convinzioni personali etc.), la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione (art 4 c 3 d lgs n. 215/2003; art 4 c. 4 d lgs n. 216/2003).
Le politiche di pari opportunità sono completate da quelle normative che andando oltre la non discriminazione, introducono misure di diritto (programmaticamente) diseguale : si tratta di norme a protezione di gruppi o categorie caratterizzati da una diseguaglianza di partenza che quelle misure sono rivolte a compensare. Simili (e più circoscritte e selezionate) normative che attuano il principio di eguaglianza sostanziale, hanno come destinatarie, mutatis mutandis, soprattutto due categorie di lavoratori: i disabili 8) e le donne. Le "azioni positive" (affirmative action) nei confronti delle lavoratrici, consistono in misure volte alla rimozione di ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità e che sono dirette a favorire l'occupazione femminile e realizzare l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne sul lavoro (art 42 c 1, Codice). Tali azioni si propongono tra gli altri, gli scopi di eliminare la disparità nella formazione scolastica e professionale, nell'acceso al lavoro, nella progressione della carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità; favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne; superare forme di organizzazione e distribuzione del lavoro che sfavoriscono le donne; favorire la conciliazione fra tempi di lavoro e di vita; valorizzare il contenuto professionale delle mansioni a più forte presenza femminile. Peraltro salvo che nel settore pubblico (dove sono obbligatorie: art 48), le azioni positive non sono imposte ma soltanto promosse, tramite la previsione di incentivi per le imprese che le adottano (art 44). Il compito di proporre piani di azioni positive spetta anche alle Consigliere di parità (art 43). Le azioni positive potrebbero spingersi a prevedere quote obbligatorie riservate alle donne nelle assunzioni (anche pubbliche) e/o nelle promozioni, in specie nei settori in cui esse siano sottorappresentate. Misure di questo tipo non sono tuttavia previste nel campo del lavoro, dall'ordinamento italiano (con l'eccezione dell'introduzione di "quote rosa" obbligatorie nei Consigli di Amministrazione delle Società quotate in Borsa). Ed è dibattuto anche a livello di Corte di Giustizia dell'Unione Europea se e/o fino a che punto esse siano legittime, o costituiscano (come nel famoso caso "Kalanke" poi in parte corretto dal caso "Marshall") discriminazioni "alla rovescia" a danno dei lavoratori di sesso maschile. NOTE 1 : V. sez.1, cap. IV, § 4-5 ; 2 : V. Corte cost. 9 marzo 1989, n. 103 ; 3 : V. già retro, sez. II, cap. V, § 3 ; 4 : Sulle quali vedi sez. V, cap. VIII, § 5 ; 5 : Sul licenziamento discriminatorio v. sez. V, cap. XI, § 7 ; 6 : V. retro § 2 ; 7 : V. sez. II, cap. II, § 3 ; 8 : V. sez. V, cap I, § 5 |
FINE