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Finestra sulla agricoltura (c.La campagna)

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                La sete della terra è stata appena estinta dal temporale estivo:la campagna si gode la benevolenza del cielo, che l'ha appena dissetata e accarezzata, e che nel linguaggio del mondo visibile, tale benevolenza, si chiama pioggia.     

                Ormai il sole riappare dalle nubi, e le ultime ombre nell'umidore semivespertino, hanno vieppiù un carattere provvisorio. Siccome il sole torna a fare il suo mestiere, anche la terra riconoscente, torna a dimostrare tutta la sua chiarezza verdeggiante e materna; ed eleva infine verso il mondo intero, il suo grido di gioia e il suo saluto risplendente, che non conosce ipocrisia, e che proprio per questo, è sempre animato da tanto sincero, contaminante beneaugurare.

                C'è dunque uno stradone dietro la vecchia Fattoria abbandonata. E ai lati della strada, roghi vigorosi e more nereggianti. Questi frutti spontanei tra le spine e le foglie, abbondanti nel numero e nella polpa, sono una manna gratuita sia per gli uomini che per gli animali. 

                Qua, una vespa esplora la più bella e ogni tanto sboccona; là un'ape si posa momentaneamente, per poi spostarsi sul fiore vicino; dunque è la volta delle formiche, che attaccano prima i frutti caduti in terra, e raramente salgono in alto, perché quelli più belli e più elevati, sono per gli uccelli e per i bimbi, per i merli e per le signore, per le famiglie, che passeggiano talvolta, lungo la strada.

                Nessun contadino ha mai allevato e concimato e accudito un rovo: esso selvaggio e bucante, severo e solitario, pertinace e prepotente nel crescere e ricrescere, fa tutto da solo; ubbidisce alla natura, si fa comandare solo dalla voglia di vivere; ed è un grande colonizzatore. Appena vede una proda incustodita, un campo abbandonato, un cantone dimenticato, ci mette le radici, e va rigoglioso verso il cielo. Qui, in alto, appena sente un po' di libertà e sicurezza, fa il fiore roseo, e finalmente seme su seme, mattone su mattone, costruisce il frutto, la mora. Questa la dipinge prima di verde come le foglie, poi, sotto l'invito quotidiano del sole, si convince a darle il rosso del sangue e finalmente, termina, col nero dell'inchiostro, quando lo zucchero dolce, fa ormai il frutto maturo.

                La mora è dunque un frutto spontaneo, nato per caso, come tanti fiori e erbe, lungo la strada e i greti. Eppure, per qualità e quantità, da secoli, ha costituito un cibo buonissimo, una dolce e nutriente compagnia per  tutto il contado, nel corso dell'anno agrario. 

                Questa compagnia delle more, fu tanto frequente e gradita, che ancora oggi, molti ricordano in che modo questi frutti belli e neri, venivano ogni anno, conservati: si faceva, come avete capito, la marmellata. E questa aveva un nome particolare, inconfondibile: era la Marmellata delle more, che assieme a quella dei fichi, delle mele, delle ciliege, talvolta delle zucche, potevasi chiamare con un nome superiore, garanzia di sublime squisitezza: la Marmellata della nonna.

 

 

 

 

FINE

 

 

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