IL LICENZIAMENTO O ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

(Da: Carlo Del Punta, Diritto del Lavoro -5° ed.-, Milano Giuffrè, pp.561-94; Titolo originale : L'estinzione del rapporto di lavoro -Cap XI- )

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                                                                                                                                        INDICE

1. Introduzione 2. Le dimissioni del lavoratore

3. Il sistema del licenziamento individuale

4. Procedura e forma del licenziamento.

   5. Il licenziamento per ragioni soggettive

6. Il licenziamento per ragioni oggettive

7. Il licenziamento discriminatorio

 

8. L'impugnazione del licenziamento e il regime sanzionatorio

8.1 La tutela forte [o reale], (art.18 St.Lav.)

8. 1 a) La tutela ripristinatoria piena

8.1 b) La tutela ripristinatoria attenuata e la tutela economica

8.1 c) La tutela economica ridotta

8.1 d) La revoca del licenziamento

8.2 La tutela debole [o obbligatoria], (art. 8 legge n. 604/1966)

9. Le ipotesi di licenziamento ad nutum

 

 Note ;   Indicazioni Bibliografiche
 

1. Introduzione

                La disciplina dell'estinzione del rapporto di lavoro ha avuto una dinamica evolutiva, che l'ha portata a distaccarsi progressivamente, dal regime del Codice civile incentrato per entrambe le parti del Contratto, sul principio liberale della simmetrica libertà di recesso dal Contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Un principio che discende dall'idea della necessaria temporaneità delle relazioni obbligatorie di durata, tanto più se comportanti, come nel Contratto di lavoro, un'implicazione personale.

                La disposizione chiave dell'art. 2118 disponeva in origine, che i due bilaterali recessi, del datore di lavoro (licenziamento) e del lavoratore (dimissioni), venissero trattati allo stesso modo, disconoscendo che si trattava di realtà profondamente diverse.

                Quello del licenziamento in particolare, è tema di estrema delicatezza sociale, a maggior ragione alla luce dei maggiori riconoscimenti costituzionali (v, per tutti gli artt. 1, 35 c. 1, 36 c. 1) in merito al valore del lavoro; e ciò malgrado non vi sia nella Costituzione, l'affermazione esplicita di un diritto del lavoratore a non essere licenziato senza un giustificato motivo. Un tale diritto è stato sancito a livello di principi fondamentali, soltanto dall'art. 30 della Carta di Nizza.

                A ciò si aggiunga la rilevanza "di sistema" per l'effettività di tutti i diritti dei lavoratori, di una disciplina limitativa del potere di licenziamento. L'esposizione del lavoratore alla possibilità di un licenziamento libero e potenzialmente arbitrario, proietta un'ombra anche sugli altri diritti (retributivi, professionali, etc.) del lavoratore, poiché lascia questi in una condizione di totale soggezione dal datore di lavoro, dal quale dipende il proprio destino lavorativo e di reddito.

                E' così maturato un pur tormentato processo che ha condotto, dagli anni 60 del secolo scorso, al distacco quasi integrale della disciplina del licenziamento individuale dal codice civile, nel quale è rimasta radicata invece, quella delle dimissioni.

 

2. Le dimissioni del lavoratore

                Il recesso del lavoratore (le "dimissioni") è tuttora regolato di base, dall'art 2118 c. 1 c.c., secondo il quale ciascuna delle parti ha il diritto potestativo di recedere liberamente (ad nutum, cioè a cenno) da un contratto a tempo indeterminato, con il solo obbligo di concedere all'altra parte, destinataria del recesso, un preavviso, la determinazione della cui durata è rimessa ai contratti collettivi.

                La decisione di dimettersi è pertanto, libera e insindacabile, fatta salva l'ipotesi in cui il lavoratore si sia impegnato, con un patto ad hoc, ad una durata minima del rapporto.

                Il preavviso comporta un differimento dell'efficacia giuridica dell'atto di recesso, per non esporre la parte receduta, qui il datore di lavoro, alle conseguenze di un abbandono improvviso del lavoratore.

                In mancanza di preavviso, aggiunge il c. 2, il lavoratore recedente è tenuto a corrispondere all'altra parte l'importo della retribuzione che gli sarebbe spettato nel periodo di preavviso (detto nella pratica "indennità sostitutiva del preavviso"), a meno che il datore di lavoro rinunci (come può fare essendo il suo diritto al preavviso, di natura disponibile) a fruire del preavviso previsto nel suo interesse.

                La regola ha però un'immediata eccezione. Il successivo art. 2119 consente il recesso immediato senza obbligo di preavviso, qualora l'altra parte, qui il datore di lavoro, ponga in essere una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, cioè un gravissimo inadempimento degli obblighi contrattuali a danno del lavoratore (reiterato non pagamento della retribuzione, molestie morali o sessuali, etc.).

                Peraltro il lavoratore che si dimetta per giusta causa, oltre a non dover dare il preavviso cui sarebbe giustamente tenuto, ha diritto a percepire dal datore di lavoro, in aggiunta, un importo pari all'indennità sostitutiva del preavviso; viene cioè trattato per questo aspetto, come se fosse stato ingiustamente licenziato.

                Si pone da sempre l'esigenza di garantire che le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto (che contiene anch'essa l'espressione di una volontà di dimissioni), siano rese con libera e genuina espressione del consenso.

                La pratica,  più odiosamente illecita a tale riguardo, è quella delle dimissioni fatte sottoscrivere "in bianco" già all'atto dell'assunzione e poi utilizzate a piacimento dal datore di lavoro quando vuole liberarsi di un lavoratore.

                Per debellare alla radice questa pratica, l'art. 4 c. 17-23 della legge 28 giugno 2012 n. 92 , ha previsto che le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto non siano giuridicamente efficaci sino a quando il lavoratore:

                a) non le abbia confermate tramite una successiva sottoscrizione apposta su un atto di data certa, e dunque non manipolabile, identificato nella ricevuta di trasmissione della comunicazione telematica della cessazione del rapporto che il datore deve fare, entro 5 giorni dalla stessa, al Centro per l'impiego competente, oppure

                b) non le abbia convalidate presso la DTL o il Centro per l'Impiego territorialmente competente o presso le sedi individuate dai Contratti Collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

                Queste varie modalità sono equivalenti tra loro e la scelta tra esse, è lasciata al lavoratore.

                Nel caso in cui il lavoratore non effettui da sé la conferma o la convalida, il datore di lavoro ha la possibilità di invitarlo per iscritto a provvedere in tal senso.

                Spetta al lavoratore a quel punto, di attivarsi, visto che non aderisce all'invito entro 7 giorni dalla data in cui lo ha ricevuto al proprio domicilio conosciuto, le dimissioni diventano giuridicamente efficaci; dal che altresì discende che ove intenda evitare tale conseguenza, il lavoratore deve revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale (che dunque diversamente dal passato, divengono atti revocabili, il che potrà incidere su certe pratiche gestionali) entro i 7 giorni di cui sopra, e preferibilmente per iscritto.

                Qualora invece, in difetto di conferma o convalida spontanee, il datore di lavoro non trasmetta al lavoratore, la comunicazione contenente l'invito entro 30 giorni dalla data delle dimissioni, queste perdono definitivamente efficacia.

                In pratica è stato esteso a tutti i lavoratori il regime di convalida previsto (ma in quel caso obbligatoriamente presso il servizio ispettivo della DTL), per le dimissioni delle lavoratrici madri 1).

                L'istituzione di questa procedura renderà forse meno frequente, ma non impossibile a verificarsi, che il lavoratore faccia valere in giudizio eventuali vizi del consenso delle dimissioni già rese.

                Il caso più noto è quello in cui il lavoratore lamenti una presunta violenza morale ex artt. 1434-1435 c.c., esercitata nei suoi confronti dal datore di lavoro o dai suoi collaboratori, per indurlo a dimettersi come unica alternativa ad un licenziamento motivato dall'asserita scoperta di gravi inadempienze commesse (ad es. un furto), e/o ad una denuncia penale per quelle stesse condotte.

                In questo tipo di controversie la giurisprudenza tende a ritenere le dimissioni non viziate nel caso in cui, se quel lavoratore fosse stato licenziato per gli stessi fatti che lo hanno portato alle dimissioni, quel licenziamento sarebbe stato legittimo. Ciò a meno che le dimissioni siano state "estorte" con modalità particolarmente contrarie a buona fede, nel qual caso gli estremi della violenza morale sono ravvisabili in ogni caso.

 

3.Il sistema del licenziamento individuale

                Il regime del recesso sotto l'art 2118 c.c. appena illustrato trattando delle dimissioni, vale anche per il licenziamento, che in virtù di quella norma è ad nutum, cioè libero, non necessitante di una motivazione formale né di una giustificazione sostanziale.

                Il licenziamento ad nutum è con preavviso, la cui funzione ha qui una particolare e risalente valenza sociale, quella di impedire che il lavoratore si trovi privo dall'oggi al domani, del posto di lavoro.

                Nella pratica, per il desiderio di liberarsi immediatamente del dipendente, i datori di lavoro comunicano spesso a questi, già nella lettera di licenziamento, che il preavviso "lavorato" si deve intendere sostituito dalla corrispondente indennità, cioè "monetizzato".

                Peraltro secondo una classica tesi della giurisprudenza (l'efficacia "reale" del preavviso), a meno che il lavoratore prestasse un espresso consenso alla cessazione immediata del rapporto di lavoro (non ricavabile dalla mera accettazione di fatto dell'indennità sostitutiva), anche in caso di sostituzione del preavviso con la corrispondente indennità la data di giuridica estinzione del vincolo contrattuale rimaneva quella in cui sarebbe andato a scadere il preavviso. Ne potevano scaturire conseguenze di rilievo: se nel frattempo entrava in vigore un nuovo CCNL recante un incremento retributivo, il lavoratore licenziato aveva titolo a beneficiarne; se il lavoratore cadeva (o "si metteva") in malattia durante il preavviso, il decorso dello stesso si considerava sospeso.

                Questa tesi è stata superata tuttavia dalla giurisprudenza più recente, secondo la quale quando il preavviso viene "pagato", l'estinzione del rapporto di lavoro si produce immediatamente per mutuo consenso.

                Nel sistema del Codice Civile è prefigurata una seconda tipologia di licenziamento, per giusta causa (art. 2119) o "in tronco", il cui effetto originario era, non già quello di "giustificare" il licenziamento, bensì più modestamente, l'esonero del datore di lavoro dalla concessione del preavviso.

                Questo assetto si è mantenuto saldo fino al 1966, a dispetto dei tentativi di un'avanguardia dottrinale di sostenere che già da una retta lettura dei principi costituzionali di protezione del lavoro, era possibile desumere la sussistenza di limiti al potere di licenziamento. Ma il passaggio era così cruciale, essendo la libertà di recesso il cuore della libertà imprenditoriale, da poter essere realizzato soltanto da parte di una legge che segnasse l'avvento di una nuova stagione.

                Questa legge, prodotto del Centro-sinistra degli anni '60, è stata la n. 604 del 15 luglio 1966, che ha stabilito l'innovativo principio per cui, per essere legittimo, il licenziamento del lavoratore deve essere oltre che preceduto da un preavviso, disposto nel rispetto di regole di forma e determinato da un giustificato motivo (art 1), la cui insussistenza può essere fatta valere dal lavoratore in giudizio.

                In questo nuovo assetto la giusta causa ex art 2119 non si rapporta più al recesso ad nutum (salvo che nei residui casi di applicabilità dello stesso), ma al licenziamento per giustificato motivo, rappresentando, al pari di quest'ultimo, un'ipotesi di licenziamento "giustificato", ma senza obbligo di preavviso.

                In altre parole il requisito minimo di validità del licenziamento, è la presenza di un "giustificato motivo". Se ricorre una "giusta causa" (come versione aggravata del "giustificato motivo soggettivo"), il licenziamento è a maggior ragione (giacché nel più, la giusta causa, sta il meno, il giustificato motivo), legittimo, con l'ulteriore conseguenza dell'esonero del datore di lavoro dal preavviso.

                L'impugnazione giudiziale di un lavoratore licenziato per giusta causa può avere come esito infatti, il disconoscimento della giusta causa, con la conseguenza dell'insorgere del diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva del preavviso, ma nel contempo l'accertamento di un pur meno grave  giustificato motivo, in virtù del quale il licenziamento rimane, nondimeno, valido ed efficace.

                Tanto il "giustificato motivo" quanto la "giusta causa" rappresentano semplicemente dei fatti , alla sussistenza dei quali l'ordinamento condiziona, nel caso del giustificato motivo, la liceità (o se si preferisce questo termine tratto dal linguaggio del diritto amministrativo) la legittimità del licenziamento, e nel caso della giusta causa, la spettanza al lavoratore del diritto di preavviso.

                Ciò premesso, per far valere l'insussistenza di tali fatti, cioè il difetto di giustificazione del licenziamento, o altri vizi del medesimo (violazione delle regole di forma e/o di procedura prescritte; carattere discriminatorio del licenziamento), il lavoratore deve proporre un'azione in giudizio, normalmente detta (ancora mutuando il linguaggio dal diritto amministrativo) di impugnazione del licenziamento. Un'azione che come si vedrà è sottoposta a termini di decadenza stringenti.

                Dopo di che il maggiore e da sempre enfatizzato problema di politica del diritto posto dal regime del licenziamento, è quello del regime sanzionatorio da applicare nel caso che il giudice -sulla base di una certa interpretazione del giustificato motivo e della giusta causa- ne accerti il carattere ingiustificato o comunque viziato.

                Ciò sulla premessa di ovvia evidenza che affinché la regola del giustificato motivo abbia una concreta presa sui comportamenti dei datori di lavoro, occorre che l'esercizio non conforme a legge del potere di recesso sia sanzionato in modo significativo dall'ordinamento.

                L'emblema giuridico politico, simbolico culturale, psicologico, etc, di tale regime, è sempre stato la regola della reintegrazione nel posto di lavoro (o "tutela reale") posta dall'art.. 18 Stat. Lav. come modificato (ed esteso nell'ambito di applicazione) dalla legge n. 108/1990 .

                Peraltro almeno fin dagli anni '90 del secolo scorso, la tutela reale è stata al centro di critiche, sostenendosi che essa disincentiverebbe le assunzioni (per il timore di non riuscire più a liberarsi, una volta assunto, e se non a costi proibitivi, del lavoratore) e renderebbe troppo elevati i costi del licenziamento. E' stata ad esempio proposta in quest'ottica, la sostituzione della reintegrazione con un regime di compensazione esclusivamente economica del licenziamento ingiustificato, com'è la regola in altri paesi europei, nei quali la reintegrazione è circoscritta a casi particolari.

                Al che i difensori della "stabilità" del rapporto di lavoro, che alla tutela "reale" si ricollega, hanno sempre ribattuto che l'impatto negativo sull'occupazione, di una disciplina limitativa del licenziamento, non è assodato neppure tra gli economisti, e che in ogni caso, l'art 18 è l'espressione di irrinunciabili valori di civiltà giuridica.

                Tutta questa energia si è scaricata, nei primi mesi del 2012, sul Governo tecnico presieduto da Mario Monti, al quale le istituzioni europee e i mercati finanziari hanno richiesto, tra le altre cose, una riforma dell'art. 18, che ha così pagato la propria natura di simbolo.

                Il problema del "18" è stato di conseguenza, al centro del faticoso processo di gestazione di quella che è divenuta la legge n. 92/2012 (Riforma Fornero), la quale ha sensibilmente modificato l'intoccabile disposizione statutaria (oggi intitolata Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo). Da tale riscrittura la reintegrazione non è uscita abolita, ma circoscritta a situazioni determinate e ridimensionata nell'impatto risarcitorio, venendo sostituita negli altri casi, da un regime di compensazione puramente economica.

                Da unitario che era il regime dell'art 18 è stato "spacchettato", ed annovera oggi tre regimi sanzionatori diversi, uno dei quali, quello dei licenziamenti "disciplinari" ed "economici" ingiustificati, articolato in due sottoregimi alternativi (reintegrazione o compensazione economica).

                L'essere stato il nuovo testo, il prodotto di faticosi compromessi tra i vari schieramenti politici e sindacali, lo ha reso complicato e di non scorrevole interpretazione su punti cruciali. Nondimeno l'intenzione generale del legislatore è intelligibile, e spetterà ai giudici ed agli operatori implementarla (fatte salve le questioni di legittimità costituzionale che saranno probabilmente sollevate).

 

4. Procedura e forma del licenziamento

                La regola della necessaria giustificazione del licenziamento individuale comporta, come coerente corollario, la previsione di requisiti di forma dell'atto del licenziamento, finalizzati a rendere trasparente il motivo che ne ha determinato l'irrogazione. Ma è altresì imposto al Datore di lavoro a vari fini

                (consentire al lavoratore di difendersi, "raffreddare" la decisione e favorire l'eventuale raggiungimento di un accordo bonario, etc),

                di esperire una procedura preventiva all'adozione del licenziamento.

                Le procedure da seguire sono distinte a seconda della tipologia di recesso.

                Nell'ipotesi di licenziamento disciplinare , cioè per giustificato motivo soggettivo o giusta causa 2), la procedura da seguire è quella dell'art. 7 Stat. Lav. 3), il cui primo atto è la contestazione al lavoratore di  determinati fatti, rispetto ai quali egli deve fornire giustificazioni. Pertanto se in quanto si giunga al licenziamento, i motivi dichiarati nello stesso debbono fare riferimento ai fatti già oggetto della contestazione iniziale.

                Nell'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, purché disposto da un datore di lavoro assoggettato all'art. 18 Stat. Lav., in virtù dell'art. 7 legge 15 luglio 1966 n. 604, come sostituito dalla legge n. 92/2012, il licenziamento deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla DTL del luogo ove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore. In tale comunicazione il datore deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato.

                La DTL convoca Datore e lavoratore entro 7 giorni dalla ricezione della richiesta, per un incontro da svolgersi dinanzi alla Commissione provinciale di conciliazione già prevista dall'art. 410 c.p.c., e nel quale il lavoratore può farsi assistere da un sindacalista, o da un avvocato o un consulente del lavoro .

                Durante la procedura che deve concludersi entro 20 giorni (ma essa può essere sospesa per un massimo di 15 giorni per impedimento giustificato del lavoratore), le parti esaminano con la partecipazione attiva della Commissione, soluzioni alternative al licenziamento (tra le quali la più comune è la risoluzione consensuale, eventualmente incentivata dal rapporto di lavoro). Se fallisce il tentativo di conciliazione, o comunque una volta decorsi i 20 giorni, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.

                Ai sensi dell'art 2 della legge n 604 1966, come modificato dalla legge n 92/2012, il licenziamento deve essere comunicato per iscritto (trattasi per quel che si arguisce dal regime sanzionatorio che sarà illustrato, di un requisito di forma prescritto ad substantiam), e la comunicazione deve contenere la specificazione dei motivi, cioè dei fatti che lo hanno determinato.

                Peraltro ai sensi dell'art 1 c. 41 della legge n 92/2012, tanto il licenziamento disciplinare quanto quello per motivo oggettivo o economico, producono effetto retroattivamente, con decorrenza dalla comunicazione iniziale dei rispettivi procedimenti. Qualora il dipendente abbia lavorato nel frattempo, tali giorni si considerano come di preavviso lavorato (o retribuito).

                La norma sembra rivolta ad evitare che una volta avviate le procedure di "rito", il lavoratore possa "mettersi in malattia", sospendendo così l'efficacia dell'eventuale licenziamento. Essa aggiunge peraltro che tale efficacia rimane sospesa nel caso che il lavoratore incorra in un infortunio sul lavoro, oltre che nella maternità (ma a quest'ultimo proposito la norma è sbagliata, perché il licenziamento disposto durante il periodo di divieto per maternità è radicalmente nullo, e non ne sono soltanto sospesi gli effetti).

 

5. Licenziamento per ragioni soggettive

                La nozione di "giustificato motivo" di cui all'art. 3 della legge n. 604/1966, comprende due classi di fatti di natura nettamente distinta: i primi relativi ad atti o comportamenti del lavoratore genericamente qualificabili come riprovevoli in base alla lex contractus, e i secondi conseguenti a decisioni aziendali in ordine alla ristrutturazione o alla riorganizzazione dell'azienda.

                La prima di tali classi integra l'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, che consiste in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (art. 3, prima parte).

                L'inadempimento è qui preso in considerazione non in vista del classico istituto della risoluzione per inadempimento del contratto a prestazioni corrispettive (la cui applicabilità al contratto di lavoro è stata oggetto di discussioni teoriche ma prive di riscontro nella pratica giudiziaria), bensì come presupposto di valido esercizio del potere di recesso da parte del datore di lavoro.

                Gli obblighi contrattuali rilevanti possono derivare dagli artt. 2104-2105 c.c., dai contratti collettivi ed individuali, da eventuali regolamenti, direttive, ordini di servizio aziendali (che sono espressioni di potere direttivo), da regole pubbliche (ad es. quelle che presiedono all'attività bancaria), da regole tecniche di perizia, ect. : per mero esempio, assenza ingiustificata dal lavoro, insubordinazione nei confronti dei superiori, atteggiamenti violenti o ingiuriosi in azienda; irregolarità contabili; danneggiamento del materiale aziendale; violazione delle misure di sicurezza, etc.

                L'inadempimento deve essere notevole sotto il profilo della gravità oggettiva del fatto commesso, essendovi altrimenti spazio, tenuto conto del principio di proporzionalità (previsto dall'art. 2106 c.c. per le sanzioni conservative, ma considerato di generale applicabilità a tutta la materia disciplinare), soltanto per l'irrogazione di una sanzione conservativa (ad es. una sospensione).

                Non è facile stabilire in astratto quando un comportamento oltrepassa la soglia del giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Da sempre vengono in soccorso al giudice, a tale riguardo, i CCNL, che contengono esemplificazioni dei principali fatti costituenti giustificato motivo (ivi compresa la recidiva, cioè l'eventuale aggravamento della sanzione collegata ad un fatto in considerazione dell'irrogazione di una precedente sanzione).

                Secondo l'art 3 comma 3 della legge 4 novembre 2010 n 183, che ha recepito un tradizionale giudizio giurisprudenziale, nel valutare le motivazioni del licenziamento il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giustificati motivi presenti nei Contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (ovvero nei Contratti individuali, qualora stipulati con l'assistenza e la consulenza delle Commissioni di certificazione).

                Peraltro tali tipizzazioni non sono vincolanti per il giudice, in particolare nel senso che questi può ritenere, in nome del principio di inderogabilità in peius della legge (come dallo stesso giudice interpretata) da parte del contratto collettivo, un dato fatto, oggettivamente considerato, sia meritevole di una sanzione meno grave di quella contemplata dal CCNL (non anche invece, di una più grave, a meno che il concreto comportamento in contestazione presenti varianti che lo rendono più grave).

                Le tipizzazioni contrattuali non sono vincolanti altresì, nel senso che il giudice può ravvisare il giustificato motivo legale anche in fatti non previsti dal CCNL.

                In secondo luogo, il giudice deve considerare (e di solito lo suggeriscono gli stessi CCNL) l'elemento soggettivo, ossia lo stato soggettivo doloso o al limite colposo (in specie se la colpa è grave), col quale l'atto o il comportamento contestati sono stati posti in essere.

                E' rilevante in tale ottica, anche la prassi vigente in un certo contesto aziendale: se alcune irregolarità di non eccelsa entità erano state fino a quel momento tollerate, ciò può costituire un'attenuante, se non una giustificazione, della condotta del lavoratore.

                Può accadere in generale che una sanzione sia ritenuta sproporzionata, rispetto alla tipizzazione del CCNL, in ragione di circostanze soggettive relative al caso. Tali circostanze possono però operare in teoria, anche come aggravanti.

                La categoria dei licenziamenti per ragioni soggettive è completata dal licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c 1, che a differenza di quello per giustificato motivo soggettivo, è senza preavviso.

                Il significato della giusta causa è già stato sviscerato a proposito delle dimissioni del lavoratore 4), ma il licenziamento ha ovviamente implicazioni più delicate. La giurisprudenza ha effettuato al riguardo, un'importante  integrazione interpretativa della già evocata (e quasi tautologica) nozione legale di causa che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto .

                Per un primo aspetto, integra una giusta causa un notevolissimo inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, la cui estrema gravità si rispecchia nel fatto che esso è tale da pregiudicare in modo irreparabile la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel dipendente, si da giustificarne (previo esperimento della procedura disciplinare) l'estromissione immediata dall'azienda.

                Il peso dell'elemento fiduciario è tanto maggiore, quanto più è importante il ruolo professionale del lavoratore (impiegato direttivo, dirigente). Ma vi sono comportamenti (un furto in azienda, una gravissima e plateale insubordinazione, una condotta violenta contro un superiore o un collega) che sono idonei a rompere in qualunque caso il nesso fiduciario.

                Per tale aspetto la giusta causa è sulla stessa scala del giustificato motivo soggettivo, ma ad un livello di maggiore gravità (da cui il superlativo). Ed anche qui negli stessi termini del giustificato motivo soggettivo, le previsioni del CCNL (o dei contratti individuali stipulati con l'assistenza e la consulenza delle Commissioni di certificazione) indirizzano la qualificazione di dati atti o comportamenti in una casella o nell'altra.

                Gli stessi CCNL suggeriscono che gli estremi della giusta causa (ancor più di quelli del giustificato motivo soggettivo) debbono essere valutati anche in rapporto a tutti gli elementi che misurano (incluse le eventuali attenuanti) la colpevolezza soggettiva del lavoratore, cioè l'intensità del dolo o della colpa.

                A questa accezione basica della giusta causa la giurisprudenza ha aggiunto una seconda (detta, ma inesattamente, giusta causa "oggettiva"), legata da un filo diretto col concetto di "base fiduciaria" del rapporto di lavoro, ed in base alla quale possono essere ricondotti alla giusta causa anche comportamenti molto gravi e colpevoli che pur non costituendo in senso stretto un inadempimento contrattuale, implicano una lesione non più riparabile della fiducia nel lavoratore in vista del futuro svolgimento del rapporto: comportamenti attinenti, quindi, alla vita privata del lavoratore (come la commissione di gravi reati), specialmente nell'ambito di attività o di settori (come quello bancario) che postulano un elevato grado di affidabilità personale.

                Poiché peraltro v'è qui il rischio d'invadere la schiera riservata del lavoratore/cittadino, tale nozione deve essere applicata con particolare misura.

                Infine per i lavoratori pubblici per i quali le causali delle sanzioni disciplinari e anche del licenziamento sono di massima previste dai CCNL, come per i lavoratori privati, l'art 55-quater del d. lgs. n. 165/2001 introdotto dal Decreto Brunetta, ha tuttavia isolato alcune ipotesi nelle quali deve essere irrogata comunque da parte dei dirigenti competenti, la sanzione del licenziamento disciplinare, di massima senza preavviso: falsa attestazione della presenza in servizio o produzione di certificato medico falso; assenza ingiustificata dal lavoro per più di 3 giorni, anche non continuativi, nell'arco di un biennio, o comunque per più di 7 giorni nel corso degli ultimi 10 anni; ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto per motivate ragioni di servizio; falsità documentali ai fini dell'assunzione; reiterazione di condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose; condanna penale comportante l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, o l'estinzione comunque denominata, del rapporto di lavoro; valutazione di insufficiente rendimento dovuto alla violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, e rapportato all'arco di un biennio.

 

6. Licenziamento per ragioni oggettive

                Il licenziamento può essere giustificato anche da ragioni oggettive, o economiche, ossia inerenti alle decisioni dell'imprenditore in ordine alle dimensioni ed all'organizzazione della produzione e del lavoro.

                La tipologia di base è quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art 3, seconda parte, legge n, 604/1966). V'è poi il Licenziamento collettivo che per un aspetto si può considerare semplicemente come risultante da una pluralità contestuale di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ma che per altri profili, è sottoposto ad un'autonoma disciplina, che sarà trattata nel prossimo capitolo 5) .

                Il giustificato motivo oggettivo è integrato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro, e al regolare funzionamento di essa. Tale formula è ampia al punto da coprire virtualmente, tutta la gamma delle possibili scelte imprenditoriali in ordine alla riduzione o alla modificazione della struttura aziendale.

                In via esemplificativa, fra le ragioni inerenti all'attività produttiva, si può annoverare la chiusura di un reparto o di un ufficio dell'azienda, cui consegue il licenziamento dei relativi addetti, o comunque la soppressione di una o più posizioni di lavoro. Tra quelle inerenti all'organizzazione del lavoro, una redistribuzione del carico di lavoro tra un minor numero di addetti, magari favorita dall' ìntroduzione di nuove tecnologie. Infine fra le ragioni inerenti al regolare funzionamento dell'organizzazione del lavoro, la conclamata inidoneità professionale di un lavoratore a svolgere le mansioni affidate.

                A partire da questa formulazione, la giurisprudenza ha operato una serie di puntualizzazioni, oramai tendenzialmente consolidate (anche se v'è chi ne mette in questione la razionalità complessiva).

                Il primo problema che si pone è se il giudice ai fini della valutazione della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, possa sindacare il cd. merito della scelta imprenditoriale a monte, cioè possa valutare l'opportunità economico-organizzativa o persino sociale (ad es. inibendo a un imprenditore di effettuare dei licenziamenti per ragioni di "responsabilità sociale").

                Tale possibilità è ufficialmente negata dalla giurisprudenza, in nome della garanzia costituzionale della libertà di iniziativa economica privata (art. 41, c. 1, Cost.), che comporta la libertà dell'imprenditore di decidere il se, il quanto e il come dell'attività di impresa, e quindi in concreto, di ristrutturarla e riorganizzarla, o persino cessarla.

                Il punto è stato ribadito dall'art. 30 c. 1 della legge 4 novembre 2010, n. 183, secondo cui nei casi in cui le disposizioni di legge contengono clausole generali (o comunque norma dal contenuto aperto) ivi comprese quelle in tema di recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro ... .

                V'è tuttavia un filone della giurisprudenza che probabilmente non rispetta tale limitazione, allorché afferma che il licenziamento in discorso può essere disposto non per perseguire un "mero incremento dei profitti", bensì soltanto per fronteggiare uno stato di difficoltà dell'azienda.

                A parte questa posizione, la giurisprudenza è solita ritenere che alla luce dei contro-limiti dell'utilità sociale e della libertà, sicurezza e dignità umana (art 41 c 2 Cost), il giudice possa e debba verificare:

                a) la veridicità della ragione addotta, ad esempio della chiusura dell'unità a cui apparteneva il lavoratore o della soppressione del posto da questi occupato. Peraltro questo tipo di controllo comprende, a lume di esperienza, anche una minima verifica di attendibilità, nel senso che la ragione addotta deve avere una minima consistenza e serietà, il che può reintrodurre dalla finestra, punte di sindacato di merito;

                b) se dalla ragione addotta è effettivamente disceso come conseguenza necessaria o comunque plausibile, il licenziamento di quel lavoratore, in altre parole la consistenza di un rilevabile nesso di causalità tra la scelta imprenditoriale a monte e la conseguenza che ne è stata tratta (un nesso non ravvisabile ad es. nel caso di scuola in cui sia stato licenziato un dipendente non addetto all'unità produttiva soppressa, o in quello più realistico in cui il dipendente sia stato assegnato a quella unità, poco prima del licenziamento);

                c) che il datore di lavoro non abbia potuto utilizzare il lavoratore in un'altra mansione, anzitutto equivalente, ma anche qualora il lavoratore (cui tale possibilità deve essere prospettata) vi acconsenta, inferiore (la giurisprudenza ammette infatti la validità di "patti di demansionamento" conclusi in alternativa ad un licenziamento).

                Il principio del licenziamento come extrema ratio rappresenta il limite estremo cui la giurisprudenza creativamente, ha ritenuto possibile spingersi per contemperare la libertà imprenditoriale con l'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.

                In buona sostanza è richiesto al datore di lavoro di operare un fattivo sforzo di reinserimento del lavoratore altrimenti vittima del licenziamento (così da scacciare anche il sospetto che le "vere" ragioni del licenziamento, siano diverse da quelle ufficialmente dichiarate): nel senso non di dover creare un posto di lavoro nuovo, ma di vagliare le possibilità alternative di utilizzazione del lavoratore nell'organico dato. Ne discende in particolare, che qualora il datore di lavoro abbia effettuato in concomitanza col licenziamento o poco dopo (di massima entro il semestre), una nuova assunzione in mansioni comparabili, la valutazione sulla giustificazione oggettiva del licenziamento, tende ad essere negativa.

                Infine, la giurisprudenza è solita riportare al giustificato motivo oggettivo, anche i licenziamenti derivanti da situazioni di oggettiva impossibilità per il lavoratore, di prestare l'attività lavorativa.

                Tra le ipotesi di rilievo l'inidoneità fisica o psichica del lavoratore (v artt. 4 c 4 e 10, c 3, legge n. 68/1999; e nel lavoro pubblico, art. 55-octies d.lgs. n. 165/2001)  6); il ritiro di licenze o patenti necessarie al lavoro; la custodia cautelare del lavoratore (ove la ragione del licenziamento è il fatto dell'assenza, pur forzata, del dipendente, e non ha a che vedere col tipo di reato imputato), qualora lo stato di detenzione si protragga per un tempo tale da far venir meno l'interesse del datore di lavoro ad attendere la ripresa della prestazione lavorativa.

 

7 Il licenziamento discriminatorio

                E' contemplato a parte un vizio che si produce quando esso [cioè] il licenziamento, concretizza un'offesa a beni il cui particolare valore giuridico nasce dall'essere espressione del principio costituzionale di eguaglianza: il licenziamento discriminatorio, che l'art. 3 della legge n. 108/1990 identifica tramite il rinvio all'art. 4 della legge n. 604/1966 (discriminazione per motivi sindacali, politici, religiosi) e all'art. 15 Stat. Lav. (discriminazione per motivi -di nuovo- sindacali, politici, religiosi, e inoltre razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età, o basati sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali).

                In sé il licenziamento discriminatorio è da ricondurre alla già trattata nozione generale di atto discriminatorio, e per quel che serve, alla relativa disciplina 7) .

                Da parte del lavoratore, asserire che il licenziamento ha avuto tale carattere, significa addurre un vizio ulteriroe rispetto alla semplice carenza di giustificazione dello stesso: è diffusa anche se non unanime, l'opinione che un licenziamento, se è discriminatorio, è anche ingiustificato, mentre se è ingiustificato, non è sol per questo, discriminatorio.

                Il licenziamento discriminatorio (come ogni atto discriminatorio) è nullo, a prescindere dalla motivazione formalmente adottata, e comporta sempre, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (ed anche nelle ipotesi residuali di applicazione dell'art. 2118 c.c.: v. infra), l'applicazione dell'art. 18 Stat. Lav. ; un rinvio da rileggere peraltro, come operato non a tutta la disposizione, bensì alla parte di essa che riguarda questa patologia di licenziamento.

 

8. L'impugnazione del licenziamento e il regime sanzionatorio

                L'impugnazione del licenziamento è sottoposta a termini di decadenza, la cui finalità è quella di liberare il datore di lavoro dall'incertezza in merito alla contestazione dell'atto da parte del lavoratore, lasciando a questi nel contempo, un tempo sufficiente, per esercitare in modo agevole il proprio diritto di azione in giudizio.

                In verità i termini di decadenza previsti, sono due: il primo può essere impedito con un'impugnazione stragiudiziale del licenziamento, purché effettuata in forma scritta, in pratica una semplice lettera; il secondo, che scatta una volta che sia stato osservato il primo può essere impedito soltanto proponendo un'azione giudiziale volta ad impugnare il licenziamento.

                L'impugnazione stragiudiziale, ai sensi dell'art. 6 c. 1, legge n. 604/1966, deve essere effettuata (è a tal fine sufficiente secondo la Cassazione, la spedizione tramite il servizio postale) entro 60 giorni dalla ricezione da parte del lavoratore della comunicazione contenente il licenziamento.

                Ove il lavoratore osservi questo primo termine (altrimenti l'impugnazione è definitivamente preclusa), ai sensi del comma 2 della disposizione (introdotto dalla legge n 183/2010 e modificato dalla legge n 92/2012), egli ha a disposizione ulteriori 180 giorni per proporre l'impugnazione giudiziale, tramite deposito del Ricorso presso la Cancelleria del Tribunale competente in funzione di giudice del lavoro, a pena di inefficacia dell'impugnazione medesima.

                Secondo l'interpretazione più accreditata nella pratica, i 180 giorni decorrono dalla scadenza dei 60 giorni previsti per l'impugnazione stragiudiziale, così da dar luogo a un complessivo termine di 240 giorni. Nulla impedisce al lavoratore, peraltro, di proporre l'azione in giudizio già nei primi 60 giorni.

                Invece di ricorrere al giudice, il lavoratore può limitarsi, almeno inizialmente, ad avanzare la richiesta di conciliazione o di arbitrato (istituti non trattati ex professo nel testo) ai sensi dell'art. 410 ss. c.p.c., come novellati dalla legge n. 183/2010. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati dal datore di lavoro (che ne ha facoltà), o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, torna a valere un termine di decadenza per la espletazione dell'azione in giudizio, che però in tale unico caso, è (non più di 180) ma di 60 giorni.

                Il regime di decadenza descritto s'applica anche  (v. art. 32 c. 3, lett a , legge n. 183/2010) ai licenziamenti che presuppongano la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro : è ad es. il caso in cui un collaboratore a progetto, veda cessare il proprio rapporto e proponga azione in giudizio per fare valere la natura subordinata di esso e contestare, ad un tempo, l'estinzione del rapporto, riqualificata come licenziamento.

                Una volta che sia stata promossa l'azione, il giudice conduce il processo secondo le regole  di rito previste. A tale riguardo la legge 92/2012 (art. 1 c. 47-69) ha previsto che le impugnazioni dei licenziamenti nelle ipotesi regolati dall'art. 18 Stat. Lav. (v. infra) siano proposte e trattate secondo un rito processuale urgente, che si propone di ridurre la durata media di questi procedimenti 8).

                Per facilitare il lavoratore è stabilito (art 5 legge n 604/1966) che l'onere della prova circa la sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa incombe sul datore di lavoro, sebbene questi sia la parte convenuta nel processo e l'onere in questione, di base, spetti all'attore (art. 2697 c.c.).

                Di contro, l'onere di provare la natura discriminatoria del licenziamento è a carico del lavoratore, che può tuttavia avvalersi delle facilitazioni (inversione dell'onere probatorio qualora il lavoratore offra elementi presuntivi, anche di carattere statistico, che facciano sospettare la discriminazione) previste dalla normativa anti-discriminatoria.

                Dopo di ché, supponendo che il giudice accerti che il licenziamento è stato disposto in violazione delle regole di forma e procedura e/o senza un giustificato motivo o una giusta causa, o ha natura discriminatoria, vengono in gioco le conseguenze sanzionatorie di tali vizi dell'atto.

                L'assetto dell'ordinamento sino alla modifica dell'art. 18 recata dalla legge n. 92/2012, era incentrato sulla distinzione fra "tutela reale" e "obbligatoria": la prima era appunto quella prevista dall'art. 18 ed era detta "reale" perché comportava necessariamente, nel caso in cui il licenziamento fosse trovato illegittimo dal giudice, il ripristino del rapporto e la reintegrazione del dipendente, insomma la restituzione della res rappresentata dal posto di lavoro; l'altra tutela, prevista dall'art. 8 della legge n. 604/1966, era ed è definita (in modo criptico) "obbligatoria" perché la relativa sentenza non dichiara invalido e inefficace l'atto, benché ingiustificato, ma si limita a porre a carico del datore di lavoro due "obblighi" alternativi (riassunzione del lavoratore o pagamento di una penale di ridotto importo), la scelta tra i quali spetta al datore stesso.

                Nel nuovo art. 18 la tutela "reale" c'è ancora ma non è più l'unica prevista. Da cui l'opportunità di rettificare le denominazioni delle due tutele, definendo "forte" (anche se meno forte di prima) quella dell'art. 18, e "debole" quella tradizionalmente conosciuta come "obbligatoria".

                La tutela dell'art. 18 Stat. Lav.  comporta un elevato tasso di protezione del lavoratore e si applica (art. 18, c. 8-9) alle imprese o ai datori di lavoro non imprenditori che occupano più di 15 dipendenti (cioè almeno 16) o più di 5 (cioè almeno 6) nel settore agricolo, nelle unità produttive (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo) insistenti nell'ambito del terriotorio comunale (con sommatoria dei dipendenti appartenenti ad unità distinte), o comunque alle imprese o ai datori di lavoro non imprenditori che occupano più di 60 dipendenti (cioè almeno 61) a livello nazionale.

                Di contro la tutela "debole" o "obbligatoria" disciplinata dall'art. 8 della legge n 604/1966, è residuale, giacché si applica in tutti gli altri casi (con l'eccezione delle ipotesi sopravvissute di recesso ad nutum), quindi anche ad un'impresa o ad un datore di lavoro con un solo dipendente.

                Tale diversità di regime è rapportata alla consistenza occupazionale dell'impresa 9), sulla duplice premessa che le imprese medio-grandi, siano le uniche a poter sopportare un regime oneroso come quello dell'art 18, e che nelle piccole imprese i rapporti abbiano una maggiore personalizzazione, si da rendere impraticabile un regime comportante (anche se non più necessariamente) la reintegrazione del lavoratore licenziato nel posto dal quale era stato estromesso. E' dibattuto se queste giustificazioni siano tuttora valide, anche perché il numero dei dipendenti è sempre meno un indice affidabile della consistenza economica dell'impresa.

                A prescindere dalla dimensione occupazionale, la tutela dell'art. 18 è espressamente esclusa, per cui il lavoratore ha titolo ad invocare soltanto quella "obbligatoria", per le cd. (dal diritto tedesco) organizzazioni di tendenza ossia per i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione e di culto (art. 4  108/1990).

                L'esclusione dell'art. 18 e in particolare della reintegrazione, è giustificata dalla particolare natura di queste organizzazioni, che in quanto portatrici di una "tendenza" (ad es. un partito politico, un sindacato, una scuola religiosa), non possono essere costrette a reinserire un lavoratore entrato in contrasto con la ragion d'essere dell'organizzazione, e per questo motivo licenziato; e ciò anche qualora il licenziamento sia stato ritenuto ingiustificato, o persino discriminatorio, dal giudice.

                Peraltro secondo pronunce della Cassazione, l'esonero dall'art. 18 è da ritenersi circoscritto ai lavoratori le cui mansioni sono collegate alla "tendenza" e non meramente "neutre" (ad es. normali mansioni impiegatizie), poiché nel secondo caso non v'è ragione di escludere, qualora il licenziamento sia stato trovato illegittimo, il ripristino del rapporto di lavoro.

                Infine non deve essere confuso con le conseguenze anche patrimoniali del licenziamento illegittimo, il contributo di lcenziamento che in base alla legge 92/2012, è dovuto in tutti i casi in cui il datore di lavoro intima un licenziamento, e che è destinato al finanziamento dell'ASpI  10).

 

8.1 La tutela forte (art 18 Stat Lav)

                L'art. 18 St. Lav. è nella sua essenza, una normativa rivolta al giudice che venga ad accertare, in accoglimento alla domanda proposta dal lavoratore, l'illegittimità del licenziamento a questi irrogato, ed è finalizzata a stabilire le conseguenze sanzionatorie di tale illegittimità, che sono l'oggetto della sentenza giudiziale.

                Tale sentenza ha pertanto di massima, un duplice contenuto: di accertamento del vizio del licenziamento, e di consequenziale condanna nei confronti del datore di lavoro che tale licenziamento ha irrogato, a dar seguito alle conseguenze di tale accertamento.

                Nel vecchio art 18 come già rilevato, qualunque fosse il vizio del licenziamento, la tutela che veniva ad applicarsi, era quella "reale", comportante il ripristino giuridico del rapporto malamente interrotto dal licenziamento, la reintegrazione del lavoratore licenziato ed il ristoro pieno dei danni patrimoniali patiti.

                Non v'è dubbio altresì che questo regime si presentasse col crisma della coerenza con i principi del diritto civile: è "naturale" che ad un licenziamento viziato non si riconosca un'efficacia  estintiva  del rapporto di lavoro, che tale rapporto torni a dover essere  adempiuto tramite la reintegrazione del lavoratore, e che gli effetti che si sono prodotti vengano rimossi.

                L'ordinamento tuttavia non è  per questo costretto a prevedere nel caso di licenziamento illegittimo, un regime come quello descritto, ma rimane libero di configurare diversamente le conseguenze di tale illegittimità. E' quanto ha fatto l'art. 1 c. 42 della legge 92/2012 che ha riscritto l'art 18 non eliminando la tutela "reale", ma circoscrivendola a situazioni determinate, e prevedendo in sua vece negli altri casi, una tutela di tipo esclusivamente economico, che lascia in piedi l'efficacia estintiva del licenziamento pur dichiarato illegittimo dal giudice.

                Occorre avvertire, peraltro, che è incerta allo stato, l'applicazione del nuovo art. 18 ai rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche -ai quali era certo invece che si applicasse il vecchio-, data l'ambigua formulazione dell'art 1 c. 7 della legge n. 92/2012, che sembra rimandare a un prossimo decreto di "armonizzazione". Qualora si optasse per la non applicazione, ne discenderebbe la conseguenza (paradossale e iniqua) che ai lavoratori pubblici continuerebbe ad applicarsi per adesso, il vecchio art. 18.

                Ciò premesso, l'art 18 riformato prevede tre regimi sanzionatori diversi (uno dei quali articolato in due sottoregimi, per cui i regimi si possono considerare anche quattro), a seconda dei seguenti vizi dell'atto di recesso: licenziamento discriminatorio o comunque nullo; licenziamento ingiustificato; licenziamento affetto da vizi di forma e di procedura.

                Esaminiamo ciascuno di questi regimi ( "tutela ripristinatoria piena", "tutela ripristinatoria attenuata", "tutela economica" o "indennitaria", "tutela economica ridotta"), seguendo l'ordine nel quale sono dispiegati dalla disposizione.

 

8.1 a) La tutela ripristinatoria piena

                 Questo regime si applica alle ipotesi più gravi di licenziamento viziato, vale a dire, al licenziamento discriminatorio; al licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio (art 35 d.lgs.  n. 198/2006); al licenziamento intimato in violazione dei divieti previsti in caso di maternità e paternità (art 54 c 1, 6, 7 e 9, d. lgs. n 151/2001); al licenziamento dichiarato nullo da altre disposizioni di legge; al licenziamento nullo perché determinato da un motivo illecito ai sensi dell'art. 1345 c.c.; al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

                In tali ipotesi il trattamento è di massima quello del vecchio art 18, per cui con la sentenza il giudice :

                a) accerta l'invalidità e inefficacia del licenziamento, dal che discende -ed è questo, malgrado l'enfasi cada sulla reintegrazione, il contenuto principale della tutela- il ripristino giuridico del rapporto di lavoro (tutela specifica, cioè restituzione" al lavoratore del medesimo bene perduto a causa dell'atto illecito);

                b) condanna il datore di lavoro anche a reintegrare materialmente il lavoratore nel posto di lavoro (art 18 c 1), reinserendolo effettivamente all'interno dell'azienda e dell'organizzazione del lavoro (tutela specifica)  11). Peraltro questo secondo comando giudiziale ha una valenza più simbolica che concreta, perché una volta che il rapporto è stato giuridicamente ricostituito, torna a dipendere dalla volontà del datore di lavoro che al lavoratore venga concretamente permesso di lavorare, trattandosi di un comportamento "infungibile" che non è dato di imporre con gli strumenti dell'esecuzione forzata, e al quale si ricollega anche il profilo discrezionale della attribuzione dei compiti da svolgere; ciò fermo restando l'effetto indiretto (sul datore di lavoro), rappresentato dal dover comunque pagare il lavoratore lasciato "in libertà" (magari nella speranza di una riforma della sentenza in appello), nonché dalla facoltà di questi di richiedere, a causa della forzata inattività, il risarcimento dei danni professionali patiti 12).

                c) condanna il datore di lavoro (art 18 c 2) al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

                In sostanza attraverso tale capo di condanna (tutela per equivalente), è riconosciuta al lavoratore illegittimamente licenziato una misura di carattere risarcitorio (più esattamente un'indennità corrispondente al valore del bene perduto) commisurata al danno patrimoniale sofferto, cioè alle retribuzioni non percepite dal lavoratore nel periodo tra il licenziamento e l'effettiva reintegrazione disposta in ossequio alla sentenza ex art. 18, dedotto quanto percepito dal predetto nello svolgimento di altre attività lavorative (cd. aliunde perceptum); e fatta salva la sua facoltà di richiedere il risarcimento degli ulteriori danni (ad es. alla salute) che egli dimostri di aver patito come conseguenza immediata e diretta del licenziamento.

                In ogni caso comunque, a titolo di sanzione per il datore di lavoro "colpevole" di avere usato male il potere di licenziamento, il risarcimento deve essere accordato per un minimo di 5 mensilità (che però se le mensilità perdute sono state più di 5, come sempre avviene a causa dei tempi del processo, è assorbito dall'importo finale: in pratica se le mensilità perdute sono state 10, il risarcimento è appunto pari a 10 mensilità, e non a dieci più cinque).

                A queste misure di tutela (ripristinatoria, reintegratoria, risarcitoria) si aggiunge infine un'ulteriore beneficio normativo: fermo restando il risarcimento del danno, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto (art. 18 c. 3).

                Al lavoratore reintegrato dalla sentenza è attribuita in pratica, la facoltà di rinunciare alla reintegrazione e di ottenere in cambio, un'ulteriore indennità dell'importo di 15 mensilità retributive (non assoggettata a contribuzione previdenziale). Tale facoltà si concretizza  nella titolarità di un diritto potestativo, da esercitare entro 30 giorni decorrenti dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

                E' altresì previsto (con superamento di un precedente orientamento giurisprudenziale di segno opposto) che la richiesta di tale indennità determini, una volta ricevuta dal datore di lavoro, la risoluzione del rapporto di lavoro, per cui da quel momento non decorrono ulteriori obblighi retributivi o risarcitori per retribuzioni non percepite.

 

8.1 b) La tutela ripristinatoria attenuata e la tutela economica

                 Nelle ipotesi di licenziamento ingiustificato, nelle quali cioè il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa (licenziamenti "soggettivi" o "disciplinari" : art. 18 c. 4-5) o del giustificato motivo oggettivo (licenziamenti "oggettivi" o economici" : art 18 c. 7) addotti dal datore di lavoro, la norma prefigura due regimi sanzionatori alternativi, il primo (tutela ripristinatoria attenuata) incentrato sul ripristino del rapporto e sulla reintegrazione nel posto di lavoro, ma con una tutela risarcitoria attenuata rispetto al regime illustrato sub a), data la previsione di un tetto massimo di risarcimento, e il secondo (convenzionalmente designabile come tutela economica o indennitaria ) prevedente (e trattasi della novità più "rivoluzionaria" del nuovo art 18, sulla quale si sono concentrate le maggiori attese politiche e sindacali) una compensazione meramente economica del lavoratore.

                Le sotto-ipotesi nelle quali si applica l'uno o l'altro dei due regimi non sono lasciate alla libera valutazione del giudice (come accade in altri ordinamenti come in quello tedesco), ma sono predeterminate di base dalla legge stessa. Peraltro nella misura in cui la ricognizione concreta di tali sotto-ipotesi dia luogo, come probabilmente darà, a incertezze applicative, si riapriranno margini di discrezionalità giudiziale.

                Per quanto concerne i licenziamenti soggettivi ingiustificati, la "tutela obbligatoria attenuata" deve essere applicata:

                a) nel caso in cui nel processo risulti l'inconsistenza del fatto contestato;

                b) nel caso in cui emerga che il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle tipizzazioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.

                La "tutela economica" deve essere applicata invece, in tutte le altre ipotesi di licenziamento "soggettivo" ingiustificato (tra i possibili esempi, i casi in cui un licenziamento per motivi soggettivi sia dichiarato ingiustificato per sproporzione tra la concreta colpa commessa e la misura disciplinare adottata, o per difetto del requisito dell'immediatezza).

                Circa i licenziamenti oggettivi la norma stabilisce anzitutto che la "tutela ripristinatoria attenuata" deve essere applicata nel caso di un licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore che sia stato trovato ingiustificato dal giudice, nonché in quello (che peraltro non è riconducibile al giustificato motivo oggettivo, costituendo un'ipotesi a sé) di un licenziamento intimato a un lavoratore malato o infortunato in violazione dell'art. 2110 c.c.  .

                In secondo luogo la norma prevede che il giudice "possa" applicare la tutela in discorso (reintegrazione) nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (tra i possibili esempi i casi in cui la ragione economica addotta dal datore di lavoro per licenziare il lavoratore e/o il nesso di casualità tra essa e il licenziamento risultino insussistenti nel processo).

                La "tutela economica" deve essere invece applicata in simmetria col trattamento dei licenziamenti "soggettivi" in tutte le altre ipotesi di licenziamento "oggettivo" ingiustificato

                (tra i possibili -ma non pacifici-  esempi , il caso in cui il datore di lavoro non riesca a dimostrare l'inutilizzabilità di altre mansioni del lavoratore licenziato, a meno che tale mancata prova non sia la spia dell'insussistenza della ragione economica determinante manifesta, nel qual caso si applica l'altra tutela).

                In sostanza tanto per i licenziamenti "soggettivi" quanto per quelli "oggettivi", la tutela basata sul ripristino del rapporto e sulla conseguente reintegrazione è riservata alle ipotesi identificate dal legislatore (con le incertezze interpretative che ne discendono) come di grave abuso del potere di licenziamento, altrimenti riconoscendosi al lavoratore una compensazione economica che non mette in questione la validità e l'efficacia del licenziamento medesimo

                (al pari di quel che già accadeva e continuerà ad accadere, anche se in virtù di un diverso meccanismo sanzionatorio  -13-, nel campo di applicazione della tutela "debole" o "obbligatoria").

                Così individuati i presupposti di applicazione delle due tutele, passiamo ad esaminare i contenuti.

                La tutela ripristinatoria attenuata riprende nell'impianto di base (ripristino del rapporto, reintegrazione, ristoro patrimoniale), quella già illustrata per i licenziamenti nulli -ed alla quale per quanto qui non diversamente detto, si rimanda-, ma con differenze che si traducono in una significativa limitazione per il lavoratore, dei diritti risarcitori nascenti dall'illegittimità del licenziamento.

                Ferme restando la previsione del minimo di 5 mensilità e la commisurazione dell'indennità risarcitoria alle retribuzioni non percepite a causa dell'interruzione del rapporto provocata dall'illegittimo licenziamento, è infatti stabilito che:

                1. l'indennità risarcitoria di cui sopra, non può comunque essere superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto (ferma restando la decorrenza piena del trattamento retributivo dalla sentenza in avanti, ci sia o no reintegrazione effettiva del dipendente): si tratta della novità di maggiore rilievo, che si traduce nell'addossare al lavoratore buona parte del rischio inerente alla durata del processo, che nel vecchio art 18 era tutto a carico del datore di lavoro;

                2. deve essere dedotto dal risarcimento non soltanto l'aliunde perceptum, ma anche diversamente dall'ipotesi sub a), quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire nel periodo di estromissione, dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (il cd. aliunde percipiendum, che è un'applicazione del principio di cui all'art. 1227, c. 2, c.c.);

                3. il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali deve essere invece pieno, ma si prevede che l'ente previdenziale competente a ricevere tali contributi non possa applicare sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, bensì soltanto gli interessi nella misura legale; e l'importo dei contributi da versare possa essere ridotto in corrispondenza dell'eventuale accreditamento al lavoratore di altri contributi maturati in conseguenza dello svolgimento, mentre era licenziato, di altre attività lavorative.

                Di contro la tutela economica o indennitaria comporta che il giudice pur rilevando il carattere ingiustificato del licenziamento e dunque l'illegittimità di questo, dichiari nondimeno l'avvenuta estinzione del rapporto di lavoro (il che implica che il licenziamento benché illegittimo, resta efficace) e condanni il datore di lavoro al pagamento di un indennizzo per il posto malamente perduto, cioè di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

                Ai fini della modulazione tra il minimo e il massimo, il giudice deve tenere conto prioritariamente, dell'anzianità di servizio del lavoratore, nonché di altri criteri che sono il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti. Nel solo caso di licenziamento "oggettivo" ingiustificato, è altresì previsto che il giudice tenga conto delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura preventiva prevista dall'art 7 della legge n 604/1966.

 

8.1 c) La tutela economica ridotta

                Nelle ipotesi di licenziamento dichiarato illegittimo unicamente per vizi di forma e di procedura, cioè per violazione dell'obbligo di motivazione del licenziamento ex art. 2, legge n 604/1966, della procedura disciplinare ex art 7 Stat Lav ,  o della procedura del licenziamento per motivo oggettivo ex art 7 legge n 604/1966, in luogo del precedente regime che trattava il licenziamento affetto da tali vizi come se fosse sostanzialmente ingiustificato, è stabilita (art 18 c. 6) una tutela economica ridotta che lascia estinto il rapporto di lavoro (ed efficace dunque il licenziamento a dispetto del fatto che la disposizione parli di "inefficacia") , con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata in una misura compresa, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di 6  e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Si tratta in sostanza della medesima tutela di cui all'art 18 c 5, ma con un importo ridotto.

                Ciò a meno che il giudice sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica in luogo di quella qui illustrata (che non è cumulabile pertanto, con quelle), le tutele previste per il caso di licenziamento ingiustificato.

                In tal modo il vizio formale o procedurale viene sdrammatizzato rispetto all'assetto precedente (ma con l'eccezione del licenziamento orale, al quale come rilevato, si applica la "tutela ripristinatoria piena" sub a , ferma restando la facoltà del lavoratore di far valere altri vizi del licenziamento.

 

8.1 d) La revoca del licenziamento

                E' previsto infine (v art 18 c 10) che in caso di revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro, purché effettuata entro 15 giorni e dalla ricezione dell'impugnazione del lavoratore, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione (come riteneva invece la giurisprudenza  formatasi "sul vecchio" art 18, per la quale in caso di revoca scattava comunque il diritto del lavoratore a richiedere il minimo risarcitorio di 5 mensilità più l'indennità sostitutiva della reintegrazione di 15 mensilità) i regimi sanzionatori previsti dalla norma.

 

8.2 La tutela debole (art 8 legge n 604/1966)

                Dove si applica la tutela "debole" o "obbligatoria" , il lavoratore licenziato senza un giustificato motivo (art 8 legge n 604/1966) ha diritto anzitutto, ad essere riassunto dal datore di lavoro.

                La "riassunzione" implica la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, per cui il lavoratore che ne beneficia non ha titolo alle spettanze retributive che avrebbe maturato dal momento in cui è stato licenziato sino a quello della sentenza che ha statuito l'obbligo di riassunzione.

                Peraltro, e sta qui l'essenza vera di questo regime sanzionatorio, l'obbligo di riassunzione è previsto soltanto in alternativa al pagamento da parte del datore di lavoro di un risarcimento del danno, commisurato ad una penale  predeterminata dalla legge, tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore.

                Qualora il dipendente abbia un'anzianità superiore a 10 o a 20 anni e il datore di lavoro più di 15 dipendenti nel totale dell'azienda, i massimi della penale sono elevati rispettivamente a 10 e a 14 mensilità.

                Nel determinare la misura della penale tra un minimo e il massimo, il giudice deve avere riguardo secondo l'art 8, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento ed alle condizioni delle parti.

                A ciò l'art 30 c 3 legge n 183/2010, ha aggiunto che nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ex art 8, legge n 604/1966, il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati (dai Contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi o dai Contratti individuali stipulati con l'assistenza e la consulenza delle Commissioni di certificazione) e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell'attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l'anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento .

                La scelta tra i due obblighi alternativi spetta al datore di lavoro, e non serve aggiungere che essa si indirizza sempre verso il pagamento della penale, che consente con un onere economico contenuto, di conseguire l'obbiettivo di estromettere il lavoratore dall'azienda.

                L'art 8 non chiarisce se tale regime si applica o no anche al licenziamento affetto da vizi di forma e di procedura. Ne sono scaturite incertezze, per cui allo stato la situazione, come minimo poco assestata, è la seguente:

                a) al licenziamento intimato in forma verbale si dovrebbe applicare, ai sensi del nuovo art 18 c 1 ultimo periodo, la reintegrazione "piena" prevista per il licenziamento discriminatorio;

                b) il licenziamento intimato in forma scritta, ma senza motivazione o con una motivazione generica, è qualificato dalla giurisprudenza, allo stato, come giuridicamente inesistente, con diritto del dipendente di far valere la continuità giuridica del rapporto di lavoro (da ritenersi mai cessato) e richiedere la percezione delle retribuzioni non percepite a causa dell'interruzione del rapporto (si tratta, dal punto di vista delle conseguenze pratiche, di un regime non troppo diverso da quello sub a, se si eccettua la non spettanza della indennità sostitutiva della reintegrazione);

                c) in caso di licenziamento disciplinare disposto in violazione della procedura ex art 7 St. Lav., la giurisprudenza ritiene applicabile (ed è soluzione ragionevole)  il regime previsto dall'art 8 per il licenziamento sostanzialmente ingiustificato.

 

9. Le ipotesi di licenziamento ad nutum

                In relazione al recesso del datore di lavoro, la storica regola di libera recedibilità, di cui all'art. 2118 del c.c., marginalizzata dall'evoluzione dell'ordinamento, sopravvive in poche ipotesi residue (ferma restando anche in esse, l'applicazione del regime del licenziamento discriminatorio):

                1. dirigente (art 10 c 1 legge n 604/1966), a motivo del carattere fiduciario di tale figura.

                A favore dei dirigenti privati peraltro, i Contratti collettivi prevedono la facoltà del dirigente di far valere dinanzi ad un collegio arbitrale o a un giudice, il carattere ingiustificato del licenziamento

(ma è questo un concetto reputato dalla giurisprudenza di contenuto più ampio di quello legale, tanto da farlo coincidere in pratica, con la non arbitrarietà del recesso),

del licenziamento con applicazione, qualora tale carattere venga accertato, non di misure ripristinatorie  e/o reintegratorie, bensì di un'indennità economica (detta "supplementare") variabile fra un minimo pari all'importo del preavviso, e un massimo, che può giungere a circa due annualità di retribuzione.

                La situazione è più incerta per il dirigente pubblico, al punto che secondo un orientamento della giursprudenza, recepito anche da alcuni Contratti collettivi, troverebbe applicazione nei suoi confronti una tutela comportante il ripristino del rapporto e la reintegrazione;

                2. lavoratore domestico (art 4 c 1 legge n 108/1990);

                3. lavoratore che ha superato il limite massimo di flessibilità (allo stato 70 anni) per accedere alla pensione di vecchiaia (art 24 c 4, ultimo periodo, legge  n 214/2011)  14) ;

                4. lavoratore in periodo di prova, che sia stato licenziato per esito negativo della medesima (art 10 c 1 legge 604/1966).

                Quella del recesso durante o al termine del periodo di prova, peraltro, è un'ipotesi che se formalmente è ancora di libero recesso

                (purché entro il limite di 6 mesi previsto, da parte dello stesso art 10 c 1, per la durata massima del periodo di prova, dopo di che il rapporto si stabilizza in ogni caso),

                consente al lavoratore di impugnare comunque il licenziamento -per abuso del relativo potere- , asserendo di non essere stato posto dal datore nella condizione di effettuare la prova nelle mansioni per le quali era stato assunto, o comunque per un tempo sufficiente a dimostrare le proprie capacità.

                Comunque, anche qualora una tale impugnazione abbia successo, essa non dà titolo a richiedere l'applicazione dell'ordinario regime sanzionatorio, e in specie dell'art 18 St. Lav., bensì soltanto ad un risarcimento dei danni, in un importo di solito non rilevante

                (ad es. se il licenziamento è stato disposto a periodo di prova non ancora concluso, il risarcimento può essere commisurato alle retribuzioni che sarebbero spettate nei residui giorni di prova).

                Infine un'ipotesi di recesso ex art 2118 è il recesso che il datore di lavoro può disporre al termine del Contratto di apprendistato 15 ) .

 

Indicazioni Bibliografiche

M.V. Ballestrero (a cura di) , La stabilità come valore e come problema, Giappichelli, Torino 2007;

F. Carinci, Discutendo attorno all'art 18 dello Statuto dei Lavoratori, in Riv. it. dir. lav. 2003, 1, 35 .

R. Del Punta, La stabilità reale nell'epoca dell'instabilità, in Diritti lavori mercati, 2011, 753 .

P. Ichino, La stabilità del Lavoro e il valore dell'Eguaglianza, in Riv. it. dir. lav., 2005, 1, 7 .

F. Liso, Appunti sulla riforma della disciplina dei licenziamenti, in Riv. it. dir. lav., 2002, 1, 169 .

A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell'art 18 Statuto dei Lavoratori , in Riv. it. dir. lav., 2012, 1, 415 .

M. Napoli, Elogio della stabilità, in Lavoro diritto mutamento sociale, Giappichelli, Torino 2002 .

L. Nogler, Licenziamenti individuali e principi costituzionali, in Giorn. dir. lav.rel. ind., 2007, 593 .

I. Pagni, Diritti del lavoro e tecniche di tutela: problemi e prospettive , in Riv. it. dir. lav., 2005, 1, 489 .

P. Tullini, Contributo alla teoria del licenziamento per giusta causa, Giuffré, Milano, 1994 .

 

NOTE

1 : V. sez. V, cap. X, § 3.

2 : V, infra § 5 .

3 : V. sez. V, cap. VI, § 3 .

4 : V. retro § 2 .

5 : V, sez. V, cap. XII, § 4-ss .

6 : Per la distinzione tra inidoneità (incapacità definitiva al lavoro) e malattia/infortunio (incapacità temporanea), v. sez. V,cap. X, § 2 .

7 : V. sez. V, cap. IX, § 2-4  .

8 : Il procedimento che si applica alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art 18, anche quando tale impugnativa presupponga la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro (ad es. la natura subordinata di una collaborazione a progetto), contempla anzitutto una prima fase urgente (ma non tecnicamente cautelare), che il lavoratore può instaurare, come per ogni lite di lavoro, innanzi al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro, e che deve essere trattata in tempi brevi e con modalità de-formalizzate, fatte salve le garanzie difensive di entrambe le parti. Avverso l'ordinanza che definisce tale fase, può essere proposta entro 30 giorni opposizione al Tribunale, sempre con una trattazione de-formalizzata e tendenzialmente veloce. Sono previsti infine il reclamo alla Corte d'Appello e il ricorso avanti alla Corte di Cassazione.

9 : V. già sez. IV, cap. III, § 2 .

10 : V. al riguardo sez. V, cap. XII, § 10 .

11 : A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto si intende risolto (v. art 18, c 1) qualora il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione di cui all'art 18, c. 3 .

12 : V. sez. V, cap III, § 5 .

13: V. infra, § 8.2  .

14: L'art 24 c 4, citato nel testo, recita : L'efficacia delle disposizioni di cui all'art 18 della legge 20 maggio 1970 n 300 e successive modificazioni, opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità . La disposizione è tecnicamente sbagliata in quanto sembrerebbe estendere a tutti i lavoratori anziani, prima del conseguimento del limite massimo di flessibilità per l'accesso alla pensione, la tutela di cui all'art 18 St Lav, il che accade invece soltanto se ricorrono i requisiti di applicazione di tale disposizione. A parte questo, la norma di cui al testo, supera il mero riferimento alla titolarità dei requisiti per la pensione di vecchiaia, di cui all'art 4 e 2, legge n 108/1990, e sembra abrogare implicitamente anche il meccanismo che richiedeva ai lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici l'espressione di una opzione per conservare, ma al massimo fino ai 65 anni, il regime di tutela reale ed obbligatoria, contro i licenziamenti.

15 : V. sez. VI, cap. IV, § 2 .

 

FINE

 

 

 

 

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