STORIA DI UNA VICENDA GIUDIZIARIA CHE PORTA ALLA ESECUZIONE CAPITALE

Da Il-Cortile.it. net 10-2-09

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Eluana

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                Una linea retta che all’improvviso impazzisce. E viene non solo deviata, ma completamente ribaltata con un colpo poderoso, che le imprime una direzione esattamente inversa a quella fin lì percorsa e che si collocava nella tutela costituzionale del diritto alla vita.
È il diagramma della vicenda giudiziaria di Eluana Englaro avviata 10 anni fa dal padre Beppino, che ha sempre chiesto di interrompere l’alimentazione effettuata via sondino nasogastrico. Nei primi sette anni ha collezionato sette sentenze contrarie in altrettanti tribunali della Repubblica di ogni ordine e grado.

                 Finché gli stessi principi contenuti nella nostra Carta e per anni ritenuti validi per non concedere al padre l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione, vengono improvvisamente capovolti nella sentenza dell’ottobre 2007 della prima sezione civile della Cassazione che con una singolare intepretazione riapre il caso, rinviandolo in Corte d’appello a Milano.
 

                Da lì inizia il percorso a tappe che ha portato la giovane donna fino alla casa di riposo «La quiete» di Udine: il lunghissimo decreto della prima sezione civile della Corte d’appello milanese del luglio 2008 che autorizza il distacco del sondino e descrive con dovizia di particolari le fasi che dovranno portare alla morte della giovane.

                 Altri due passaggi successivi si collocano sulla stessa linea e dal punto di vista giudiziario chiudono la questione: il no della Cassazione del 13 novembre 2008 che respinge a sezioni unite il ricorso della Procura generale ambrosiana, dando l’ultimo via libera alla fine dell’alimentazione di Eluana. E la delibera del Tar regionale lombardo che cancella l’ordinanza della giunta Formigoni che aveva vietato agli istituti sanitari di Lombardia di accogliere la donna per l’esecuzione della sentenza.
Sette no delle toghe contro un si, in sostanza. E altri tre pronunciamenti che spalancano la porta e oliano il percorso che porta Eluana a Udine. Non basta riassumere, occorre esaminare bene non solo l’iter giudiziario, ma conoscere meglio chi ha scritto decreti e sentenze. Perché la vicenda di Eluana Englaro, come fanno capire gli orientamenti espressi da alcune delle toghe coinvolte, introduce l’eutanasia a colpi di sentenze in Italia in assenza di una legge.

                L'inizio di tutto. Partiamo dagli anni immediatamente successivi al drammatico incidente d’auto del 18 gennaio1992 a Lecco, nel quale, per un grave trauma cranico, la ventunenne Eluana viene rianimata, ma cade in stato vegetativo. Per la nutrizione le viene applicato il sondino. La giovane nel frattempo viene interdetta e, nel 1997, il padre  viene nominato tutore. L’anno prima Beppino ha incontrato il neurologo Carlo Alberto Defanti, membro della laica consulta di bioetica, e lo porta nella clinica di Lecco a visitare la figlia. Egli sostiene l’irreversibilità delle condizioni di Eluana che, in quello stato, lo ha ripetuto anche in questi giorni, non sente più nulla e vive alla stregua di un vegetale. È sempre Defanti l’autore delle perizie del 1996 e del 2002, accolte dalla Corte d’appello di Milano lo scorso luglio.

               Papà Englaro avvia a fine anni '90 la lunga battaglia legale per sospendere la nutrizione. Lo ispirano le convinzioni di medici e scienziati della Consulta, per i quali il sondino si configura come vero e proprio accanimento terapeutico e non un atto dovuto. È uno dei cardini sui quali si giocherà la battaglia nelle corti.
 

               Le prime tappe, i primo «no». Il primo tentativo risale al 1999. Il 19 gennaio il padre-tutore chiede per via giudiziaria l’autorizzazione all’interruzione dei trattamenti vitali. Ovvero, sospendere l’alimentazione. La giovane, secondo il padre, si troverebbe infatti in uno stato contrario alle proprie volontà. Avrebbe espresso a genitori e ad amici qualora si fosse trovata in uno stato simile al coma, la volontà di morire. Ma il ricorso si conclude con il rigetto dell’istanza da parte del Tribunale di Lecco il 2 marzo 1999. Per i magistrati lecchesi non si può rifiutare l’alimentazione perché non è assimilabile a una cura. Nove mesi dopo arriva la conferma a opera della Corte d’Appello di Milano. Che il 31 dicembre 1999 scrive: «deve considerarsi l’assoluta prevalenza del diritto alla vita». Beppino Englaro non demorde. Ricomincia l’iter giudiziario per rifiutare l’alimentazione alla figlia. Ma ancora senza successo, perché la linea della magistratura lecchese non cambia. Al nuovo tentativo del tutore di ottenere l’autorizzazione a sospendere alimentazione e idratazione, fa seguito il rigetto del Tribunale il 20 luglio 2002. Confermato ancora una volta in Corte d’Appello a Milano il 18 dicembre 2003.

                «Il ruolo giuridico del tutore – sostengono stavolta i giudici – non è compatibile con la compromissione del valore supremo della vita, la cui difesa è sottinteso generale dell’intero ordinamento giuridico». Contro la decisione, Englaro presenta ulteriore ricorso a Roma, in Cassazione. Ma anche la Suprema Corte, il 20 aprile 2005, respinge l’istanza perché manca «ogni contraddittorio sul miglior interesse della tutelata e impone la nomina di un curatore speciale che la rappresenti nella richiesta relativa alla sospensione dei trattamenti alimentati». In sostanza, in quanto semplice tutore e non curatore speciale dell’interesse di sua figlia, Beppino non può chiedere la sospensione delle cure.

                 Entra allora in scena uno dei protagonisti della svolta, l’avvocato Franca Alessio, nominata curatrice speciale. Lecchese, studio nella centralissima via Roma, dovrebbe fare lei da contraltare alle richieste di papà Englaro, tutelando gli interessi dell’assistita. Formalmente lui è reclamante e lei resistente. Ma il legale presta adesione alle istanze del tutore e collabora con il padre nel recuperare ad esempio le testimonianze delle tre amiche, alle quali Eluana avrebbe confidato in diversi momenti di preferire la morte allo stato vegetativo.

                «Eluana mi ha parlato di Alessandro, un suo amico in coma per un incidente di moto. Mi aveva confidato che secondo lei era meglio se fosse morto perché quella non poteva considerarsi vita». Così testimonia Francesca Dall’Osso, oggi avvocato a Lecco. Altri episodi sono raccontati da Laura Portaluppi e Cristina Stucchi. C’era anche un quarto amico che è stato ascoltato, Nicola Brenna, anch’egli avvocato a Lecco. Ma la sua testimonianza non è stata messa agli atti. Ci risulta che a lui Eluana non avrebbe detto nulla al riguardo. Tuttavia le testimonianze non producono ancora esiti. La Corte d’Appello di Milano con il decreto del novembre 2006 conferma quanto già deciso dal Tribunale di Lecco l’anno prima e dichiara inammissibile il ricorso perché «nel caso di un paziente non più in grado di intendere e volere, occorre verificare la sua pregressa volontà». Qualora questa non sia certa, deve essere effettuato un bilanciamento tra diritto all’autodeterminazione e diritto alla vita che, «in base a dati costituzionali e normativi deve risolversi a favore del diritto alla vita e non della morte del soggetto».

                Il 16 ottobre 2007: tutto cambia. Arriva il 16 ottobre del 2007. Data importante. A Roma accade qualcosa di nuovo e sorprendente: ribaltando la sentenza del 2005, la Sezione prima civile della Suprema corte, presieduta da Maria Gabriella Luccioli, annulla il decreto della Corte d’Appello del 2006 e rinvia tutto a un nuovo processo, sostenendo che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare la sospensione in presenza di due circostanze. Primo, la condizione di stato vegetativo del paziente apprezzata clinicamente come irreversibile e l’accertamento, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.

                Secondo i resoconti giornalistici, nulla lascia presagire l’esito finale. Anzi, il sostituto procuratore generale nella sua requisitoria Caliendo, chiedendo il rigetto del ricorso di Englaro, ha esposto le argomentazioni accolte per sette anni dai tribunali: «Il trattamento al quale è sottoposta Eluana è difficile da qualificare come sanitario, in quanto si tratta soltanto della somministrazione del nutrimento. Il nostro ordinamento tutela più di ogni altra cosa, il valore supremo rappresentato dal bene della vita, ancor più del valore della dignità umana: la decisione se vivere e morire e come vivere e morire deve essere lasciata alle persone direttamente interessate e non ad altri».

                Ma la presidente Maria Gabriella Luccioli, prima donna ad arrivare alla Suprema Corte e a ricoprire quella carica tra gli ermellini, vuole innovare. Come scrive il Corriere della Sera dell’11 luglio 2008, nella sua carriera ha già riscritto il diritto di famiglia a colpi di sentenze, probabilmente ora tocca al fine vita. E quel giorno di autunno ribalta tutto, sostenendo di attenersi al dettato costituzionale che tutela il diritto del paziente di non curarsi, in questo caso prevalente su quello alla vita. Il magistrato però dichiara, sempre al quotidiano milanese, quali sono gli obiettivi politici: «In effetti non esiste in Italia una legge sul testamento biologico, ma spetta ai parlamentari decidere cosa fare. Noi magistrati abbiamo fatto il nostro, non potevamo fare altrimenti. Adesso il legislatore faccia il suo. Se vuole».

                A ruota la "sentenza" della Corte d'Appello di Milano. Le linee di indirizzo del procedimento ora sono cambiate. La sentenza del 9 luglio 2008 si inserisce nel nuovo solco. Primo, si accolgono solo le perizie mediche di Defanti che accertano l’irreversibilità di Eluana, senza ulteriori accertamenti. Soprattutto, viene autorizzata dalla corte presieduta da Giuseppe Patrone la sospensione dell’alimentazione, attenendosi alla raccomandazione della Cassazione di tenere conto, nella determinazione delle volontà di Eluana, «della sua personalità del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche». Quelle prove orali giudicate in precedenza generiche e insufficienti, divengono ora attendibili e indicative della volontà della paziente. Questa è la novità. Di conseguenza, davanti al prevalere della volontà, passa in secondo piamo il fatto che l’alimentazione non sia un atto terapeutico.

                Il modo di determinare la volontà di morire con testimonianze lontane nel tempo è un’anomalia, commentano diversi giuristi, dato che nella nostra giurisprudenza la forma scritta è l’unica garanzia per una più certa formulazione della volontà.

                La stessa Suprema Corte, ad esempio, nell’ambito del diritto di non curarsi di pazienti testimoni di Geova, ha riaffermato l’obbligo del medico di salvare la vita, anche contro la volontà del soggetto e le sue credenze religiose. In queste decisioni si legge che qualora il paziente si trovi in stato di incoscienza, la manifestazione del «non consenso» a un determinato trattamento sanitario, ancorché salvifico, dovrà ritenersi vincolante per i medici soltanto se contenuta in «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».

                Torniamo a Eluana.

                La Cassazione «si lava Il 13 novembre la Cassazione respinge il ricorso del procuratore milanese autorizzando definitivamente i medici a sospendere l’alimentazione. Il 26 gennaio 2009 il Tar lombardo si pronuncia contro la giunta regionale: non si può vietare alle strutture della regione di sospendere l’alimentazione, come previsto dalla Cassazione. È interessante notare che uno dei magistrati del Tar, Dario Simeoli, estensore della decisione in un articolo sulla rivista "Giustizia civile" del 2008 ha già affrontato il caso Englaro elogiando la sentenza della Cassazione perché prefigurava l’eutanasia passiva. Le norme impongono l’astensione dal giudizio in questi casi. Perché allora ha scritto la delibera? Resta uno dei quesiti da chiarire nella lunga e strana vicenda di Eluana nelle nostre aule giudiziarie.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             

Paolo Lambruschi

 

                 

FINE

 

 

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