( Adattamento escludente ogni manipolazione del testo , da :
http://Web.tiscali.it/donemilio/lettere.htm )
INDICE
1. Lettera di Pasqua agli amici : 1993
2. Lettera di Pasqua agli amici : 1994
3. Lettera di Pasqua agli amici : 1997
4. Lettera di Pasqua agli amici : 1999
1. Lettera di Pasqua agli amici : 1993
CRISTO RISORTO E' IL SENSO DELLA NOSTRA VITA:
SIAMO PERTANTO NELLE SUE MANI E NON PIU' IN BALIA DELLE ONDE.
Cristo del Delfinato, secondo un originale del XVI secolo
Un filo sottile, tenace, così Anna, ex alunna del Virgilio, definisce le mie lettere agli amici; e aggiunge che queste lettere l'hanno sempre aiutata a ricucire gli strappi del tempo. Quando, più di trent'anni fa, incominciai a scriverle, queste lettere erano destinate unicamente ai giovani del Virgilio di Roma, poi di anno in anno la cerchia degli amici si è estesa a macchia d'olio; e questo filo sottile, senza suo merito, ha finito per diventare come l'ordito di una trama sul telaio. A proposito, quante volte in Anatolia ho visto le donne lavorare al telaio come lavorava san Paolo, che si definiva tessitore di tende. E non è forse venuto a ricucire gli strappi del tempo, l'Eterno che è entrato nella storia facendone la sua veste di carne? Il Verbo che si è fatto carne è la Parola uscita dal silenzio, ed è venuto a dare il vero senso alle nostre parole.
Anna ricorda di Vernazza, cuore delle Cinque Terre, un porticciolo a misura di barca e un microscopico molo per attraccare le barche alla sera, e l'anima. Noi tutti siamo in piccioletta barca, direbbe Dante, affidati alle onde del mare, talora tempestoso, di questa vita. Il sentimento della nostra fragilità, che sempre deve accompagnarci, non può mai essere disgiunto dall'audacia con cui si deve affrontare il mare, e insieme da quella nostalgia che ai naviganti intenerisce il cuore e accende più vivo il desiderio di ritrovare l'attracco per gustare ancora il sapore del pane di casa, più forte del sapore del mare. Quanto più ci si rende conto del tempo che inesorabile fugge, più vivo si fa il bisogno di attraccare la barca, e l'anima, ad una fune più solida. Non solo il tempo, ma tutto fugge via velocemente, e occorre essere ben ancorati all'Eterno. Non possiamo non amare il tempo, il nostro tempo. Beato chi lo vive intensamente e generosamente, gettando l'àncora oltre il velo, nel gorgo profondo di quel mirabil regno che solo amore e luce ha per confine, dove il Cristo ci ha preceduti come il primo dei risorti.
Penso alle donne smarrite davanti al sepolcro vuoto. In un primo momento sembrò loro che ogni speranza fosse perduta, che la vita fosse stata per sempre ingoiata dalla morte. In realtà la morte e la Vita si scontrarono in un formidabile duello, in cui la morte fu sconfitta per sempre, anche se talora sembra dominare la scena di questo mondo. E' risorto Cristo, mia speranza, canta la Chiesa con Maria Maddalena. E' risorto Cristo primizia della nostra risurrezione. E se uno è in Cristo, assicura Paolo, egli è una creatura nuova, capace sempre di cose nuove, nell'attesa di quel giorno in cui il Cristo dirà: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose ". Ma fin d'ora non siamo più in preda alla morte perché Cristo è risorto ed è giusto ed è bello accogliere l'invito profetico: "Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo" (Is 52,9). Il Signore ci assicura che un giorno asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi, ma fin d'ora, col suo primo dei segni ci fa gustare il vino delle nozze. Già fin d'ora Paolo ci dice: "Tutto è vostro, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio" (1 Cor 4, 22-23).
Ciascun anello di questa catena è saldato l'un con l'altro. Fra questi anelli c'è la vita come dono di ogni giorno, e la morte, compimento dei giorni che passano, apre la porta del Regno. Gli anelli della catena stanno saldamente uniti se noi siamo di Cristo, e se ogni giorno più ci ancoriamo in lui. L'Agnello della nostra Pasqua, che è diventato il bel Pastore che ci guida, assicura che niente e nessuno potrà strapparci dalla sua mano. Egli dunque mi tiene saldamente in mano. La mia vita è nelle sue mani. Non più in balìa delle onde. Sono nelle mani che mi hanno plasmato, nelle mani che sono state inchiodate alla croce, nelle mani che spezzano il pane della comunione e della vita senza fine.
Roma, Pasqua 1993
2. Lettera di Pasqua agli amici : 1994
Il mulino mistico, Vézelay, XII sec.
Il mulino mistico è il più bel capitello simbolico della cattedrale di Vézelay, tappa fondamentale del pellegrinaggio sulla Via Lattea che conduceva a Compostela. Un uomo, con un vestito corto e con calzali, versa grano in un mulino mentre l'altro, stempiato, con i piedi nudi e vestito con una toga ampia, raccoglie la farina. Il primo dei personaggi rappresenta il profeta Mosè: il grano che egli versa, l'Antica Legge ricevuta sul monte Sinai; il mulino che macina il grano è figura di Cristo (gli assi della ruota formano una croce); l'uomo che raccoglie la farina, è l'apostolo Paolo e la farina rappresenta la Legge Nuova. La legge di Mosè conteneva senz'altro la verità, ma era una verità oscura, nascosta come la farina nel grano. Attraverso il sacrificio di Cristo sulla croce, è stata trasformata in farina assimilabile la nuova legge del Vangelo, che san Paolo ha avuto il compito di raccogliere e distribuire. La profondità teologica e la bellezza di questo capitello lo fanno attribuire all'autore del grande timpano del nartece. La cattedrale di Vézelay è dedicata a Maria Maddalena, la peccatrice redenta, colei a cui molto fu perdonato perché molto aveva amato, ma anche il primo testimone della Risurrezione. E' sulla sua bocca che la liturgia pasquale pone l'accento festoso: E' risorto Cristo mia speranza!
Ho davanti agli occhi due immagini: l'albero dalle lunghe radici e la casa costruita sopra lo roccia. Il profeta Geremia parla dell'albero che "verso la corrente stende le sue radici" e "non smette di produrre i suoi frutti". E' chi giorno e notte medita la parola di Dio, e non si lascia frastornare dalle chiassose parole umane. Gesù in Matteo parla di "chi ascolta e subito accoglie con gioia la Parola, ma non ha radice in sé ed è incostante". Chi invece è ben radicato nella parola di Dio è come l'albero che, avendo lunghe radici, non teme né siccità né uragano. E' come la casa costruita sopra la roccia; "cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde perché era fondata sopra la roccia". E invece la casa costruita sopra la sabbia, viene spazzata via.
Ho assistito recentemente qui a Vernazza a ripetute e furiose mareggiate, che per ore e ore hanno flagellato le scogliere delle Cinque Terre, e ho avuto modo di apprezzare la saggezza degli abitanti, che hanno costruito le loro case e la loro chiesa non sulla sabbia, ma sopra la roccia. Ma penso anche a quanti hanno costruito sulla sabbia. L'uragano che si è abbattuto sul nostro Paese, è stato come un severo giudizio divino. Non ha risparmiato niente e nessuno. Ho ricordato: "Ha nella mano il ventilabro per mondare la sua aia; raccoglierà il suo frumento nel granaio e brucerà la pula con fuoco inestinguibile". Ricordo le rovine accumulate dalla guerra; ma ora l'insidia è più sottile e il verme roditore più subdolo. Per tanti anni si è vissuto in un clima di euforia e di falsa sicurezza, come al tempo in cui il profeta Geremia ammoniva a non riporre le proprie sicurezze nel tempio e a riporre invece la speranza nel Dio vivente: il tempio era diventato un idolo, una menzogna e fu spazzato via. Dopo l'esilio il tempio fu ricostruito, divenne ancor più sontuoso e tornò l'idolatria con le false sicurezze. "Non resterà pietra su pietra". Il severo giudizio divino si attuò. Ma prima ci fu il grande evento di Pasqua. Nel momento stesso in cui il Cristo dalla croce lanciò un forte grido e spirò, il velo del tempio, che chiudeva l'accesso al Santo dei santi, si squarciò in due dall'alto in basso, per annunciare che una via nuova e vivente si era aperta nella sua carne, la via al Padre per tutti gli uomini.
Dovevano perciò cessare tutte le discriminazioni razziali e religiose, culturali e sociali, che le strutture del tempio tendevano a conservare. E quando il soldato romano vibrò il colpo di lancia nel costato di Cristo che pendeva dalla croce, allora si aprì la sorgente della vita compiendosi la profezia: "Attingerete con gioia alle sorgenti della salvezza". Allora nella croce si manifestò l'albero della vita. Nel paradiso il tentatore aveva insinuato: "Se ne mangiate, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio". Si aprirono sì, i loro occhi, ma sulla loro vergogna. Ora invece possiamo cogliere il vero frutto dall'albero della vita. Come i due discepoli di Emmaus aprirono gli occhi e riconobbero il Signore, quando a tavola spezzò il pane, anche a noi, che partecipiamo al banchetto pasquale, è concesso di aprire gli occhi e di riconoscere il Signore vivente nella nostra stessa carne. E se davvero i nostri occhi si aprono e riconosciamo il Signore nel mistero dell'altare, impariamo a riconoscerlo dovunque lo incontriamo e in chiunque egli rivela e insieme nasconde il suo volto, il volto del povero bambino di Betlemme, il volto radioso del Tabor e il volto irriconoscibile del Getsemani e della Via Dolorosa.
Riconoscere lui vuol dire imparare a conoscerci meglio fra noi; imparare ad accettarci vicendevolmente così come siamo, con la nostra radicale povertà e con il mistero impresso in ciascuno; imparare a donare con gioia e insieme a ricevere con umiltà, "gareggiando nello stimarci a vicenda". Sapendo poi che il Signore e Maestro si è messo in ginocchio con profondo rispetto davanti ai discepoli, non escluso Giuda, per lavare loro i piedi, e ha detto di essere venuto non per essere servito ma per servire, e ha preso davvero l'ultimo posto, dichiarando che egli è in mezzo a noi come colui che serve, appare ridicola nei suoi discepoli la gara per primeggiare, la corsa al potere in nome del servizio, l'avidità del denaro, questa sordida farina di idolatria, la spregiudicatezza machiavellica.
"E se mala cupidigia altro vi grida uomini siate e non pecore matte, sì che il Giudeo di voi tra voi non rida!" (Par V, 78-81).
Non è più il Giudeo che può ridere dei cristiani, bensì il non credente, presente in mezzo a noi e in ciascuno di noi, può ridere dei credenti, che talora sono davvero come penna ad ogni vento, come alberi senza radici, come case costruite sopra la sabbia. Il credente più che mai deve sapere che la fede è un dono gratuito e immeritato, e non un privilegio discriminante, semmai una ricerca di Dio per tutta la vita. Perciò non dovrà mai dimenticare che il suo compito è di essere lievito umilmente mescolato alla pasta e insieme lucerna che non cessa di far luce nelle ore più buie; senza mai dimenticare però che lui non è la luce. Come tutti, sperimenta, anche dentro di sé, le tenebre, perciò invoca umilmente il dono della luce, e si lascia illuminare ogni giorno dalla parola di colui che è la vera luce, che illumina ogni uomo. Soprattutto non potrà mai dimenticare che non v'è superiorità d'uomo sopra gli altri uomini, se non in loro servizio, e sarà sempre disposto a rendere conto a tutti della speranza che è in lui, la quale non è suo possesso esclusivo, poiché tutti sono chiamati alla medesima e unica speranza; e perciò l'uomo di fede saprà rendere testimonianza, con profondo rispetto del mistero che abita in ogni uomo, in modo tale che nessuno si senta escluso dalla grazia e tutti si sentano invitati al convito nuziale di Pasqua.
E come ci si può rassegnare a vedere vuoti accanto a noi i posti di tanti che, come noi e meno indegni di noi, sono stati invitati alle nozze? C'è da chiedersi se non siamo, anche noi, con la nostra scarsa attenzione agli altri e la nostra presuntuosa sicurezza, a tenerli lontani. Quanti uomini di buona volontà, giovani e non più giovani, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia, come lo attesta il loro generoso amore fratello e la loro fame e sete della giustizia, rimangono lontani o si sentono esclusi! Se sapessero che manca sempre qualcosa alla gioia del Signore, finché alla sua tavola ci sono posti vuoti! Non è egli forse morto per tutti? E la vocazione dell'uomo non è effettivamente una sola, quella divina? "Perciò dobbiamo ritenere - dice il Concilio - che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale".
Roma, Pasqua 1994
3. Lettera di Pasqua agli amici : 1997
L'antico e il nuovo Adamo, scultura della Cattedrale di Chartres (sec. XIII)
La scultura rispecchia il pensiero di San Paolo: "il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne Spirito datore di vita. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste" (1 Cor 15, 44-49). Tertulliano dice che quando il Creatore modellava con la creta il primo uomo pensava a Cristo, l'uomo che doveva venire. In realtà il primo uomo è Cristo. La vera immagine di Dio è Cristo, e l'uomo è stato fatto a immagine di Cristo. "Cristo è immagine dei Dio invisibile, generato prima di ogni creatura. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti" (Col 1, 15-30).
L'anno scorso a Vernazza alcuni giovani vollero ripristinare la processione del Cristo morto secondo la migliore tradizione dei padri. Dal punto di vista folkloristico fu un avvenimento. Anche da fuori accorsero in molti ad assistere allo "spettacolo". Uso il termine preciso che usa Luca quando racconta la crocifissione del Signore. Racconta che molti a Gerusalemme erano accorsi al luogo del Cranio "per assistere allo spettacolo"; ma poi aggiunge che "se ne tornarono a casa battendosi il petto". Quello spettacolo li aveva sconvolti e coinvolti totalmente: non erano rimasti semplici spettatori. Cominciarono a rendersi conto che quella morte li riguardava, che quel sangue era versato anche per loro.
Non si può infatti assistere alla morte del Signore senza attendere "il terzo giorno", per festeggiare la sua risurrezione. Certo i padri, che iniziarono la processione del Cristo morto, non si limitavano a piangere un morto, ma si preparavano all'incontro con il Vivente. Non limitarsi a piangere il morto, ma fare festa entrando in comunione col Vivente, questo era per loro fare Pasqua. Infatti, alle donne che il terzo giorno si erano recate al sepolcro con aromi per onorare un morto, l'angelo disse: "Perché cercate il Vivente tra i morti?". Tuttavia, è anche vero che, secondo la redazione di Marco, l'angelo disse alle donne: "Voi cercate Gesù di Nazaret il Crocifisso? Il risorto, non è più qui! ".
Ciò vuol dire che non si può separare il Risorto dal Crocifisso, né può incontrare il Risorto se non chi segue il Cristo fin sulla croce. Anche se per ora i giovani di Vernazza non sono venuti a festeggiare il Risorto, cioè a far Pasqua come in genere l'intendevano i loro padri, tuttavia è apprezzabile il loro attaccamento alle tradizioni, e penso che il Cristo vivo, di cui hanno onorato la morte, ha posato su di essi il suo sguardo, come guardò il giovane presentatosi a lui: "fissatolo, lo amò" (Mc 10,2 1).
Ma se non ci si può fermare al Cristo crocifisso e morto, perché bisogna incontrare il Risorto, il Vivente, è anche vero che celebrare l'eucaristia significa annunciare la morte del Signore, appunto perché non si può trovare il Risorto se non si cerca il Crocifisso. La Croce non è una sconfitta e la morte è la manifestazione suprema dell'amore di Dio per l'uomo. Risuscitando da morte il Figlio, Dio dimostra di aver gradito il suo sacrificio per noi, e noi possiamo credere all'amore che Dio ha per noi, poiché egli non ha risparmiato il suo unico Figlio ma lo ha sacrificato per noi: a tal punto Dio ha amato il mondo, fino a dare il suo unico Figlio.
Quest'anno ricorre il XVI centenario della morte di sant'Ambrogio, e mi piace ricordare qui ciò che egli scrisse in occasione della morte del fratello Satiro: Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli, non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte; quando preghiamo la annunciamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l'annuale solennità del mondo.
Sant'Ambrogio ha ragione. La Pasqua non è festa soltanto per la Chiesa, ma per il mondo intero. Perché infatti il Cristo fu crocifisso fuori delle mura della città santa? Perché - spiega Leone Magno - la sua croce non doveva essere l'altare del tempio di cui non rimase pietra su pietra, ma ara mundi, l'altare del mondo. E la Chiesa esiste soltanto per questo: per annunciare questa gioiosa speranza a tutti gli uomini, perché tutti sono chiamati a questo convito di grazia; tanto che ognuno può fare propria la voce del salmo che dice a Dio: "Tu hai cambiato il mio lamento in danza, hai mutato il mio saio in abito di festa". Ma chi può veramente incontrare il Risorto, se non chi cerca il Crocifisso? Chi può veramente partecipare alla Pasqua del Signore, se non chi ha imparato a gioire con chi gioisce e a piangere con chi piange?
Ho letto De senectute di Norberto Bobbio e mi ha fatto male la sua dichiarazione: Non ho nessuna speranza. In quanto laico, vivo in un mondo cui è sconosciuta la dimensione della speranza. Sono però sempre più convinto che certi uomini, retti e onesti, sono migliori delle loro parole e penso che nessuno può vivere estraneo fino all'ultimo al mistero pasquale di Cristo. Colui che entrò a porte chiuse nel luogo dove i primi discepoli si erano rinchiusi per paura e che sempre sta alla porta e bussa aspettando che uno senta la sua voce e gli apra, possiede la chiave di ogni cuore per l'ora che solo lui conosce. "Il tuo volto, Signore, io cerco: non nascondermi il tuo volto". La voce del salmo è la voce, insistente e umile, d'ogni credente, anche per chi non riesce a credere.
Penso spesso ai due discepoli fuggiti da Gerusalemme, dove hanno assistito alla morte nel luogo del Cranio come atto finale. E' il terzo giorno, ma essi il Risorto non l'hanno visto e hanno perduto la speranza. "Noi speravamo", dicono con amarezza. Hanno perduto la speranza e li ha invasi la tristezza. Non ci può essere vera gioia senza speranza. Il Signore li raggiunge sulla via e cammina con loro, ma i loro occhi sono incapaci di riconoscerlo. Quando però, giunti al villaggio, egli "finge" di andare oltre, allora essi lo invitano, anzi "lo costringono" a fermarsi con loro. Era quello che voleva. Accetta l'invito, si mette a tavola con loro e comincia a spezzare il pane. Allora i loro occhi si aprono e lo riconoscono. Ma il cuore aveva già cominciato a battere quando lungo la via conversava con loro.
E' urgente riscoprire il significato della Via. E' urgente che i credenti si riconoscano, come i primi cristiani, "seguaci della Via". La Via non è solo una dottrina o un'etica, è innanzitutto una persona, è il Cristo crocifisso e risorto, che ci ha raggiunti e con noi cammina e con noi conversa per liberarci dalla tristezza e riconciliarci con la speranza. Aspetta sempre d'essere invitato, per spezzare il pane con noi e aprire i nostri occhi. Ma il gesto di spezzare il pane, che riassume tutta la sua esistenza, deve tradursi nella vita di ogni commensale, che impara a spezzare il pane ogni giorno con ogni uomo con cui cammina. Se solo si sapesse nell'incontro di ogni giorno ripetere il gesto di pace, diventato troppo spesso un gesto puramente rituale, come autentico gesto di comunione e di speranza, la Pasqua potrebbe uscire dal tempio e penetrare anche attraverso le porte chiuse.
Il comandamento nuovo ("amatevi come io ho amato voi"), che Gesù proclamò istituendo l'eucaristia, convito nuziale del suo amore, è l'invito più pressante a superare ogni forma di egoismo e ad abbattere ogni muro di divisione, per giungere alla vera comunione con lui e fra di noi. Dante indica come caratteristica del Regno che solo amore e luce ha per confine, la comune partecipazione al sommo Bene che rende beati: Per quanti si dice più lì 'nostro', tanto possiede più di ben ciascuno (Purg XV 55-56). Il noi della liturgia non sopprime l'io personale, ma soltanto l'individualismo che sconfina nell'egoismo. A nessuno Dio ha dato tutto, ma ha dato a ciascuno un dono da mettere in comune. Se amo ho nell'altro ciò che io non ho. Dico "Padre nostro" e chiedo ogni giorno il "nostro pane", senza pensare troppo che un terzo del genere umano soffre la fame. Così vado alla comunione con l'illusione di ricevere un bene esclusivo. Dovrei tornare da messa meno soddisfatto e andarci più consapevole. Non devo andare a messa per sentirmi a posto, ma per imparare ad amare come sono amato, chiedendomi, almeno qualche volta, se per caso il mio atteggiamento non tenga lontano dalla mensa del Signore qualcuno che come me è invitato.
Roma, Pasqua 1997
4. Lettera di Pasqua agli amici : 1999
Gesù risorto e Tommaso, Santo Domingo di Silos, bassorilievo XI secolo (Burgos)
Noto che oggi è molto diffusa l'attesa spettacolare del regno di Dio. La gente accorre appena giunge voce di qualcosa di straordinario e di miracoloso. E' certo che Gesù compì dei miracoli, ma è altrettanto certo che egli non venne per questo. Il primo miracolo lo compì alle nozze a Cana in Galilea. Prima di allora egli condusse a Nazaret, umile villaggio della Galilea, una vita del tutto simile alla nostra. Né fece mai nulla per attirare l'attenzione, tanto che i suoi compaesani furono gli ultimi a credere. "Venne in casa sua, ma i suoi non lo hanno accolto" (Gv 1,11). E proprio a Cana, dove compì il primo miracolo, ad un funzionario del re venuto a chiedergli la guarigione del figlio, non senza malinconia, disse: "Se non vedete segni e prodigi, voi non credete" (Gv 4,48). Avrebbe voluto che credessero in lui senza pretendere segni straordinari.
Ai farisei che pretendono un segno straordinario risponde che non sarà dato altro segno se non quello di Giona il profeta, e cioè il segno della sua morte e sepoltura fino al terzo giorno glorioso. Un segno distintivo che richiama il primo segno dato ai pastori di Betlemme: "Troverete un bambino avvolto in fasce e adagiato nella mangiatoia". Gli chiedono quando verrà il regno di Dio, ed egli risponde che il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, cioè in modo spettacolare, perché il regno di Dio è già in mezzo a noi. Tale discrezione risponde ad un particolare riguardo ai più deboli. Egli non vuole frantumare la canna spezzata né spegnere il lucignolo fumigante.
Durante l'ultima Cena dichiara che si manifesterà a chi lo ama. Allora un discepolo gli chiede perché vuole limitarsi a tale manifestazione silenziosa. Non sarebbe meglio se si manifestasse al mondo con tale potenza e maestà da soggiogarlo? Gesù risponde confermando il suo stile umile e silenzioso. Lo stile che definitivamente manifesta nell'Apocalisse, con il tenero accento di una lettera personale: "Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).
Tutto ciò conferma il suo stile di vita, l'umiltà che lo indusse a spogliarsi della sua gloria divina per assumere la nostra condizione umana, a scegliere anzi la condizione di schiavo facendosi obbediente al Padre fino alla morte, morte di croce. "Per questo Dio lo esaltò" risuscitandolo da morte e costituendolo Signore. La fede, insegna san Paolo, è fondata su questo: "Se con la tua bocca proclami che 'Gesù è il Signore', e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rm 10,9). Questo è il nucleo essenziale di quella fede "ch'è principio a la via di salvazione": riconoscere che Gesù Cristo è venuto nella carne, che nella carne è stato veramente crocifisso e nella medesima carne è veramente risuscitato, e che oggi vive in noi come speranza della gloria.
A ben vedere, il miracolo più grande sta nel fatto che il Figlio di Dio accettò la condizione umana in tutto simile alla nostra fino alla morte di croce. Così egli manifestò la sua gloria, che altro non è se non il suo amore folle per l'uomo. E l'unico privilegio che promette a chi lo segue è quello di bere il suo stesso calice. Prendendo posto a tavola per l'ultima cena pasquale, dichiara "Io sto in mezzo a voi come colui che serve" (Le 22,27). E promette che nel suo regno ci farà sedere a tavola e lui stesso passerà a servirci (Lc 12,37). Insegnandoci così che il metterci a servizio gli uni degli altri è l'unico modo di osservare il comandamento nuovo, cioè l'amore vicendevole. Ed è questa l'unica condizione per essere un giorno suoi commensali, serviti personalmente da lui.
Di recente sono tornato in Siria e con amici fiorentini e romani ho celebrato l'Eucaristia sulle rive dell'Eufrate, dove passò Abramo quando Dio lo chiamò. Egli partì senza sapere dove sarebbe andato a posarsi, fidandosi unicamente di chi l'aveva chiamato. Con Abramo comincia l'avventura della fede. Ma ricordo spesso anche Teresa di Lisieux, la quale dichiarò: Oh! no, io non desidero vedere il buon Dio sulla terra. E tuttavia lo amo!. Si accontentava di vivere di fede camminando nell'oscurità, in attesa della luce senza tramonto. E mi consola molto ciò che scrisse san Pietro ai primi credenti sparsi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia e nella Bitinia, i quali, come noi, non avevano visto coi loro occhi il Crocifisso Risorto: "Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui". E aggiunse anche per noi: "Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede" (1 Pt 1, 8-9).
Roma, Pasqua 1999
FINE PROVVISORIA
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