GANDOLFO EMILIO :

LETTERE DI NATALE (1993-97)

31-12-05

(Adattamento escludente ogni manipolazione del testo , da :

http://Web.tiscali.it/donemilio/lettere.htm )

 

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Lettere di Natale e Pasqua 

 

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Gandolfo Emilio: Lettere di Pasqua     

 Indice

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 INDICE

1. Lettera di Natale agli amici ~ 1993

GESU' BAMBINO E' IL SOLO CAPACE DI RINNOVARE IL MONDO

2. Lettera di Natale agli amici ~ 1994

IL NATALE CONSISTE NEL FATTO CHE DIO E' VENUTO A CERCARCI

 

E A VIVERE IN MEZZO A NOI, SE GLI FACCIAMO POSTO

3. Lettera di Natale agli amici ~ 1995

GESU' E' NATO PER TUTTI NESSUNO ESCLUSO, ED E ' VENUTO PER SPEZZARE IL PANE CON  NOI

(CIOE' PER CONDIVIDERE GIOIA E SPERANZA , ANGOSCIA E DOLORE...)   

 4. Lettera di Natale agli amici ~ 1996

PERCHE' IL NATALE DI BETLEMME SIA EFFICACE , BISOGNA CHE GESU' NASCA ANCHE IN NOI

 5. Lettera di Natale agli amici ~ 1997

I POVERI POSSIEDONO LO SPIRITO D'INFAMZIA CHE LI FA CAPACI DI STUPORE CIOE' DI ACCOGLIERE DIO E IL SUO REGNO

6. Lettera di Natale agli amici ~ 1998

IL NATALE CI FA RINASCERE PERCHE' CI FA RISCOPRIRE LO SPIRITO E LO STUPORE DELL' INFANZIA

 7. Lettera di Natale agli amici ~ 1999

GESU' CHE NASCE E' LA PORTA DELLA SALVEZZA

 

INTRODUZIONE

                Emilio Gandolfo non era solo uno che scriveva lettere di Natale e di Pasqua , ma era anche un sacerdote , e per di più esperto di studi biblici, della patristica e dei luoghi santi , dove spesso vi si recava in pellegrinaggio 1) .

                Leggendo le sue lettere , questi requisiti sono evidenti , ma ancor più capace di lasciare il segno , è la forte fede che tutte le presiede con pensieri di sintesi profonda e talvolta molto originale. Così per esempio , nella Lettera prima , il Natale è rinnovamento , nella seconda , Gesù è venuto a vivere in mezzo a noi , nella terza è venuto a spezzare il pane (cioè a condividere gioie e dolori) con noi , ma con la quarta, venne anche per nascere anche in noi , con la quinta ,  per essere accolto da noi , con la sesta , per farci rinascere , con la settima , per essere Porta unica della Salvezza .

                La sua è la parola che  si, è vero che sgorga dal silenzio , ma anche da quella coscienza unica che si forma dopo tanto studio e lavoro, e direi , dopo tanto amore del prossimo , si che per via di questo sentimento principe , il medesimo prossimo è amichevolmente penetrato sia nel vizio che nella virtù, sia nel disvalore dell'errore che nel valore della possibilità di redenzione e riscatto , come nel destino futuro .

                Nacque a Sestri Levante (Genova) il 3 novembre 1919 e morì misteriosamente assassinato nella Canonica di Vernazza (una delle Cinque terre liguri) il 2 dicembre 1999 . Fu ordinato sacerdote il 17 maggio 1942 , e entrerà poi a far parte della Compagnia di S. Paolo .

                Fatto fondamentale da tener presente , fu che negli anni 50 insegnerà religione presso il "Liceo Classico Virgilio" di Roma, ed espleterà tale insegnamento fino al 1972 , quando tornò a fare il parroco in terra Ligure.

                Questa attività di insegnante acuisce in lui sia la necessità del dialogo che della migliore comprensione del prossimo ; da qui l'idea di servirsi anche delle Lettere per coltivare l'amicizia secondo Dio , analogamente a San Paolo .

                Comincerà dunque a scrivere Lettere pasquali e natalizie e talvolta anche in occasione della Pentecoste , dall'anno 1961  fino alla sua morte  nel 1999 .

                Sono publicate le Lettere daL 1961 al 1992 , mentre verranno publicate postume quelle soprastanti dal 1992 al 99 come si deduce dalla nota 1 sottostante . Bisogna considerare però che ogni lettera, non era isolata , ma  accompagnata da una breve scelta di pagine d'autori vari (testi biblici , concilio, opere medioevali , contemporanee ..ecc.), come viene spiegato sotto alla medesima nota 1 (capoverso 3) .

1 : Ecco come nel sito soprastante,  lo descrive tale Giuseppe Ignesti , sembra , durante la presentazione del volume che raccoglie le lettere dal 92 al 99 : :

Emilio Gandolfo era un pastore molto amato ed un uomo di profonda cultura. "Una persona molto fine, dolcissima, sempre attenta alle necessità altrui, e di uno spessore culturale non comune". "Mite, dolce, accogliente nei confronti di chiunque, sempre disponibile al dialogo", "estraneo a qualsiasi banalità".

Colto e curiosissimo studioso della Bibbia e dei Padri della Chiesa, eccellente predicatore, autore di numerosi libri di patristica e traduttore, Emilio inviava ai suoi numerosi amici due volte l'anno, a Natale ed a Pasqua, un fascicolo di poche pagine, stampato con gusto fine e povero, che non rinunciava mai in copertina a un'immagine d'arte (molto spesso un particolare di una scultura romanica, soprattutto della Borgogna). Questi fascicoli, normalmente di sedici pagine, contenevano una "lettera agli amici", ed alcuni passi tratti dalla Sacra Scrittura, dai Padri della Chiesa e da opere di autori classici e contemporanei. Hanno raggiunto per quasi quarant'anni, dal 1961, migliaia d'indirizzi, scritti invariabilmente a mano da don Emilio.

Le lettere inviate agli amici dal 1961 al 1992, fino cioè alla celebrazione del 50° anniversario della sua ordinazione sacerdotale, sono raccolte in un libro ormai esaurito (Ad Deum qui laetificat iuventutem meam. Liber Amicorum, Roma 1992), che presto sarà ripubblicato, completo anche di tutti i brani, integralmente riprodotti, e di tutte le illustrazioni che le accompagnavano, in due volumi.

Questo volume, invece, che ora qui presentiamo, raccoglie integralmente i libretti spediti da don Emilio a partire dalla Pasqua-Pentecoste del 1992 fino al Natale del 1999, cioè fino alla sua morte, con le "lettere agli amici", le letture proposte e le immagini di copertina, offrendo un "percorso" di straordinaria spiritualità.

 

 

LETTERE

 

 

 1. Lettera di Natale agli amici ~ 1993

 

GESU' BAMBINO E' IL SOLO CAPACE DI RINNOVARE IL MONDO

 

 

 

 

Il Bambino che prende il latte, Pistoia, affresco del 1382

 

TESTO

 

                Virgilio definisce i liguri durum genus, gente dura, indurita dall'improba fatica di dominare la roccia e il mare infido. Forse il poeta non percorse i sentieri delle Cinque Terre, ma è probabile che abbia percorso l'Aurelia, la via consolare che s'inerpica sui dirupi a strapiombo sul mar Ligure. Viene in mente l'antico detto: "gutta cavat lapidem", l'acqua, che persistente scende goccia a goccia, finisce per scavare anche la roccia più dura. Ma c'è una durezza che nessuna acqua riesce a scalfire, la durezza del cuore. Quanta durezza di cuore han dimostrato tanti uomini di oggi, specialmente quelli che in nome di alti ideali si erano impegnati a servire gli altri e invece si sono prostituiti agli idoli del potere e del denaro, inquinando i rapporti sociali e avvelenando anche l'aria! Quanti ideali traditi e quante speranze deluse!

                Ma ecco riapparire più fulgida, in questa notte cupa, la stella di Betlemme, dalla quale gli umili come i pastori, e i saggi come i magi, si lasciano guidare. Se la croce è la cattedra del dolce Maestro, il suo insegnamento comincia dalla mangiatoia in cui viene deposto appena nato. Se il Vangelo è la buona novella recata ai poveri, qui si apprende chi è veramente il povero. Paolo ce lo ricorda in termini incisivi: "Colui che è infinitamente ricco si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà". Ecco il paradosso: ci arricchisce, non con le ricchezze di questo mondo, che non sono altro che la paglia del suo presepe, ma ci arricchisce con la sua povertà; ci arricchisce spogliandosi della sua gloria e rivestendo la nostra carne, fino a identificarsi con l'ultimo degli uomini. E' per questa via di spogliazione e di volontaria umiliazione, culminante nella croce, ch'egli ci fa dono di se stesso. Così ciascun uomo diventa ricco di lui, e in lui può riconoscere la propria inalienabile dignità. La Parola che rimane in eterno, si fa carne nel tempo, per riempire ogni carne del suo Spirito. La Parola, "rimpicciolita", ridotta alle dimensioni di un bambino appena nato, diventa l'umile goccia che scava, penetra e scioglie la durezza del nostro cuore di pietra. Per bocca del profeta aveva promesso: "Vi purificherò da tutti i vostri idoli. Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne" (Ez 36, 25-26). Se un tempo ci si era illusi che bastasse cambiare le strutture per avere un mondo nuovo, più giusto e più umano, ora diventa più chiaro che nulla di autenticamente nuovo sorgerà senza l'uomo nuovo con un cuore nuovo. C'è un netto rifiuto della furbizia gattopardesca, che vorrebbe cambiare qualcosa perché tutto rimanga come prima, il che dimostra che l'uomo vecchio non si rassegna a morire.

                A Betlemme è nato l'Uomo Nuovo, ed è nato nel cuore dell'inverno e nelle tenebre della notte. E' a questa novità che bisogna volgere lo sguardo e convertire il cuore. Questo Bambino fa ringiovanire il mondo, perché lui solo è capace di rendere nuovo l'uomo che lo accoglie e si mette alla sua scuola. Nel nostro crudo inverno e fra le tenebre che ci avvolgono, risplende la luce vera che illumina ogni uomo. C'è dunque ancora speranza per noi. Il profeta Geremia, piangendo sulle rovine di Gerusalemme, andava seminando i germi della speranza messianica: "Buono è il Signore con chi spera in lui, con l'anima che lo cerca. E' bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore" (Lam 3, 25-26). Dopo tanto frastuono di parole menzognere è necessaria una pausa di silenzio. Prima di parlare occorre far tacere ogni risentimento e amarezza, dissipare "l'ombra della carne o il suo veleno"; occorre avere un cuore purificato da ogni idolo; occorre soprattutto saper tacere per ascoltare il Verbo, che è uscito dal silenzio per insegnare prima a fare e poi a dire.

               C'è ancora speranza per noi. "... ho veduto tutto il verno prima / lo prun mostrarsi rigido e feroce / poscia portar la rosa in su la cima" (Par XIII, 133). Finita la stagione delle facili illusioni e delle amare delusioni; e sebbene ancora timida ed esile, si riaffaccia la speranza, come rosa tra le spine, come germe fragile e delicato, che bisogna coltivare con il calore d'un sincero amore. C'è ancora speranza per noi, perché ci sono in mezzo a noi umili servi del Signore, uomini inviati da Dio per rendere testimonianza alla verità. Essi sanno discernere i veri dai falsi valori, il vero Dio dagli idoli. Hanno scelto di essere poveri per essere liberi; non cedono alle minacce né alle lusinghe, non scendono a compromessi e rifiutano ogni ambiguità; amano la verità più di se stessi e sono al servizio di tutti senza lasciarsi asservire a nessuno. Sono questi i tuoi amici, o Signore, e anche i nostri. O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai miti l'eredità del tuo regno, rendici poveri, liberi ed esultanti, a imitazione del tuo Figlio, nato da Maria a Betlemme perché ogni uomo nasca a vita nuova.

Roma, Natale 1993

 

 

 

 

 

 

 

 2. Lettera di Natale agli amici ~ 1994

 

IL NATALE CONSISTE NEL FATTO CHE DIO E' VENUTO A CERCARCI

E A VIVERE IN MEZZO A NOI, SE GLI FACCIAMO POSTO

 

 

 

Autun, Cattedrale di San Lazzaro, capitello del coro: la fuga in Egitto (particolare), XII sec.

Molti dei pellegrini che erano diretti a Santiago de Compostela, partivano dalla Borgogna. All'inizio del viaggio rendevano omaggio, ad Autun, a quella che la tradizione indicava come la tomba di Lazzaro. Una selva di colonne, di pilastri, di sculture, realizzate in gran parte da Gisleberto, evocava e faceva rivivere ai pellegrini i segni della propria cultura e della propria fede. Guardando la pietra intagliata e modellata si confermavano nel Vangelo. Tra i capitelli del coro, è ricordata anche la fuga in Egitto. La scena si svolge in un bosco di palme. La Vergine è seduta frontalmente su un asino e porta in grembo il bambino Gesù, che ha una testa da adulto. La mano destra del bambino accarezza una sfera che sua madre tiene in mano. I sapienti non credevano ancora che la terra fosse rotonda; ma lo scultore di Autun lo sapeva già. Più avanti c'è Giuseppe che conduce l'asino (animale immondo per molte culture antiche ed al tempo stesso animale sacro nel mondo siriaco) portando un berretto in testa ed un arnese in spalla. Tutto l'insieme si svolge su alcune ruote decorate che significano certo la velocità della fuga, ma che simboleggiano la regalità. Viene evocato, per analogia, quanto aveva detto il profeta Zaccaria (9,9): "Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, figlia di un'asina". Nella fuga in Egitto, ci sono già i segni della resurrezione. Tutto questo ha voluto dire il maestro Gisleberto ad Autun.

 

 TESTO

 

                Ho conosciuto una mamma duramente provata, eppure serena e radiosa. Perse improvvisamente in un banale incidente la figlia diciottenne. Era sull'orlo della disperazione; ma nel momento in cui il suo cuore di madre era così crudelmente ferito, sperimentò la tenerezza dell'amore del Padre. Mi ha confidato: "Il Signore mi ha coltivata nel suo amore". Un'espressione che mi ha profondamente colpito. Per tanti anni ho insegnato religione ai giovani del liceo Virgilio di Roma e non ho mai cercato di dimostrare l'esistenza di Dio, perché non mi sembrava che ne valesse la pena. Che serve dimostrare che Dio c'è, se non c'è per me, se non credo che egli mi ama? Il Dio dei filosofi non convinceva Pascal e non convince neppure me. Né mi riconosco nell'affermazione cartesiana: "Penso, dunque sono"; preferisco dire: "Amo, dunque sono". Poiché soltanto se amo mi sento vivere e scopro la mia vera identità. E così comprendo meglio la testimonianza di Giovanni, che dice: "Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore". Penso che Agostino arrivò alla fede quando si convinse e poté dire: "Tu sei venuto a cercarmi quando io non ti cercavo, e mi hai cercato affinché io ti cercassi".

                E che altro è il Natale, se non proprio questo, che Dio è venuto a cercarmi nella notte oscura e in una squallida grotta, a Betlemme? Per scuotermi dal torpore senza incutermi timore, per toccarmi il cuore, si è spogliato della sua gloria e si è rimpicciolito fino ad assumere le dimensioni di un bimbo. Il Verbo si è fatto carne, dice Giovanni. Verbum abbreviatum, traducono i mistici medievali. A quanti l'hanno accolto, cioè a quanti hanno creduto nel suo nome, egli ha concesso di diventare figli di Dio. Ecco perché si è abbassato tanto, per innalzarmi a questa vertiginosa altezza. Ha preso ciò che è mio per darmi ciò che è suo. Pastori e magi, cioè umili e saggi, lo hanno accolto, riconoscendo in quel bimbo la grandezza di Dio. E poiché Dio è grande nell'amore, essi hanno creduto all'Amore. Anche nella notte oscura, anche nelle tenebre che avvolgono la terra, i credenti camminano "senza stancarsi" seguendo la luce della stella che splende dentro di loro. Essi non hanno la presunzione d'esser giunti al possesso di Dio, ma lo cercano umilmente, e lo accolgono come un dono assolutamente gratuito, come una lieta sorpresa sempre nuova. L'hanno trovato, ma non senza doverlo cercare ancora e sempre. Il Cantico dei cantici, che è un poema d'amore, è tutto imperniato sulla ricerca. L'amata cerca l'Amato giorno e notte, e qualche volta deve confessare: "L'ho cercato e non l'ho trovato".

                  Penso con molta simpatia a quanti non l'hanno ancora trovato e tuttavia non si stancano di cercarlo. Un giorno scopriranno d'essere stati cercati e amati da sempre. Allora si arrenderanno, non alla logica della ragione, ma alle ragioni del cuore. Giovanni dice: "Noi abbiamo conosciuto l'amore che Dio ha per noi, e ci abbiamo creduto". Egli afferma che Dio è amore, in base ad un'esperienza personale: "I nostri occhi hanno veduto, le nostre orecchie hanno udito e le nostre mani hanno toccato il Verbo che si è fatto carne". Ma noi, che non abbiamo né veduto né udito né toccato? Per noi vale ciò che, con un sentimento di ammirazione, scriveva Pietro ai primi credenti: "Voi lo amate, pur senza averlo visto, e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile". La fede è conoscenza per via d'amore: per amorem agnoscimus, dice Gregorio. Tale conoscenza diventa esperienza di vita.

                Sono grato alla mamma che con tanta semplicità mi ha comunicato la sua esperienza: "Il Signore mi ha coltivata nel suo amore ". Sono grato a Dino, un ex alunno del Virgilio, che in Olanda attende al suo perfezionamento di oncologo con vero spirito di servizio, e che, riferendosi ad una mia lettera di Natale, si propone di "realizzare lo scopo per cui è stato concepito". Mi pare che egli abbia compreso molto bene il senso del Natale. Beato chi ha visto spuntare la stella nell'oriente della propria vita e l'ha seguita fedelmente. Beati coloro che, imitando i magi, alla scomparsa della stella che li aveva preceduti, anziché scoraggiarsi continuano a cercare e scoprono una stella più luminosa, la parola di Dio. Attraverso la parola di Dio arrivano a conoscere il cuore di Dio. Non sono molti quelli che leggono la Bibbia. In compenso Dio parla agli uomini in tanti modi. Egli parla anche con il suo silenzio.

                Un salmo dice che ogni giorno Dio si affaccia dal cielo per vedere se sulla terra c'è ancora qualcuno che lo cerca. "Cercate me e vivrete!", gridava, per bocca del profeta Amos, a quanti andavano di santuario in santuario alla ricerca di segni e visioni. E' raro incontrare un vero ateo; più facile incontrare degli idolatri. E' sempre più necessaria la conversione dagli idoli al Dio vivo e vero. Egli non è lontano da ciascuno di noi. E' vicino a chi lo cerca con cuore sincero. E quanto più il mondo cresce, tanto più egli si fa piccolo. Quanto più il nostro tripudio natalizio è chiassoso e insolente, tanto più egli tace, e la sua voce è quella di un lieve sussurro che si percepisce soltanto quando anche l'anima tace a se stessa. Egli è il Verbo uscito dal silenzio.

                E noi arriveremo ad un autentico dialogo umano, se sapremo tacere di più e ascoltare più attentamente. Assistiamo ancora alla sopraffazione della parola. Il dono che egli vuol farci di se stesso esige che ciascuno sia pronto ad accogliere l'altro, il diverso, colui che un tempo era lontano, ed ora si è fatto vicino, ma aspetta che io mi faccia davvero suo prossimo. E' qui che vuol nascere, dove trova lo spazio per porre la sua tenda e abitare fra noi.

Roma, Natale 1994

 

 

 

 

 

 

 

3. Lettera di Natale agli amici ~ 1995

GESU' E' NATO PER TUTTI NESSUNO ESCLUSO, ED E' VENUTO PER SPEZZARE IL PANE CON  NOI

(CIOE' PER CONDIVIDERE GIOIA E SPERANZA , ANGOSCIA E DOLORE...)   

 

 

Moisac, Abbazia di S. Pietro, Portale, La presentazione al tempio (circa 1120)

"Ora puoi, o Signore, lasciare andare il tuo servo \ secondo la tua promessa, in pace; \ poiché hanno visto gli occhi miei la tua salvezza, \ da te preparata a riguardo di tutti i popoli" (Lc. 2, 29-30). Il fedele che si appresta ad entrare nell'abbazia di Moissac trova subito nel portale il progetto di Dio. Il vecchio Simeone, uomo giusto e pio, quel giorno mosso dallo Spirito se ne venne al tempio e vide ciò che gli era stato promesso, il Cristo dei Signore. Non c'è più il colore delle vesti a mostrarci fondamentali codici simbolici, ma l'abbraccio dei vegliando al bambino evoca subito le tante rappresentazioni dei sacrificio di Isacco, che in quei secoli viene sempre ripetuto, come atto che annuncia la venuta dei Salvatore. E' evidente che la storia della salvezza giunge ormai al suo compimento: sull'altare si compie un sacrificio nuovo. Se Abramo si accingeva a sacrificare suo figlio per un atto di amore verso il suo Dio, qui è il Padre che sacrifica il figlio come atto d'amore verso "tutti i popoli". Sull'altare, schematicamente rappresentato da una colonna, il Cristo del Signore è riconosciuto, attraverso un uomo giusto e pio che aveva lo Spirito Santo presso di sé (Lc. 2,25), come, il Consacrato, il Santo, il Sacerdote unico e perfetto: "è Lui che mi ha mandato" (Gv. 8,42). Dio proclama già, attraverso Simeone, che "questi è il mio figlio prediletto" (Mt. 3,17). A sottolineare la solennità della scena stanno, appunto, le due colombe, che già annunciano il battesimo nel Giordano: "Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo" (Gv. 1,32).

 

 TESTO

 

                In piena notte la gloria del Signore avvolge di luce i pastori che vegliano nei pascoli di Betlemme. Essi sono presi da grande spavento; ma la voce dell'angelo li rassicura: "Non temete, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo". Questa grande gioia della nascita di un salvatore è prima di tutto per i più piccoli, ma dovrà diventare la gioia di tutto il popolo. Il lieto annuncio è questo: "Oggi è nato per voi un salvatore". Sì, per voi. Senza dubbio, la bella notizia dell'evento di Betlemme dovrà giungere agli estremi confini della terra, perché la grazia di Natale è destinata a tutti gli uomini. "Pace sulla terra agli uomini che Dio ama". Nessuno è escluso dalla grazia e dalla gioia di Natale, perché Dio ama tutti gli uomini. Questo bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia era stato annunciato più di sette secoli prima dal profeta Isaia come una grande luce nelle tenebre, come dono di Dio agli uomini, dono assolutamente gratuito e inatteso: "Un bambino è nato per noi". In che senso è nato per noi? In questo bambino, ci spiega san Paolo nella notte di Natale, "è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini ". E' una grazia che vuole educare gli uomini. "C'insegna a vivere in questo mondo con sobrietà, giustizia e bontà, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, il quale ha dato se stesso per noi". Siamo qui nel cuore dei misteri che si celebrano nel corso dell'anno liturgico, da Natale a Pentecoste: dal primo vagito nella grotta di Betlemme fino all'ultimo grande grido sulla croce, Cristo ha dato se stesso per noi. E ciò manifesta l'amore di Dio per gli uomini. Ben preciso è lo scopo per cui ha dato se stesso per noi: "per formarsi un popolo puro che gli appartenga". A questo popolo è destinato l'annuncio della grande gioia di Natale. Gli umili pastori di Betlemme sono la primizia del popolo di Dio.

                Betlemme, dove Gesù nasce, vuol dire "casa del pane", e Gesù dirà di essere il vero pane disceso dal cielo per la vita del mondo; e tutta la sua vita si può riassumere in un solo gesto, quello di spezzare il pane, il gesto della comunione. E' da questo gesto che i discepoli riconobbero il Signore, ed è da questo gesto che si possono riconoscere i discepoli del Signore. Spezzare il pane significa condividere gioia e dolore, angoscia e speranza. Non si tratta di grandi gesti, ma di quei piccoli gesti di cui è intessuta la vita di ciascuno e la storia del mondo. Siamo tutti compagni di viaggio. Occorre riscoprire il significato eucaristico di compagni (cum e panis), perché l'eucaristia è precisamente condivisione dello stesso pane.

                Quanti partecipano a quest'unico pane diventano un unico corpo, il corpo di Cristo: il corpo di Cristo animato dallo Spirito santo, che è lo Spirito dell'amore. Nessuno appartiene a se stesso, ma ci apparteniamo a vicenda. E ci apparteniamo davvero, se impariamo ad accoglierci l'un l'altro come il Cristo ha accolto noi, e per amore siamo disposti a metterci a servizio l'un dell'altro. Egli infatti, essendo nato per noi e avendo dato se stesso per noi, ha accolto ciascuno di noi in se stesso, è diventato solidale con ciascuno di noi. E da lui nasce la gioia del dono scambievole, il comandamento nuovo ("Amatevi come io ho amato voi"); il comandamento nuovo che ci fa uomini nuovi, capaci di cambiare il mondo.

                I Greci avevano un grande concetto dell'amicizia. Erano arrivati a dire con Aristotele che "tra amici tutto è comune". Per essi quindi l'amicizia non era fondata sul calcolo, ma sulla gratuità. Come la grazia. Immettendosi in questo solco, Paolo dice: "Ciascuno deve dare come ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia". La liturgia bizantina si rivolge con insistenza a Dio come "amico dell'uomo". In realtà Dio non l'ha mai visto nessuno. Gesù ci ha rivelato il cuore di Dio, e la nuova alleanza, cioè il nuovo rapporto che Dio intende stabilire con gli uomini, è fondato totalmente sull'amicizia. Egli non vuole dei servi che eseguiscano degli ordini, ma vuole degli amici che condividano il suo disegno di amore e per amore sappiano mettersi al servizio gli uni degli altri.

                Ma è ancora possibile l'amicizia in questo nostro mondo in cui sembra che sul senso del gratuito prevalga il calcolo che inaridisce il cuore, che sulla gioia di donare e di mettersi a servizio gli uni degli altri per amore prevalga l'affermazione individuale e il successo? Ma che cosa diventerebbe la terra senza il fiore profumato dell'amicizia, se non un deserto arido? Nessun guadagno può compensare la perdita di questa ricchezza: poiché uno è tanto più ricco quanto più ha degli amici. Non amici potenti, ma sinceri.

                Spezzare il pane è il gesto della comunione. E i credenti non possono accettare la separazione fra culto e vita, tra quelli che entrano nel tempio e quelli che rimangono fuori, forse esclusi da chi ha la presunzione di essere detentore della verità. Anche della verità si può fare un idolo, dice Pascal. La chiesa pellegrinante non può non essere profezia di quel Regno "che solo amore e luce ha Per confine", Il Bambino è nato per tutti e perciò tutti sono chiamati, tutti sono invitati alla festa, e tutti si presentano a mani vuote a colui che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote. Tutti sono invitati a godere del dono che egli nascendo ha fatto di se stesso. Dalla sua pienezza noi tutti attingiamo. Dalla mangiatoia all'ultima cena - convito nuziale del suo amore - il suo è tutto un cammino nella logica dell'amore. Amore inteso come servizio e accoglienza, come attenzione agli altri cominciando dagli ultimi; egli accetta l'invito a nozze e siede volentieri alla mensa dei peccatori; accoglie gli emarginati e gli esclusi; abbatte ogni muro di divisione, per creare in se stesso un solo uomo nuovo.

                La gioia dilata il cuore, mentre il dolore lo restringe. Quando il cuore è in festa si sente il bisogno di condividere la gioia con qualcuno, mentre la tristezza porta all'isolamento. Ma l'apostolo Paolo insegna: "Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto" (Rm 12,15). Il pellegrino Dante, ormai vicino a l'ultima salute, guarda in giù e vede questo piccolo pianeta come l'aiuola che ci fa tanto feroci. Amarezza, risentimento? Così può apparire anche a noi questa terra tanto contesa. E se imparassimo a guardarla come la guardò Gesù quando aprì gli occhi a Betlemme e quando li chiuse sulla croce? Egli pianse guardando la sua città. Ma chi l'aveva visto prima piangere davanti al sepolcro di Lazzaro, così aveva commentato le sue lacrime: "Come gli voleva bene!". Non diverso era il significato del suo pianto sulla città santa. E il suo sguardo non si limitava a Gerusalemme, ma era aperto a tutto il mondo, a questo mondo che Dio ha amato e ama al punto da dare il suo Figlio unigenito. C'è dunque ancora speranza per noi.

Roma, Natale 1995

 

 

 

 

 

 4. Lettera di Natale agli amici ~ 1996

PERCHE' IL NATALE DI BETLEMME SIA EFFICACE , BISOGNA CHE GESU' NASCA ANCHE IN NOI

( Riassunto : Gesù è nato a Betlemme , ma se non nasce anche in noi onde diventiamo Figli di Dio , il Natale di Betlemme è inutile; occorre il silenzio capace di stupore, per fare attecchire e crescere la nascita di Gesù in noi)

 

Chathédrale St-Lazare d'Autun, La Vierge de la Fuite en Egypte, XIIe siècle

In copertina ricompare la mirabile scultura di Autun, la "fuga in Egitto" (XII sec.). Questa volta compare soltanto il volto della Vergine. La fuga in Egitto sembra la vittoria dei prepotenti sui deboli e gli inermi, sui piccoli e gli ultimi, con i quali volle identificarsi il bambino di Betlemme.
Il Manzoni, che si propose di raccontare la storia degli ultimi, ci presenta due momenti particolarmente significativi di questa storia. Il primo, quando padre Cristoforo indica ai fuggiaschi la via dell'esilio: "Vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è più sicuro per voi. E' il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuoi così. E' una prova: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade" (c. VIII).
Ben diversi sono i pensieri con cui va rassicurandosi don Rodrigo: "La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno neanche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura" (c. XI).
Dopo la fuga in Egitto la storia si deve riscrivere, cominciando dagli ultimi, con i quali si è identificato il bambino nato a Betlemme, che la persecuzione di Erode costringe a fuggire. Quante persecuzioni dopo quella di Erode! quante fughe e quante stragi di innocenti! Tanto da sembrare che gli oppressi siano in balia degli oppressori.
Ci rassicura la voce d'un salmo (Sl 3,2-4):
"Quanti, oh quanti oppressori, Signore:
troppi sono ad accanirsi su di me:
senza numero sono, e tutti a dire:
"più nemmeno il suo Dio lo salva".
Invece tu sei il mio scudo, Signore,
la gloria mia, che a testa alta mi fa camminare".

 

TESTO

 

                Alla cena dei maturandi della III E del 1972 ricevetti in dono Il Vangelo di Charlie Brown, in cui leggo: "Dio ha bisogno di uomini, non di esseri rumorosi, parolai. Dei cani egli cerca, che coi loro nasi si immergano nell'Oggi, e qui sentano il profumo dell'Eterno ". Che cosa volevano dirmi allora, quasi venticinque anni fa, quei ragazzi del liceo Virgilio di Roma? Penso che per prima cosa volessero dirmi che non si accontentavano di parole, e che se io volevo sentire il profumo dell'Eterno dovevo vivere immerso in questo tempo, attento alla voce degli uomini di oggi e cercando d'interpretarla; mi chiedevano di saper tacere e sapere ascoltare. Perché se è vero che Dio parla attraverso le Scritture, la sua parola non è mai intemporale; è sempre legata al tempo, alla storia umana, tanto che un determinato giorno, in un determinato luogo, il Verbo di Dio si è fatto carne della nostra carne, per immergersi nella vicenda d'ogni uomo e assumerla in sé.

                In realtà l'incarnazione del Verbo, che si festeggia a Natale, è l'immersione dell'Eterno nell'Oggi del tempo e della storia; storia, che da quel momento è diventata carne del Verbo. La liturgia natalizia è liturgia nuziale: il Verbo che si fa carne nel grembo verginale di Maria, è lo sposo che viene a celebrare le nozze con l'umanità. Il fragile fiore del campo, che è l'uomo, viene assunto dal Verbo che rimane in eterno. L'Eterno si è immerso nell'oggi, e l'oggi diventa eterno. Con ragione la liturgia natalizia canta: Hodie Christus natus est! Sì, oggi è nato Cristo, perché egli è nato per noi a Betlemme, e vuol nascere in ciascuno di noi. Infatti la liturgia natalizia precisa: Christus natus est nobis. "Mille volte nascesse Cristo a Betlemme - spiega Silesius - ma non in te: sei perduto in eterno". E un monaco medievale giustamente sosteneva che Cristo non è ancora nato tutto; egli "nasce ogni volta che uno diventa cristiano". Sì, perché cristiani non si nasce, ma lo si diventa mediante un'incessante e consapevole scelta personale.

                E' vero che con il battesimo Cristo nasce in noi. Silesius soggiunge: "L'opera a Dio più cara, a lui più intima, è poter generare suo Figlio in te ". E' dunque vero che Cristo nasce in te. Ma non cresce in te, se non prendi coscienza di questo tesoro che rimane nascosto in te, come, secondo la parabola evangelica, il tesoro nel campo. Solo se scavi e cerchi, scopri il tesoro. Una scoperta che è fonte di gioia. Ma troppo spesso la pigrizia, il conformismo o la presunzione impediscono questa gioia. La fede è ricerca senza fine. Credere è cercare, scoprire e accogliere il dono. Con accento provocatorio Kierkegaard asseriva: "E' difficile diventare cristiani quando si nasce nella cristianità ". Nel giorno di Natale il vangelo di Giovanni osserva che il Verbo era nel mondo, eppure il mondo non lo riconobbe; constata con dolore: "Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto"; e con grande esultanza conclude: "A quanti però l'hanno accolto, a quanti credono in lui, egli ha dato il potere di diventare figli di Dio". Per questo il Figlio di Dio si è fatto uomo, perché gli uomini diventassero figli di Dio. Questa non è presunzione; è grazia; è la grazia di Natale. Il Natale di Cristo diventa il nostro Natale. Dall'umile storia di Betlemme fiorisce il mistero dell'umana rigenerazione. Cristo diventa "il primogenito" di un'immensa moltitudine di fratelli.

                 "Credere" equivale ad "accogliere". Ma l'uomo non ha in sé la capacità di accogliere il Figlio di Dio nella sua grandezza. Per questo egli si è " rimpicciolito" tanto da essere riconoscibile solo da questo segno: "Troverete un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia". Si è totalmente "spogliato" della sua gloria, accettando fino in fondo la nostra condizione umana. Per cui l'uomo non può accogliere lui, se prima non accetta se stesso. E' detto: "Alla sera della vita sarai giudicato sull'amore". E in che consiste l'amore? "Quello che fai al più piccolo dei miei fratelli, lo fai a me ". Sì, perché egli si è identificato con il più piccolo. Anche il più piccolo ha una storia. Anzi la storia vera comincia dal più piccolo, dall'ultimo.

                Mentre un profondo silenzio avvolgeva ogni cosa e la notte era a metà del suo corso, il Verbo di Dio è uscito dal silenzio, per manifestare silenziosamente la sua amicizia per l'uomo. "Dio amico dell'uomo", è il tema dominante nella liturgia bizantina. Cristo è il Verbo uscito dal silenzio. E soltanto nel silenzio si può accogliere lui, Parola eterna. Non solo deve tacere ogni mondano rumore, ma l'anima stessa deve tacere a se stessa, per ascoltare quest'unica Parola che Dio pronuncia nel silenzio della notte, nel silenzio dei sensi e dell'intelletto, nell'intimo del cuore.

                "La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore". Questo è quello che Dio si propone anche oggi, e questa è l'esigenza profonda avvertita da molti. Il mondo è cresciuto, ma non a misura dell'uomo. Allo stupore si mescola lo sgomento. Già negli anni trenta un grande filosofo, Bergson, coglieva l'urgenza di "un supplemento d'anima" in un corpo che stava crescendo tanto rapidamente. Si avverte una grande esigenza d'interiorità. Nel mondo s'è fatto il deserto, una solitudine che può essere colmata soltanto da una presenza divina. Ma come fa Dio a parlare al cuore dell'uomo, se questo è frastornato da mille parole vuote, e soprattutto se ha perduto la capacità e il gusto dell'ascolto? Nessuno parla meno di Dio. Egli ci ha detto tutto in una sola volta e con una sola parola, dandoci suo Figlio. Egli non ha più nulla da dirci. Aspetta solo di poter generare in ciascuno questa sua unica e definitiva Parola, che è suo Figlio.

                Occorre il silenzio che consenta un ascolto capace di stupore: tendere le orecchie e ascoltare attoniti, adtonitis auribus audiamus, dice la regola benedettina. La fede è sicura soltanto se è capace di stupore, secura si adtonita, conferma Tertulliano. Di fronte al mistero si rimane stupiti e commossi. Certo, non si può non ammirare la prontezza con cui sono accorsi i pastori nella notte di Natale e la generosità dei loro doni. Tornando non la finiscono più di raccontare ciò che hanno visto e udito. Affiora la nota dello stupore, dove la parola cede il posto al silenzio. Ma l'esempio più alto è Maria. Lei è la prima discepola divenuta dolcissima maestra. Maria tace. Nessuna parola riesce ad esprimere il suo silenzio contemplativo. Ella coglie nell'evento il mistero e lo adora con giubilo. "Custodisce tutte queste cose meditandole in cuor suo". In lei troviamo la nostra anima profonda, che andiamo cercando.

               Questo, ben inteso, non è un invito all'intimismo o alla fuga dal mondo. Se nel vangelo di Giovanni leggiamo: "Era nel mondo, e il mondo non lo riconobbe", leggiamo altresì: "Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo unigenito". Noi siamo questo mondo, che può rifiutare o accogliere il dono di Dio; comunque siamo il mondo amato da Dio. Come potremmo amare, se prima non fossimo amati?

Roma, Natale 1996

 

 

 

 

 5. Lettera di Natale agli amici ~ 1997

I POVERI POSSIEDONO LO SPIRITO D'INFANZIA CHE LI FA CAPACI DI STUPORE , CIOE' DI ACCOGLIERE DIO E IL SUO REGNO

 

Dina Bellotti, Studio per "Madonna con Bambino", matita

 

TESTO

 

                Ho ritrovato dopo tanti anni la novella di Pirandello mai dimenticata: "Ciàula scopre la luna". Esattamente cinquant'anni fa mi trovavo a Lercara Friddi all'ingresso di una zolfatara, ad aspettare i minatori che stavano risalendo dal ventre della terra. Avrei dovuto rivolgere loro una buona parola; ma quando me li vidi davanti affranti e sfigurati da una fatica disumana, ogni parola mi morì in bocca. Il nostro dialogo si svolse quasi totalmente nel silenzio. Mi venne in mente anche Ciàula. Me lo vidi là seduto sul suo carico a contemplare estatico la luna, a piangere dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nella notte piena del suo stupore.

                 Come non pensare ad un'altra notte piena dello stupore dei pastori che nei dintorni di Betlemme vegliavano il gregge? Gente che, come Ciàula e i minatori siciliani, non contava nulla agli occhi dei potenti e che ad un tratto ricevettero l'annuncio inatteso di una grande gioia. Durante la veglia di Natale risuona l'oracolo d'Isaia: "Un popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce". Il profeta parla delle popolazioni della Galilea che nell'VIII secolo a.C. furono invase dagli Assiri, e sulle quali si addensarono fitte tenebre. In quelle tenebre rifulse la luce, quando Gesù fece sentire la sua voce, la voce dell'Evangelo, il lieto annunzio ai poveri.

                Solo i poveri, che conservano lo spirito d'infanzia, son capaci di stupore. Essi soli possono credere veramente al Vangelo, perché il loro spirito è in sintonia con questo messaggio. Il loro cuore, libero da ogni seduzione terrena, è aperto al fascino del divino. Essi soli possono comprendere il segno misterioso di quella notte. Chi poteva immaginare che proprio quel Bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia era il salvatore di tutti gli uomini? Eppure nessun altro segno di riconoscimento vien dato loro. Né essi pretendono altri segni. Non pretendono segni straordinari di gloria, non aspettano un Messia potente che renda giustizia ai poveri facendoli diventare ricchi; ma accettano il segno della povertà e dell'umiltà in colui che essendo infinitamente ricco si fece povero per noi per arricchirci con la sua povertà. Da quel momento la povertà accettata e amata diventa titolo di vera nobiltà. Così appare in Francesco: "Oh ignota ricchezza, oh ben ferace! ". Se "nel crudo sasso intra Tevere e Arno da Cristo prese l'ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno", il primo sigillo lo ricevette quando si spogliò dei suoi privilegi per condividere la sorte degli ultimi.

                Lo stupore accompagna sempre lo spirito d'infanzia, che è la capacità di accogliere il regno di Dio con l'animo d'un bimbo. Solo così lo si può accogliere, a questa sola condizione ci vien donato. Nessuno ha mai visto Dio e tanto meno può conquistarlo e possederlo con le proprie forze e la propria giustizia. Ma Dio, che è amore, dona liberamente e gratuitamente se stesso. Perciò può accoglierlo solo chi ha l'animo di un bimbo. Dio si è fatto bambino per noi e insieme a noi, dice Ireneo, coinfantiatum est nobis. E non è forse caratteristica del bambino lo stupore? Spontaneamente egli apre la mano per accogliere il dono, ma prima spalanca gli occhi per lo stupore davanti al dono e al donatore. La sorpresa suscita in lui lo stupore. Se poi, per sua sfortuna e non senza nostra colpa, arriva a pensare che tutto gli è dovuto, è segno che ha perduto lo spirito d'infanzia, e anche la gioia che fiorisce quando nel dono si scopre un atto d'amore. Anche la fede, nota Tertulliano, è sicura se è capace di stupore, secura si adtonita. La sicurezza d'essere amati poggia sulla speranza che non sarà delusa, sul dono immeritato e tuttavia sicuro.

                "Oh se tu conoscessi il dono di Dio!", dice Gesù alla samaritana che è venuta al pozzo ad attingere acqua e alla quale egli ha chiesto da bere. Egli che è venuto per saziare la nostra concreata e perpetua sete, si presenta come assetato che chiede l'acqua dei nostri pozzi. Chiede quello che è nostro per darci in cambio se stesso. Come a Cana di Galilea, dove invitato a nozze, compie il suo primo "segno". Anche allora non dona il vino che allieta il cuore dell'uomo senza chieder prima di riempire d'acqua le anfore. Non avrebbe potuto donare direttamente il suo vino squisito? Ma così non avrebbe reso onore alla nostra povertà. Vuole convincerci che nella nostra povertà abbiamo sempre qualcosa da donare e quanto più siam poveri tanto più siam capaci di donare noi stessi.

                Ricordo Severino, un bambino di Lerici, che nel presepe domestico aveva preparato il suo dono per i bambini più poveri nei quali imparava a riconoscere il piccolo Gesù. Era il Natale del 1943, un Natale di povertà e di paura. Ma quel giorno sulla tavola non mancava il dolce. Severino, pur essendo ghiotto come tutti, si affrettò a mettere da parte la sua porzione. La mamma insisteva perché non se ne privasse: c'era un altro pezzo che poteva donare. Ma Severino rispose che non era la stessa cosa. Aveva capito che non poteva donare se non ciò di cui liberamente si privava. Solo così gli sembrava di donare qualcosa di veramente suo, di donare se stesso. Proprio nella notte di Natale san Paolo mette in risalto il significato del gesto di Gesù, dicendo: "Egli donò se stesso". Per questo si fece povero, per non aver altro da donare che se stesso. Ci arricchisce con la sua povertà, e ciò appare chiaro a Betlemme, sulla croce e sulla mensa dell'altare.

                Ricorre quest'anno il primo centenario della morte di Teresa di Gesù Bambino, autentico modello dello spirito d'infanzia e di quella povertà di spirito, che porta a scegliere l'ultimo posto. All'opposto del fariseo che nella sua presunzione arriva a ringraziare Dio di non essere come gli altri, Teresa chiede di poter sedere alla mensa dei peccatori. Ciò le costò il buio totale, che invase il suo spirito durante gli ultimi diciotto mesi della sua breve esistenza, lasciandola fino all'ultimo priva di ogni consolazione. Queste sue parole rispecchiano bene il suo pensiero: "Alla sera di questa vita, io mi presenterò davanti a Te con le mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Tutte le nostre opere giuste sono macchiate ai tuoi occhi. Io voglio dunque rivestirmi della tua stessa Giustizia, e ricevere dal tuo amore il possesso eterno di Te stesso. Io non voglio altro che Te".

                Chi si presenta al Signore con le mani vuote, può dirgli con tutta sincerità: "Io non voglio altro che Te", sicuro che non sarà rimandato a mani vuote come i ricchi presuntuosi. Non ha nulla e si aspetta tutto. Agostino è divorato dal medesimo anelito, e come Teresa ha sempre presente gli altri, ai quali dice: "Io non voglio essere salvo senza di voi", E penso che Seneca, che scrive a Lucilio: "Nessun bene procura gioia se non è condiviso", non sia lontano dal regno di Dio.

Roma, Natale 1997

 

 

 

 

 

 

 

6. Lettera di Natale agli amici ~ 1998

IL NATALE CI FA RINASCERE PERCHE' CI FA RISCOPRIRE LO SPIRITO E LO STUPORE DELL' INFANZIA

 

Autun, Cattedrale di San Lazzaro, L'adorazione dei Magi (dettaglio), Gisleberto (1125-1145)

I Magi, guidati, come pellegrini, da una stella, vengono dall'Oriente (Mt. 2,1) e portano corone con una simbologia cosmica, i simboli di Dio, il cerchio, il centro, la rotazione creativa e ricordano che l'uomo è un microcosmo, raccoglie in sé il mondo, i diversi ordini della natura: homo quodammodo omnia (Gregorio Magno). Non cercano una verità astratta, una "sapienza" derivata da una elaborazione mentale, né da un'astrazione logica o concettuale. Vogliono esplorare e comprendere dalle "cose", dalle esperienze della vita quotidiana, anche dalla storia di un bambino. E', il capitello di Autun, uno dei rari casi in cui il bambino Gesù somiglia ad un bambino e non ad un piccolo uomo già formato. Uno dei Magi è anziano, uno è giovane e si appresta a regalare la corona al bambino, uno è di mezza età: sono le tre età dell'uomo, ma sono anche le tre età di una storia concreta del mondo che si articola con ciascun uomo. E proprio Gregorio Magno ricorda che i tempi della profezia sono tre: passato, presente e futuro. Nessuno può profetare il futuro se non conosce il passato e non vive il presente.

 

TESTO

                Il tempo non si ferma per nessuno. Corre veloce, inesorabile. Così son giunto alla bella, e non invidiabile, età di ottant'anni. Ho messo trepidante il piede su questa soglia, che è anche la soglia del grande Giubileo. Duemila anni fa nasceva in un oscuro villaggio il salvatore del mondo, colui che introdusse l'eternità nel tempo. Egli non arrestò il flusso del tempo, ma ne segnò la pienezza. E dalla sua pienezza noi tutti attingiamo.

                La liturgia natalizia canta Hodie Christus natus est! Non ieri, ma "oggi" è nato Cristo. Un "oggi" inserito nel tempo che passa, come tenero germoglio in un vecchio tronco che rinverdisce e rifiorisce. Celebrando il Natale della vita, la liturgia aggiunge: Puer natus est nobis! Egli è nato per noi, e nasce ogni volta che uno lo accoglie. Egli appartiene a noi: Omnia nobis Christus est, esclama Ambrogio; "Tutto in tutti", dichiara Paolo.

                 Nella sua carne abita la pienezza della divinità. Ma la sua carne è la nostra carne, fragile come fiore del campo. In lui tutto è nostro. Egli è nudo come ogni bimbo che nasce. Stupefacente mistero della sua nudità! Egli è nudo perché "spogliò se stesso". Solo per amore. Si spogliò della sua gloria divina per rivestire l'umile condizione umana. Si è rivestito di tutti noi. Tanto che può dire con Terenzio, e con più verità: "Sono uomo e niente di ciò che è umano mi è estraneo".

                Egli appartiene a noi, e noi, a nostra volta, ci apparteniamo a vicenda, se ci accogliamo a vicenda come egli accolse noi. Il "noi" non sottrae nulla all' "io", a patto che il "noi" non sia anonimo, ma formato di persone autentiche. Dante ci assicura che in quel regno - che solo amore e luce ha per confine - quanti più sono a dire "nostro", tanto possiede più di ben ciascuno.

                Egli ha dato se stesso quando noi eravamo ancora suoi nemici, per guadagnarci alla sua amicizia e alla causa della sua pace. Ora noi siamo suoi amici; e dalla sua amicizia scaturisce la nostra come da purissima sorgente. Egli non ci chiama più servi, legati per paura al dovere e all'osservanza, ma ci chiama amici, che condividono con lui la pace in cui è racchiuso ogni bene. "Vi do la mia pace". Non una pace qualsiasi egli ci dà, ma la sua pace.

                Noi la riceviamo come dono natalizio e gustiamo il privilegio, immeritato, di poterla trasmettere, convinti che solo comunicandola ne possiamo godere. E' bello essere strumenti della sua pace, ma lo siamo in quanto egli ci ha riconciliati nel suo sangue. "La Chiesa - dice il papa - è consapevole che la gioia di un Giubileo è soprattutto una gioia fondata sul perdono e sulla riconciliazione con Dio e con i fratelli".

                Per mia buona sorte recito ogni giorno i salmi. Anche quando li recito da solo mi sento parte di un immenso coro che incessantemente sale dalla terra al cielo come una sola voce. E' la voce dei poveri che ripongono ogni loro speranza nel Signore; è la voce dell'uomo che soffre e spera, che gioisce e ama; i salmi sono i canti del nostro pellegrinaggio verso la patria eterna. Non sempre riconosco in essi la mia voce, ma sempre vi riconosco la voce di colui nel quale si ricapitola tutta la storia dell'uomo in cammino.

                 Anch'io sono andato a Torino a rivedere la Sindone, a contemplare il volto dell'Uomo dei dolori, l'Uomo in cui l'invisibile si rende visibile, l'Eterno si rende presente. Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori. Così ha pagato il prezzo di quella pace annunziata dagli angeli a Betlemme: "Pace sulla terra tra gli uomini che Dio ama".

                Non spetta forse a noi diffondere tra gli uomini troppo spesso stanchi e sfiduciati la certezza che sono amati da Dio; amati per amare, per manifestare la sua gloria, che altro non è se non l'amore per tutti gli uomini, e che solo a questa condizione essi possono essere in pace tra loro? Il Natale ci fa rinascere, ci fa riscoprire lo spirito e lo stupore dell'infanzia, così evidente sul volto dei Magi di Autun. Il Natale è come un nuovo battesimo, una nuova immersione in Cristo, che ci fa rinascere a vita nuova. Tanto che ciascuno può dire col poeta purificato:

Io tornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle

(Purg XXXIII, 142-145)

 

Roma, Natale 1998

 

 

 

 

 

 

7. Lettera di Natale agli amici ~ 1999

GESU' CHE NASCE E' LA PORTA DELLA SALVEZZA

(La quale porta permette che il lievito e il sale permei la realtà di questo mondo)

 

Poitiers, Notre-Dame-la-Grande, (XI-XII secolo), facciata occidentale, la Natività.

 

TESTO

 

                Sono tornato a Betlemme qualche giorno fa, e ancora una volta mi si è affacciato con insistenza l'immagine di Ravi, "Rapito", il pastore che in molti presepi si presenta davanti alla grotta del Bambino Gesù a mani vuote e con gli occhi spalancati, rapito per lo stupore davanti all'inaudito prodigio dell'Altissimo che si è umiliato nella nostra carne, per renderla gloriosa e santa. Soltanto lo stupore dell'infanzia rende capaci di penetrare il sublime mistero natalizio, perché, come si esprime il Prefazio di Natale, contemplando la realtà visibile amore rapiamur, siamo rapiti d'amore per le realtà invisibili. Chi si ferma a ciò che gli occhi vedono: un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia, non giungerà mai all'Invisibile. Gesù infatti è icona del Dio invisibile. Questo passaggio è possibile solo per via d'amore: per amorem agnoscimus, insegna Gregorio.

                A Betania s'incontra spesso un tale che offre piccoli baccelli contenenti semi di senape, il più piccolo di tutti i semi, che il Signore paragona al Regno: "Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto, e diventa un albero ove gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami" (Mt 13,32). Subito dopo questa parabola, viene la parabola del lievito, che fa fermentare tutta la pasta. E' da credere che a Nazaret Gesù abbia osservato sua madre quando faceva il pane: impastava la farina con un pizzico di lievito, per farla fermentare. E' il lievito che solleva e trasforma la pasta del mondo. Ma per questo occorre che il lievito, come il sale, permei e penetri la realtà di questo mondo, occorre che il discepolo, accettando la legge dell'Incarnazione, approfitti del Giubileo per ritornare alle origini, per convertirsi dalla mentalità mondana del successo rapido ed effimero all'essenziale nudità del messaggio evangelico: è necessario che, spogliandosi da ogni seduzione degli idoli, riscopra i passi del Cristo su questa "aiuola che ci fa tanto feroci".

                  Dopo tanti anni ho riletto ciò che Bergson scrisse negli anni trenta, quando l'uomo cominciava ad illudersi di essere cresciuto e giunto ad una altezza mai prima raggiunta. Il filosofo francese, con intuizione davvero profetica, faceva osservare che sì il corpo era cresciuto ma l'anima era rimasta quella di prima e che occorreva "un supplemento d'anima". Questo è il vero problema che si pone agli uomini di oggi, e in particolare ai credenti, che lasciano alle spalle questo secolo, fiero delle sue conquiste e insieme ferito per le sue sconfitte.

                Questo secolo segnato profondamente da un evento di capitale importanza, non solo per la Chiesa: il Concilio vaticano II, che non senza divina ispirazione fu voluto da Giovanni XXIII e che Paolo VI da valente pilota guidò in porto. E' stato un invito, fervido e appassionato, rivolto a tutti gli uomini ad attingere con gioia alle sorgenti della salvezza. E che altro significato può avere il fatto che Giovanni Paolo II nella notte di Natale aprirà la porta santa? La porta è Cristo. Lo afferma chiaramente lui stesso: "Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato" (Gv 10,6). "In nessun altro c'è salvezza - dichiara a sua volta Pietro - non vi è infatti al mondo altro nome dato agli uomini, nel quale dobbiamo essere salvati" (At 4,12).

                Ma il significato della porta santa non si limita al Signore, ma si applica a chiunque voglia entrare davvero per essa. E' l'invito toccante che definisce per sempre, nell'Apocalisse, l'atteggiamento del Signore nei confronti dell'uomo: "Ecco: sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20). Quale dolce intimità ci viene offerta! Ora, se per entrare in una moschea bisogna togliersi le scarpe come segno di rispetto e di purezza, tanto più occorre la conversione del cuore per partecipare alla grazia e alla gioia del giubileo.

                Questo giubileo intende ricordare il più grande evento della storia umana: "Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi". Letteralmente si dovrebbe tradurre: "è venuto a porre la tenda in mezzo a noi". Si è fatto carne, significa che egli ha scelto la condizione umana nella sua debolezza e fragilità, nella sua provvisorietà e precarietà; tenda significa che egli è venuto a camminare con noi, nomade e pellegrino, senza fissa dimora, se non quella di un popolo in cammino verso la patria, di una carovana pellegrinante verso la città santa, la Gerusalemme celeste, che è la nostra vera patria. Il giubileo richiede autentici pellegrini, su l'esempio di Paolo, il quale diceva: "Mi sforzo di correre per conquistare la meta, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo" (Fil 3,12). Il giubileo ci fa risalire alle origini. Risalire alle origini significa anche questo: riscoprire la dimensione pellegrinante della Chiesa.

                Sia Roma che tutta la Terra Santa, appare un grande cantiere, che molti non ritengono un segno positivo, mentre taluni sognano ancora una chiesa trionfante e con nostalgia evocano una fede "ai trionfi avvezza". Ma il papa che vent'anni fa inaugurò il suo pontificato col grido: "Aprite le porte a Cristo!" e che in un primo tempo andò per le vie del mondo impugnando la croce come una spada, da qualche tempo lo vediamo appoggiarsi ad essa senza nascondere la sua infermità e umana debolezza. Fa ricordare san Paolo, che diceva: Virtus in infirmitate perficitur. Sì, la forza di Dio si manifesta pienamente nella nostra debolezza. E ci soccorre un pensiero di sant'Agostino: "Attraverso strutture provvisorie": per machinas transituras, il divino architetto costruisce domum mansuram, la casa in cui abiteremo con lui per sempre.

Roma, Natale 1999

 

 

 

 

 

FINE

 

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