10. Paolo Gironi |
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2. Marco Nofri |
11. Mauro Betti |
12. Carlo Canterini |
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15. Mario Spignoli |
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16. Paolo Testi |
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8. Paolo Cresti |
17. Stefano Scala |
Ciascuna persona viene brevemente descritta nel carattere e in qualche aspetto ricordato predominante. Infine la descrizione termina il più delle volte, raccontando qualche aneddoto.Ogni discorso si limita pertanto alla media superiore e ignora la inferiore e l'università. E dentro la media superiore è narrata solo la storia della classe V° B. La prima parte, il carattere, è presa dal ricordo degli ultimi due anni di media superiore. Invece gli aneddoti finali, riguardano tutto l'arco dei cinque anni. I nomi dei personaggi che talvolta possono comparire nella descrizione, sono tutti realmente esistiti e ancora oggi viventi. Ciascuna descrizione, pur proponendosi di dire il vero descrivendo sia le virtù che i limiti eventuali, vuole essere un omaggio ai compagni e possibilmente metterne in luce le qualità migliori che costituiscono la loro sostanza mirabile.
Gita scolastica: per le strade di San Remo 1979 -?- . |
Da sinistra a destra: Paolo Cresti, Massimo Mattesini, Angelo Mosconi. |
Ben detto quando lo chiamavano Vigorone : alto e robusto, un po pigro, col senso pratico sempre desto per cercare la via più breve per vivere più che per studiare, non amava né la fatica fisica né, probabilmente, quella dello studio. Tuttavia propendeva per l'aereomodellismo ed era tra i primi della classe perché aveva una certa memoria e buona intelligenza; onde gli bastava poco per entrare in un argomento tecnico. Diverso era se doveva commentare un poeta o redigere un tema; ma anche qui, comunque se la cavava.
Il Mattesini era di carattere calmo, ma se stuzzicato, poteva dirtene due dritte dritte, senza tanti complimenti. Allora tirava fuori una aggressività che poteva essere riconosciuta come tipica di Sansepolcro, cioè non era mai aggressivo senza un buon motivo; ma perché si arrabbiasse occorrevano delle ragioni notevoli, infatti le piccole ragioni, non bastavano.
A causa di ciò, non era facile fare arrabbiare il Mattesini. Una mattina però due personaggi esperti, ci riuscirono. Come ciò poté avvenire è presto detto: quei due (e tra poco vi dirò il loro nome) si erano messi in testa di cambiare il programma di matematica:
essi fantasticavano di andare all'università; pertanto chiesero all'insegnante di fare un programma di matematica più adatto, anzi, se ben ricordo, chiesero persino di fare in un mese il programma di una anno, per giungere subito alle matrici e integrali... . L'insegnante, poveretta, brava in matematica ma non tanto esperta in pedagogia, non sapeva che pesce prendere e come procedere oltre con la lezione, bloccata dalla rivendicazione strana e improvvisa.
Accadde perciò una discussione generale. Tutti brontolavano in classe. Finché il Mattesini, esplose con veemenza e disse: se voi volete fare i programmi approfonditi, andatevene in qualche liceo. Qui non s'approfondisce niente, e per me sono anche troppo lunghi i seguenti. Figuriamoci se perdo tempo ad allungarli.
Il lettore si chiederà dunque chi erano i due esperti provocatori, che tanto bene riuscirono. La risposta è semplice: erano lo scrivente e l'amico Canterini. Due professionisti.
2. MARCO NOFRI |
Era il più politicizzato della classe. Le sue simpatie andavano allora, a sinistra e contro la tradizione, religione compresa. Egli fantasticava spesso in un suo mondo tutto ideologico e libertino, dove è sostanzialmente l'uomo stesso, che decide cosa è bene e cosa è male, secondo la tradizione del relativismo etico.
Marco, allora come oggi, è persona buona, sostanzialmente onesta; ma l'ideologia, cattivissima committente per chiunque, allora non gli consentiva di dare tutto il meglio di se nello studio come nell'amicizia e nei rapporti umani. Perciò se studiava con scarso impegno, in proporzione allo sforzo, rendeva molto più di quello che ci si sarebbe aspettati. Figuriamoci se si fosse impegnato di brutto e al massimo: avrebbe certamente reso il doppio.
Al contrario di altri, fare arrabbiare Marco era facilissimo: bastava contraddire la sua ideologia o semplicemente la sua opinione. Bisognava prenderlo con le molle, bisognava saperlo prendere.
Quando giungeva l'ora di religione, e don Virgilio s'insiedava in cattedra, il Nofri quasi sempre capitanava il bisogno generale d'amicizia e informalità: perciò al povero prete arrivavano segnali o frasi difficili, talvolta ostili: per esempio: Non mi rompere che oggi non ho voglia; i preti parlano bene e razzolano male; non credo in Dio; Non sono scemo al punto da crederci, a me non la dai a bere, prete.... ecc. ecc. .
Il buon ecclesiastico mansueto per natura oltre che per educazione, ascoltava pazientemente aspettando il momento opportuno per riprendere il filo e il dialogo. Alla fine qualche appiglio, si trovava; la discussione partiva ed era quasi sempre nella forma della trasgressione interrogativa:
cioè tutti o quasi, dichiaravano di non voler obbedire o ascoltare il prete, poi all'atto pratico, se il discorso cominciava a interessare, tutti o quasi (e specie chi aveva poco prima dichiarato non voler ascoltare) s'avvicinavano alla sommità dell'aula circondando il povero prelato seduto in cattedra, quindi un po in piedi e un po seduti sui banchi dintorno, lo impegnavano a tutto campo in lunghe conversazioni.
In questi colloqui sfrenati, difficilmente c'èra spazio per il catechismo tradizionale; ma alla fine, se la conversazione era partecipata, nei casi migliori riusciva una specie di catechismo informale e umano, con un valore amichevole e certamente formativo.
E il messaggio che si voleva far passare, sebbene con una buona dose di inconsapevolezza, era il seguente: che il professore di religione, non poteva essere come gli altri; doveva pertanto essere denudato dalla cattedra, spinto in terra, affinché dimostrasse la sua diversità effettiva e dasse anche e specialmente, il meglio di se; quel meglio che loro malgrado, gli studentelli in cerca di modelli, non trovavano sempre nei professori ordinari, sebbene lo cercassero.
Il prete, funzionava pertanto quasi da capro espiatorio; e quando riusciva a dimostrare sentimenti e intelligenze supplementari, cioè di natura tale che qualsiasi società non poteva non riconoscerne l' ordine superiore o sublime, anche la masnada attaccante si conteneva di fronte alla maestà del dato di fatto.
3. MARIA ZUCCA |
Unica donna della classe, incarnava la correttezza e l'ordine, la discrezione, la buona educazione, il silenzio opportuno, la franchezza necessaria, la studiosità esemplare a fronte di una masnada di irrefrenabili e non sempre ortodossi.
La Maria era pertanto un esempio e un modello da seguire per tutti; qualora fossimo stati maturi per riconoscere ufficialmente tali meriti, nel segreto e nel profondo di noi stessi, avremmo potuto imparare da questo modello.
Proveniente dalla Sardegna la sua impronta un po esotica era facile da notare; e mi sembra che qui si possa dire che ciononostante non solo la classe al completo, ma tutta la scuola e finanche il paese di Pieve, si comportarono sempre da ospitali e rispettosi. La Toscana valtiberina invero, sente la Sardegna come parte naturale dell'Italia.
Mi ricordo la prima volta che ebbi a conoscerla: tornavo in classe all'inizio del terzo anno, e qualcuno mi disse: c'è anche una ragazza. Per nulla sorpreso, tirai oltre. Poi però vidi qualcosa di insolito: la neoarrivata c'èra davvero; ma anziché esplorare la scuola come ci si sarebbe aspettati da una provetta, costei non voleva perdere tempo tra una lezione e l'altra, e quale versione della Sardegna supertranquilla e laboriosa, faceva la calza con tanto di ferri e gomitolo, mentre la stufetta nel cantone e nel pieno dell'inverno, inalava domestico calore. E l'aula era ancora vuota, perché s'attendeva l'ingresso collettivo per l'inizio della lezione.
Abitava nella casa di fronte all'aula delle lezioni. Non poteva far tardi a scuola vista la vicinanza. Quando ci provava aveva chi lo correggeva a dovere: con animo, la istitutrice, ogni mattina ne controllava la puntualità, la scorta di colazione, l'eventuale quantità di libri e cose da fare. Al suo ritorno chiedeva notizie della giornata scolastica e annotava, rifletteva, consigliava. Chi era dunque questa meritevole che presiedeva alla vita scolastica e amichevole del Marini? Era la sua mamma che approfittava della vicinanza della scuola, per verificare meglio la frequenza migliore del suo figliolo.
E credo che sia stata questa materna istitutrice a chiarire a Massimo un concetto importante: che bisognava studiare per trovare in futuro un posto di lavoro. Massimo, non molto motivato al sudore e al rischio della scienza, tuttavia prese sul serio il consiglio e riuscì a diplomarsi. Credo pertanto che oggi possa essere riconoscente verso chi bene lo consigliò e verso la scuola che lo istruì.
Il Marini è persona che predilige la via semplice e pratica del vivere. Detesta pertanto le ambizioni eccessive, i grandi progetti, i calcoli che portano verso i passi più lunghi delle proprie gambe e talvolta, possono sfociare in vere e proprie astrazioni o utopie. Al contrario egli preferisce il passo misurato e più piano, l'idea sicura e l'obbiettivo facile, che si vedono e non presentano tanti rischi.
Era questa filosofia, che nelle sue accezioni quotidiane, talvolta ci regalava scenette. Una sera, usciti alla Pieve con l'insegnante per verificare la lezione teorica di selvicoltura, il Marini ci intrattenne tutti quanti. Si discorreva lungo il Tevere guidati dal prof. Mannucci, distinguendo gli ontani dagli olmi, i pini dagli abeti, gli abeti bianchi dai rossi, le latifoglie dalle conifere, il pino domestico dal marittimo e dal nero...il cedro Deodara da quello Atlantico o del Libano e via dicendo. Però siccome eravamo dietro la strada che costeggiava il fiume, era inevitabile qualche occhiata verso i passanti o le signore o signorine agghindate, che passavano.
A tal proposito, c'èra però chi poteva sottolineare il passaggio, in modo del tutto teatrale e publico, e lo faceva di tal guisa che rappresentava una vera e propria maschera in grado di intrattenere tutti quanti, perché in fondo a tutti quanti faceva comodo rilassarsi; avrete capito dunque, che questa maschera era proprio il Marini, per via dei suoi occhioni neri e bianchi che puntati su qualcosa, rappresentavano il massimo dell'enfasi; se poi eran diretti, quei fanali, su una donna, diventavano addirittura una scena da palcoscenico: allora si sgranavano, si magnetizzavano, caricavano la maschera e il conseguente senso del comico, mentre al contempo era inevitabile che sdrammatizzassero la lezione selvicolturale, costringendo tutti a ridere per un poco, chi più chi meno, professore compreso.
Proviene da una località di Caprese detta Baccanella . E' molto probabile pertanto, che i Baccanelli, li pervenuti da secoli, abbiano dato il nome al villaggio Baccanella.
Marcello è persona socievole, predilige la compagnia non solo per far buriana ma anche per lavorare: già nella scuola media inferiore, ricordo che intraprendeva con successo lavori o ricerche scolastiche di gruppo. Ovunque c'è il gruppo e il capannello, là c'è anche il Baccanelli.
Tuttavia Marcello è più astuto che filantropo; se se ne presenta l'occasione, gli altri servono più ad abbreviare sia il tempo che la fatica dello studio che ad essere esclusivo oggetto di aiuto. E ciò non è solo cercare il proprio vantaggio, ma è anche un merito: si dimostra in tal modo, anche una capacità di collaborazione, tanto necessaria per ogni studio come per ogni lavoro moderno. Però questa facoltà deriva al Baccanelli non solo dal gusto della socievolezza e della collaborazione, ma anche dal non nascondersi i difetti altrui, onde all'occorrenza li può combattere e controllare meglio conoscendoli.
Marcello attraversò le scuole dell'obbligo e le superiori, studiando pochino. Inizialmente non pensava di andare all'università. Ma nel corso dei lavori, scoprì una sua passione: la medicina. Pertanto cambiò idea e oggi la Republica italiana, ha un medico in più e un agronomo in meno.
Ricordo che alla Pieve c'èra una ragazza che gli faceva la corte . Costei aveva tutte le carte in regola, e non si capisce come qualcuno avesse potuto pensare il contrario. Purtroppo fu proprio il Baccanelli a pensarla diversamente. Infatti, un giorno se ne liberò senza scrupolo alcuno, trattandola male, con una scortesia tale, che, fatti salvi i limiti di ogni maniera ammissibile, si potrebbe dire che la trattò da mezza bestiola. E la poveretta, per conseguenza tirò innanzi peggio di un cane bastonato.
Dissi pertanto da amico a Marcello: smetti! Come vedi costei non ha commesso niente, per meritare l'eccessiva tua pesantezza.
Egli dunque rispose: E' vero! Ma in queste cose, meglio essere sinceri, e metter subito le carte in chiaro. Tuttavia non so spiegare bene il mio comportamento, nella parte eccessiva che dici.
Non ebbe mai una profondissima filosofia da studente. Come si usava dire, non voleva essere un secchione. Tuttavia amava le scienze del bosco e dei campi. Egli aveva una virtù e insieme un tallone d'Achille:
la virtù era la predilezione per la scienza applicata, poco astratta, calata nell'esempio produttivo e se possibile, tra il popolo. Egli ha sempre aspirato a studiare per trovare un lavoro, e mai forse pensò che qualcuno potesse diplomarsi e poi finire per fare un mestiere diverso dal diploma conseguito. La scuola come possibile industria di diplomi e disoccupati, era per lo più sconosciuta a tutti all'epoca; ma lo era specialmente al Goisis, per la sua particolare e misurata aspirazione a lavorare al più presto, credo anche adeguatamente inculcata dai familiari.
Il tallone d'Achille consisteva invece nell'attraversare, per motivi apparentemente inspiegabili agli occhi dei compagni, qualche periodo di deconcentrazione, onde studiando di meno, in quei frangenti, era logico che rendesse anche di meno. E se poi, in aggiunta malaugurante, intoppava per tutto ciò in qualche votaccio o insufficienza ulteriori, erano guai: Giovanni si scoraggiava, sebbene gli insegnanti non se ne accorgessero più di tanto. Tuttavia ha sempre tenuto alto il suo rendimento, secondo la generale tradizione della classe. E questo istinto del dovere, rappresenta a mio avviso, uno dei suoi principali meriti.
Giovanni ha carattere socievole; gli piace la brigata e la combriccola e se ci scappa in più la beffa e lo scherzo, si può star certi, della sua firma prima di quella altrui.
Un giorno sconfortato per le basse votazioni ricevute da uno o due insegnanti dell'occasione, decise di non venir più a scuola. A casa andava dicendo ai genitori: Con la scuola ho chiuso; vado a pascolare le pecore; anzi faccio qualsiasi altro lavoro, ma là non ci torno più.
Il suo babbo, comprendendo che l'origine del malinteso era nell'Istituto di Pieve, venne una mattina in orario di lezione, a parlare con l'insegnante. Bussò dunque a lectio inoltrata e si presentò a tutti con ancora la tuta blù da lavoro, che non aveva tolta per non perdere tempo a cambiarsi. Fu perciò salutato dal professore; e tutta la scolaresca si alzò in piedi, deferente.
Ma l'uomo andò subito al sodo: Mio figlio non vuol più venire. E pensare che mancano pochi mesi al Diploma.
Veda se riesce a convincerlo, rispose interdetto il professore; noi, io da parte mia, garantisco tutta la mia collaborazione; parli anche col preside....
Alla fine, il babbo dopo dieci minuti di conversazione, sembrò rincuorato, e se ne dipartì, con qualche soluzione in cuore che chiaramente intravedeva. E aveva ragione perché dopo un paio di giorni, Giovanni tornò a scuola più ricomposto e fermo di prima. Per quell'anno, più non si guastò, e anzi conseguì il diploma e oggi fa l'Ispettore superiore forestale, con pieno merito e titolo.
Perché durar fatica a dir Giampiero, cioè due nomi in uno, vale a dire Gianni e poi Piero? Meglio, dicevano i compagni, chiamarlo Peo. Il Peo, sebbene fosse amico di tutti, aveva in particolare due amici; ed erano entrambi di Pieve Santo Stefano e quel che più conta, eran tifosi del Sulpizia. Cioè talvolta andavano insieme a vedere la partita della squadra di calcio locale (il Sulpizia), e questa esperienza li legava un po di più, oltre alle comunanze scolastiche e paesane. Chi erano dunque questi amici particolari? Erano Il Marini e il Cresti.
Giampiero aveva un carattere dal tono determinato, cercava la chiarezza nei fatti come nelle lezioni scolastiche. Quando non capiva qualcosa, tentava di rimediare; nascondeva però la difficoltà iniziale; ma fatti i dovuti calcoli e appurato che la colpa del maleintendere era più della malaspiegazione che sua, poteva anche publicamente dire che non aveva capito, sebbene ciò fosse raro.
Visto il carattere, non era tanto difficile intavolare una discussione animata col Peo. Bastava pungerlo in ciò che più gli premeva e lo interessava. Bastava per esempio, contraddire le sue opinioni mattiniere circa gli ultimi eventi locali e nazionali delle partite di calcio, magari proprio il lunedì mattina, quando il sabato e la domenica avevano costituito già una introduzione e un'avventura partecipata.
Il Peo dunque poteva discutere animatamente, ma oltre non andava mai. Pertanto anche per eventuali professionisti della provocazione, egli era un baluardo inespugnabile, e per giunta coadiuvato dai fidi, Cresti e Marini, che non lo contraddivano quasi mai.
Tuttavia, è noto come ci sia un limite a tutto. E un giorno il Peo dovette ufficialmente prendere posizione contraria a qualcosa di insopportabile e turbatorio, invero punginante per l'equilibrio delle lezioni quotidiane. Cioè dovette opporsi risolutamente al cosidetto, metodo delle domande.
Vi era infatti un compagno e amico di sua classe, che oltre a domandare frequentemente, pretendeva con altrettanta frequenza, una risposta a tutto o quasi. E' evidente che costui ambiva a capire e a studiare, a digerire le lezioni prim'ancora dei compiti casalinghi; e intendeva farlo specialmente con frequenti domande alla fine o a volte durante la lezione. Ciò poteva disturbare. E quel giorno toccò al Peo. Egli andava notando tra sé, che al contrario di altre volte, quando le stesse domande chiarivano il discorso, stavolta lo ingarbugliavano.
Pertanto uscì allo scoperto e disse chiaramente : Queste domande mi sembrano fuori luogo. Non capisco se le fai perché vuoi effettivamente una spiegazione o perché vuoi metterti in mostra di fronte alla classe. A volte son portato a pensare che la vera ragione sia quest'ultima.
Ora il lettore si chiederà chi fosse il somministratore del metodo delle domande. Ebbene, ero io, che vi scrivo. Se poi vi chiedete anche chi avesse ragione, io col mio metodo o il Peo con la sua osservazione (peraltro condivisa da altri), la risposta è che non vi avevo malizia alcuna, ma soltanto inquietudine giovanile di fronte alla conoscenza e alla vita stessa.
Il Peo però, da amante della chiarezza quale era, ebbe il merito di aprire una riflessione e richiamare alla realtà secondo la quale, in una classe ci sono tutti e non solo quelli che più motivati a capire o più capaci (effettivamente più capaci o che si ritengono tali), possono eventualmente monopolizzare l'attenzione a scapito di altri. Le domande sulla lezione, devono invero, tener conto anche degli altri e non solo di se stessi.
Aveva un'intelligenza portata alle materie tecniche. Egli poteva meditare in gran segreto le lezioni e di fronte a un problema di matematica o di fisica, mentre il resto della classe anfanava nella discussione circa la soluzione migliore, il Cresti discretissimo, senza retorica alcuna, proprio quando tutti attendevano una risposta ed erano ormai al culmine della pazienza, poteva semplicemente confidare la sua soluzione, ed era sempre perfetta; era sempre una soluzione su misura per salvare la classe dalla non soluzione e il professore dal dubbio di aver ben spiegato o no. Ma era raro comunque, che nessuno risolvesse il problema dato quale esercizio; però quando ciò capitava, il Cresti emergeva naturalmente per ciò che era; e dispensava a tutti che non potevano non ammirarlo, la sua unica soluzione.
In generale, Paolo era schivo e disciplinato, rideva persino con moderazione. Tuttavia, era sempre ben presente ai fatti delle lezioni come a quelli della giornata; onde si potrebbe dire che egli c'èra ma quasi non si sentiva o non si notava. E ciò poteva essere, perché faceva parte del suo stile, del suo modo di essere e di vivere la scuola e l'immagine sua, presso i compagni.
Insieme al suo fido Peo, il Cresti, in realtà soffriva la vita dello studente. Egli non vedeva l'ora di prendere il volo e andare a lavorare; essere indipendente il più possibile e una volta per tutte, da un sistema, quello scolastico, che dava si cultura (e per questo era apprezzabile), ma non dava l'essenziale, cioè i soldi per vivere e mantenersi una famiglia.
Perciò corre voce che con queste premesse, il Cresti e il Peo, appena diplomati, rifiutarono il posto sicuro e publico da agenti forestali; ed entrambi scelsero invece l'avventura privata: il Pellegrini gestisce da anni una rivendita di macchine agricole, in località Anghiari; il Cresti infilatosi quale dipendente in un negozio di articoli sanitari in Arezzo, oggi ne è divenuto una specie di direttore o vicedirettore di fatto: sembra fare e progettare tutto lui, la dentro. Si è fatto o l'anima o un'anima insostituibile.
Il Mosconi sembrava non difettare in niente e non eccellere in niente, tranne che in questo: chiunque gli chiedesse un favore, anche se fosse costato sacrificio, non riceveva mai una risposta negativa. Si era dunque creata l'opinione giusta, dei meriti di questo nostro romagnolo. Pertanto era da tutti benvoluto e stimato.
Angelo, più che studiare, studicchiava. Ciononostante andava oltre le sufficienze necessarie per proseguire il corso. Pertanto le sue capacità erano superiori ai risultati conseguiti. E in questo rientrava un po nella norma della classe quinta B, la quale era un potenziale d'apprendimento e professionalità, a mio avviso, molto superiore a quello che la scuola richiedeva per conseguire il diploma. Onde sarebbe bene che in casi simili, il sistema scolastico si facesse carico maggiore di misurare meglio le abilità e i potenziali successi professionali e futuri. Infatti la consapevolezza delle proprie capacità è un fattore importante nella vita, ed è necessario svilupparla al massimo negli allievi.
Tornando al Mosconi, debbo dire che in cinque anni di vita scolastica, non l'ho mai visto litigare con qualcuno, non l'ho mai visto prendere un brutto voto o arrabbiarsi per averne preso uno; non l'ho mai visto esaltarsi per aver preso un bel voto. Angelo era dunque un maestro d'equilibrio interiore e di gestione della buona immagine esteriore. Insomma dava sempre di se una impressione positiva, e con abilità metodica e piuttosto insolita, si sottraeva a ogni cosa che potesse far indurre qualcuno a pensare il contrario, sia tra gli insegnanti che tra i compagni di banco. Con questo modo di fare, egli rappresentava nella classe, un cardine di stabilità, una garanzia di coesione del gruppo, un fattore benefico e costruttivo, che bilanciava pertanto ogni eventuale tendenza contraria.
10. PAOLO GIRONI |
Longilineo e morazzo, un po' svogliato, un po' scavezzacollo, non sapeva bene per quali motivi effettivi frequentava il corso da agrotecnico. Forse voleva un giorno lavorare con la polizia forestale. Forse voleva dirigere qualche azienda agricola. Fatto sta che essendo sicuro che qualcosa doveva fare "da grande", intanto era bene che finisse di studiare.
Mettersi seduto accanto e chiedergli che chiarisse le sue idee, non era impresa facile visto il suo carattere e visto che dopotutto a quell'età e in quel contesto, tra i coetanei, le differenze di saggezza e buon consiglio delle vicende della vita, non sono poi così diverse e marcate. Insomma, un anziano, un professore, avrebbe potuto interrogare meglio il Gironi e ricavarne migliore comprensione. Noi poveretti compagni, dovevamo prenderlo come era e quel che più conta, come ci sembrava che fosse. Questo però non significa che egli fosse effettivamente come ci appariva.
Paolo era persona buona e amichevole, ma difficilmente solidale in un percorso lungo di fatica e disciplina; a un certo punto bisognava ogni volta lasciarlo fare come meglio preferiva, se di preferenze ne aveva. Ed egli talvolta prediligeva brontolare. Insomma se aveva qualcosa da dire, anche contro gli insegnanti, non poteva fare a meno di esternarlo; ma era vero anche il contrario, cioè se aveva qualche apprezzamento da fare, lo stesso lo buttava addosso al branco, e nessuno potevasi sottrarre.
Tuttavia Paolo era per lo più in buona sintonia col gruppo; onde mai avrebbe brontolato o apprezzato o esternato più di tanto, se l'opinione generale non l'avesse appatentato. Perciò egli funzionava un po da audace pungiglione della classe, quando c'èra da combattere contro qualcuno; invece diventava una specie di spontaneo e benefico ambasciatore, quando si dovevano notificare buone notizie. Insomma il suo posto e il suo ruolo erano dinamici e ampiamente riconosciuti. Nessuno lo malvoleva e tutti gli s'amicavano. Eccetto tuttavia, quando partiva di sua iniziativa, senza patente collettiva: allora nessuno fiatava, tanto sapeva per esperienza che non sarebbe stato ascoltato. Inoltre se aveva da brontolare, ormai tutti conoscevano che era meglio lasciarlo sfogare.
Il Gironi, condivideva con la maggioranza la passione del calcio. Entrava facilmente nelle discussioni in proposito e nei pomeriggi del convitto era sempre in prima fila al campo della Pieve. Li però non c'erano solo discussioni animate, ma talvolta l'avversario diventava un problema da risolvere. Allora, visti i caratteri, non credo sia da escludere il venire alle mani. Ma presto tutto rientrava e quello che resta, dopo tanto gioco e apprezzabile tempo, è la bellezza di quelle giornate all'aperto, sotto la faccia del sole e il sereno del cielo valtiberino, tra amici con un bel campo e un bel pallone e tanta voglia di correre. Resta invero, anche il senso della perizia, il gusto del protagonismo e dell'ardito, l'idea della squadra, la forza del serrare le file, e finalmente la soddisfazione del gol, a coronamento di ogni abilità e di ogni fatica, usate lealmente. Resta anche il ricordo delle sconfitte accettate in umile diniego di squadra. E così tra lo studio e il pallone, si può dire che il tempo bene trascorreva.
11. MAURO BETTI |
Tutti sapevano che era figlio di un professore di musica o di un musicologo. Pertanto collegavano il suo tratto gentile e distinto, con queste origini un po borghesi e comunque lontane dall'esercizio popolare dell'agrotecnica. Il Betti infatti aveva un suo senso dell'ordine, e del ben vivere: era sempre curato nella persona e odiava chiaramente gli eccessi del malfare e del maldire. Pertanto nella classe aveva il ruolo di giudice contro gli eccessi: per esempio le parole eccessive del turpiloquio, gli scherzi volgari, il vestirsi trasandato, venivano regolarmente presi di mira dall'ironia umoristica del Betti. Infatti costui tra le varie qualità vi aveva anche questa: un certo ottimismo del carattere e della intelligenza che si sposava a meraviglia col gusto ironico che dominava. In conclusione alla fine dell'anno scolastico, un ipotetico osservatore della classe, avrebbe potuto cercare di quantificare quanto buon comportamento in più si doveva in tutti quanti, all'ottimismo umoristico del Betti, e quanto invece alla sola istituzione Scuola, col suo apparato di professori e regole, pur necessari.
Non si deve credere però che le frecciate ironiche di Mauro fossero a senso unico. Ogni classe infatti è un organismo complesso e ha una sua conformazione fisiologica e mentale; anzi ha anche un suo cuore dominante. Pertanto questa fisiologia e questo cuore, rispondevano a loro modo. Una di queste risposte era colpire il Betti in qualche suo difettuccio fisico. Ciò avveniva spesso nell'ora di educazione fisica, perché dovendo correre e giocare, il Mauro non poteva nascondere i suoi piedi un po' troppo piatti; e dunque veniva allegramente "ricambiato" per questa sua deprestanza. Ma in generale, non solo era ben accetto da tutti, bensì rappresentava un cardine della brigata; la quale mai senza il Betti, si sarebbe da sola caricata d'ira o sdegno o di troppa indifferenza. Quando Mauro mancava, la classe osava di meno e se ne stava più depressa, in attesa del suo ritorno, sebbene nessuno lo confidasse.
12. CARLO CANTERINI |
Era un esempio di personalità fortemente in divenire, avente due tratti dominanti: il primo consisteva in una propensione ammirabile per la tecnica e l'esercizio selvicolturale e agricolo; il secondo tratto era invece più complesso e articolato, per niente facile da riferire, senza il pericolo di sbagliare:
riguardava il suo modo di porsi e socializzare, onde da un lato era spontaneo e semplice, facilmente amico di tutti; dall'altro sembrava talvolta non avere e non volere avere opinioni sue ben delineate e precise, onde appariva nell'intimo un ligio obbediente ai pensieri dominanti della classe o a quelli dell'amico più vicino, anche se talvolta divergeva con la stessa classe, nei colloqui particolari tra singoli. Queste divergenze erano però momentanee: in caso di discussione animata e publica, il Canterini finiva quasi sempre dalla parte della maggioranza, anche se poco prima, diceva esattamente l'opposto, nella confidenza amichevole e personale.
Un giorno si decise che quale esercitazione di stima aziendale, avremmo da soli, stimato il valore dell'Azienda Agricola Ferroni. Si intendeva dimostrare, io e il Canterini, che di fronte a noi, i tecnici o dottori agronomi o forestali, eran poca cosa. Fu dunque redatto un canovaccio relazionale dell'impresa. Si acquistarono per l'occasione tre quattro manuali d'estimo, e si cominciò il lavoro. Dai oggi e ripiglia domani, alla fine, benché calati nell'entusiasmo dopo pochi giorni, tuttavia venne fuori un valore. Ma questo aveva un difetto in caso di vendita effettiva: era troppo basso.
Il prof. Ferroni, informato della stima, arricciò dunque il naso, ma non tutto il resoconto poteva forse essere decifrato a dovere dallo stesso Ferroni: infatti da quei manuali del Corso di laurea per dottori forestali e agronomi, avevamo cavato un po' troppo, e anche di superfluo, e persino di non chiaro a noi stessi. Ma ormai s'èra deciso e non ci si poteva tirare indietro facilmente. Il Ferroni dunque, prese da noi distanza, e appena fu solo, crollò mesto il capo: la sua azienda valeva molto di più e disse mezzo indignato e mezzo sconsolato: Guarda un po che mi combinano questi ragazzi . Ma il bello è che, nel profondo dell'animo, non era del tutto sicuro che noi s'avesse proprio sbagliato. La matematica non è un'opinione.
Un'altra volta, sempre io e il Canterini, ci dichiarammo i migliori gestori di biblioteca in tutta la Toscana. E perché ? S'aveva notato che esisteva alla Pieve una prestante biblioteca comunale; mentre noi che si voleva studiare (almeno a parole) avevamo pochissimi libri; e se s'andava in biblioteca, non si trovavano molti libri di selvicoltura e di agraria. Pertanto si decise di fare una proposta d'acquisto. Cercammo dunque un alleato tra gli insegnanti perché gli impiegati comunali ci prendessero più facilmente sul serio. Non trovammo nessuno, tranne il prof. Silvestri. Fu dunque redatto un elenco di libri da consegnare al direttore della Biblioteca, col Silvestri nostro patrocinante. Ma il professore, ogni volta rimandava prendendo a scusa o un viaggio o una lezione o un convegno... . Pertanto si decise d'andar da soli dal signor Direttore. Entrati che fummo, chiedemmo come prima cosa, un Trattato di pedagogia dell'insegnamento da additare al Silvestri e colleghi (a nostro giudizio un po' ignorantelli in materia), poi un breve elenco selvicolturale e agronomico. Perciò, fatto l'ordine, mediante Lettera raccomandata, si informava solennemente il corpo docente, compreso il Silvestri e il signor Preside, che se volevano più addottorarsi in pedagogia, il Trattato, era in arrivo.
Il Goretti non aveva il passo lungo di chi fa nessunissima fatica a conseguire i successi scolastici. Sebbene non fosse un campione di studiosità, era evidente quanto ammirabile, certa sua fatica quotidiana per cercare di stare al passo e non esser squalificato dalle insufficienze e dal disonore conseguente. Perciò nella giornata scolastica la preoccupazione della interrogazione imminente, quella di un compito scritto andato male, alla fine avevano un posto rilevante. E il buon Goretti procedeva dunque, segnato e insieme promosso, da questa dignitosa fatica o impegno.
Massimo reagiva perciò in due modi: non si tirava mai indietro e non si dichiarava mai sconfitto. La pertinacia era un'arma. Ma ciò che ancor più egli cercava per vincere, era l'aiuto e l'amicizia dei compagni. Pertanto la generale affabilità del Goretti, dettata sia dal bisogno effettivo di conseguire migliori risultati sia dall'indole valdarnese e bonomica, conquistava la classe. Tutti volevan bene al Goretti. E anche tra gli insegnanti, comprendendo la situazione o volendo valorizzare e premiare l'impegno sincero, quando l'interrogavano si notava nei migliori, un maggiore sforzo di comprensione e di migliore spiegazione rispetto all'ordinario.
Un giorno dovevo riferire su un capitolo di fisica. Il prof. Massaini, nostro conduttore in questa materia, m'aveva prestato un manualone universitario, scritto da un nome altisonante, certo Toraldo di Francia. Pertanto mi recai presso la cattedra, come era d'uso in questi casi e nelle interrogazioni orali. Il Goretti, temeva che questi approfondimenti straordinari non contemplati dal piano ordinario di studio, aumentassero le sue difficoltà d'inseguimento delle sufficienze, che già erano anche troppe. Pertanto mi gettava di soppiatto qualche occhiata da interdetto e se poteva, confabulava coi vicini per allentarsi un poco la preoccupazione. Ma stavolta mi aspettava un insuccesso. Infatti alla fine del discorso relazionale, il buon professore che fino allora aveva confermato tutto, si ferma, riflette e poi dice: Bene bene. Con quest'ultima conclusione tu m'hai dimostrato di non aver capito niente!
Il Goretti, appassionato di calcio, sentendosi finalmente rincuorato, s'alzò in piedi, alzò le braccia fulmineamente come allo stadio subito dopo il gol, e mentre tutti lo guardavano incuriositi, disse: Bene ti sta. Così impari ad approfondire in più del necessario .
Con pronta risposta, uno scroscio di risata collettiva, oltrepassò la stanza scolastica, e venne notato persino dalle classi limitrofe alla nostra.
L'ultima volta che ho visto Massimo Goretti è stato a Pieve Santo Stefano alla festa del 1999. Dopo qualche anno, stroncato da una malattia, è morto lasciando a Firenze, la moglie e un figliolo e a Malva la sua tomba e i suoi genitori.
14.
ORLANDO METOZZI
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O. Metozzi, Ritratto da artista fiorentino, febbraio 2008 | |||
Gita a Capri, 1978. Sulla barca. Al centro Orlando Metozzi. Sono riconoscibili a sinistra, Goisis e Pellegrini, a destra Mosconi e Baccanelli. Si va a visitare una grotta nelle vicinanze di Capri. |
Era profondamente legato al gruppo e ai propri compagni; ma allo stesso tempo due aspetti interiori e urgenti lo sollecitavano, talvolta lo isolavano: la bellezza della scienza e il mistero della vita.
La scienza è cosa bella e utile; molto però dipende, a riguardo dei giovani, come viene insegnata e da chi. Questo come e questo chi li sentiva, il Metozzi, utili e sufficienti; tuttavia non sempre, e quando ciò capitava, non veniva nascosto. In questo contesto il cosidetto metodo delle domande (già accennato sopra a riguardo del ritratto Pellegrini) era una diretta conseguenza: bellezza e utilità della scienza presentate da quella o quell'altra pedagogia, da quella o quell'altra scuola di pensiero o media superiore che fosse, finiva che talvolta i conti a riguardo di un'unica verità, non tornavano. E' vero che oggi usa dire che nessuno ha la verità in tasca; ma questo non autorizza tutti o molti o pochi che siano, ad avere in tasca soltanto le stupidaggini e le mezze verità fatte passare per intere. In conclusione il Metozzi fu sempre consapevole che la verità della scienza esiste eccome; bisogna però fare attenzione a tutti i come si insegna e a tutti i chi insegna, onde tale verità, che coincide anche con la massima bellezza del sapere, non venga arbitrariamente menomata o abbrutita.
Quanto al secondo aspetto, cioè il mistero della vita, avvertito come imperante e insieme affascinante, trattavasi di un livello superiore, più profondo e vasto di quello suddetto della bellezza della scienza. Tuttavia vi era una interconnessione quotidiana tra le due cose o livelli. Infatti la scienza fa lume sulla natura e anche sul posto dell'uomo nel contesto naturale. Pertanto lo scienziato (e nel suo piccolo anche lo studente che apprende), più di quelli che tale scienza meno conoscono e meno coltivano, è particolarmente aiutato dall'esperienza quotidiano-scientifica, a indagare e filosofare sul mistero stesso della vita. Perciò se il Metozzi amava la bellezza della scienza era anche perché essa introduceva alla bellezza del mistero della vita stessa, oltre che alla valenza professionale; anche se invero, tale mistero era molto sminuito da quei cattivi maestri e loro adepti erronei, neganti la Creazione e Dio stesso.
Ora questo concetto che adesso è chiaro, allora era più oscuro e in fase di compimento: ma comunque c'èra e costituiva lo stesso, il nucleo principale dell'essere.
Un giorno il Metozzi decise di fare una lezione per conto suo. Finita la scuola, andò al convento di Camaldoli. Chiese di parlare col frate più dotto. E' fra Giacomo, gli fu risposto.
Dimmi fra Giacomo, proseguì il Metozzi, perché tu credi tanto certamente in Dio, mentre a scuola si impara che ci sono quelli che dicono il contrario, cioè che Dio non è da credere perché non esiste?
Rispose dunque, solenne e un po interdetto il frate: Se Dio non esistesse, chi ha fatto le cose che esistono? Le han fatte forse quelli che dicono non esserci Dio? Inoltre, chi ha fatto noi stessi? Ci siamo fatti forse da noi? In realtà è l'uomo la principale prova dell'esistenza di Dio, sol che lo stesso uomo, consideri e indaghi se stesso con animo umile e retto.
15. Mario Spignoli |
Mario Spignoli, Intervistato da una TV locale, nel 2003 |
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Acquerello 45 x 30; anno 2003 Papavero dipinto dallo Spignoli. |
Presente alla lezione quanto alle confidenze amichevoli, ciononostante era poco notato dagli insegnanti. Egli se ne stava sempre nei banchi della zona medio-bassa della classe, perciò lontano dalla cattedra e più vicino ai colleghi. La presenza dello Spignoli era pertanto tanto discreta e equilibrata quanto scontata. Egli non aveva molti motivi per mostrarsi di più come non aveva molti motivi per nascondersi. Se interrogato rispondeva, se ignorato da tutti, rimaneva sempre presente, ma in sostanziale discrezione.
Però le cose cambiavano e di molto, nelle ore di esercitazione fisica e nelle partite di pallavolo. Allora la sua naturale abilità atletica faceva la differenza: nella corsa e negli attrezzi e in ogni esercizio del corpo era il primo senza rivali; nelle partite, nonostante la statura mediobassa, si rendeva comunque insostituibile per la squadra che l'ingaggiava. Il suo stile di gara, consisteva nel mantenere sempre la sua compostezza misurata, secondo le necessità e i calcoli del tragitto eventuale e del tipo di traguardo da raggiungere per primo; ma nei punti limite o decisivi, caricava il tutto di superiore potenza e velocità; pertanto i concorrenti (con poche eccezioni) rimanevano sempre dietro di lui, non potendo disporre di tanto potenziale.
Dopo la maturità lo Spignoli andò ad abitare a Latina essendosi sposato in quella città. Là continuò il suo rapporto con lo sport raggiungendo risultati considerevoli e gestendo anche una Scuola di Educazione fisica. I successi dell'agrotecnico sportivo, sono così elencati da un giornalista del web:
Tutti, credo, ricorderanno le imprese sportive di Mariolino che tre decennì fa
rammentarono al mondo l' esistenza di San Piero in Bagno (Forlì). Nel
'76 arriva secondo negli 800 metri al Campionato Italiano Allievi, l' anno dopo
vincerà questi campionati nella gara di Firenze. Nel 1978, passato alla
categoria "Juniores", si piazza sempre secondo ai campionati italiani,
quasi un preludio al primo posto conquistato nel 1979 a Bologna con cui si
laurea Campione Italiano Juniores degli 800 metri.
Mario è anche pittore. Alcune sue opere sono esposte in una Galleria Online (Crf : sopra, il Papavero ). Ogni tanto partecipa a delle mostre. Per esempio nel 2003 e 2007, a quella detta Maggio Sermonetano perché tenentesi nel paese di Sermoneta a 17 km da Latina, e sempre in provincia di Latina.
Un giorno vi era alla Pieve una gara podistica collettiva dalla città verso la località detta Belvedere. Mario, sentendosi forse superiore al resto dei partecipanti, non si dette cura di portarsi subito in testa a guidare l'andatura. Orbene lungo il tragitto, si racconta che trovò un certo Seoli, che si era impuntato, cioè non voleva partecipare in nessun modo. Costui gradiva isolarsi e inciprignire tutto il giorno, perché diceva, Tanto io non vinco e non ho motivo di partecipare. E con lui alcuni altri seguaci del non poter vincere, gli facevan corona e lo confermavano nel malproposito.
Lo Spignoli, vedendo il gruppetto immusito, uscì dalla pista magnanimamente e chiese la partecipazione di tutti, loro compresi. Ma questi non volevano cambiare idea, sebbene gli sembrasse strano che a invitarli fosse proprio quel che più correva. Alla fine sembra che Mario stesso disse: Se non rientrate anche voi, mi siedo qua in questo masso, e non partecipo neppure io. Colpiti in breve dalla affermazione inaspettata, non potevano avere sulla coscienza le dimissioni del favorito della gara, ormai noto nell'ambiente scolastico. Infatti se avessero persistito, avrebbero suscitato le proteste publiche di tutti i concorrenti e organizzatori. Pertanto, sebbene senza entusiasmo, si rimisero a corseggiare pian pianino sulla pista.
Lo Spignoli riuscì cionostante a riacciuffare il gruppo di testa. Ma quel che più conta è che alla fine della gara, e anche nei giorni seguenti a scuola, il Seoli e i quattro-cinque seguaci inizialmente disertori, parlavano anche loro con soddisfazione e certo entusiasmo, per aver partecipato alla Gara di Belvedere.
16.
Stefano Scala
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Silenzioso viveva un suo mondo giovanile mezzo appartato, mezzo disinteressato allo studio. Lo Scala, più di chiunque nella classe, faceva fatica a seguire le lezioni. Il suo sistema d'apprendimento e del modo d'essere era in crisi per motivi difficilmente spiegabili. Forse l'origine del tutto, si colloca nelle esperienze extrascolastiche. Sembra che il nostro avesse un nutrito gruppo di tali clienti fuorilezione, i quali passavano gran parte della giornata e del tempo libero, a fumare spinelli e a condurre una vita da mezzi hippy. E' probabile pertanto che la ragione della arrendevolezza e dell'insuccesso di Stefano, sia da cercare nelle amicizie sanpierane fuori dalla scuola.
Nonostante le difficoltà, Stefano giunse fino alla quarta. Poi abbandonò e disparve da ogni nostra cognizione. Si seppe in seguito che terminò con un diploma da cameriere. Dunque, se ciò è vero, cambiò settore .
L'insuccesso scolastico di qualcuno in una classe, può costituire motivo di rilievo; ma l'età e l'assenza, presto seppelliscono il ricordo. Rimane tuttavia nascosta e semisommersa, la tristezza del fiasco, una occasione mancata per cause e motivi oscuri. Rimane anche il sospetto che tutti non abbiano fatto il proprio dovere tra genitori, amici e insegnanti. E lo Scala avrà fatto il proprio dovere?
17. Paolo Testi | ||
Metozzi e Testi al piazzale Michelangelo (FI), nel 1976, in seguito a un sopraluogo da esercitazione, nei boschi circostanti. La scolaresca, viaggiava con un pulman dell'Istituto Selvicolturale di Pieve S. Stefamo (AR). Sullo sfondo si distingue il Duomo di Firenze, o S. Maria del Fiore. A destra, particolare ravvicinato, di Paolo Testi: distratto dall'obbiettivo, stava guardando il famoso panorama fiorentino. |
Paolo Testi abbandonò agli inizi del terzo anno, avendo conseguito il diploma da Esperto forestale.
Il Testi è persona allegra, armata di ottimismo, portata al lavoro piuttosto pratico rispetto al teorico. E ciononostante capace di capire bene anche la teoria dell'azione e della professione. Perciò avrebbe potuto facilmente diplomarsi. Non so quindi quali motivi lo spinsero ad andarsene. Probabilmente il desiderio di lavorare e raggiungere l'autonomia anche economica.
Amava molto lo Sport, la pallavolo e specie il calcio. E per entrambi aveva una certa natural prestanza fisica e un suo stile, di notevole eleganza. Questa eleganza e le preferenze connesse, maggiormente eran rilevabili per il gioco del calcio, dove non bisogna essere troppo alti di statura e dove il Testi, indirizzava maggior passione.
FINE